Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

domenica 28 ottobre 2012

NOI C'ERAVAMO, NOI CREDEVAMO, NOI LOTTIAMO.



C'eravamo il 15 Ottobre dello scorso anno a sfidare i black blok e la polizia che spezzava il corteo, per protestare contro le politiche che consentono a pochi di essere sempre più ricchi e lasciano interi popoli nell'abbandono e nell'indigenza, ci siamo stati anche quest'anno, ieri, 27 Ottobre, prima volta in cui l'Italia che non soggiace ai ricatti, che mette al primo posto la necessità di tassare i più ricchi e garantire ai più deboli un reddito di cittadinanza tale da impedire che la disperazione da abbandono e da marginalità dilaghi nel suicidio di massa, ha alzato finalmente la testa con dignità, per dire un basta forte e chiaro.
Avremmo voluto essere ancora di più, avremmo voluto marciare uniti ad un sindacato che invece di mandare in ordine sparso i lavoratori in sciopero a farsi colpire da ulteriori tasse mascherate da proteste di singole categorie, avrebbe già dovuto convocare uno sciopero generale di proporzioni oceaniche. Ma tant'è, noi c'eravamo, noi credevamo..
Oggi c'è in ballo la dignità e il futuro di un intero popolo che ha di fronte un bivio: o seguire i ricatti dei mercati, i cui arbitri non sono Zeus nell'Olimpo o la sua consorte Giunone, e nemmeno il Dio senza nome dell'universo giudaico-cristiano, ma hanno precisi nomi e cognomi di personaggi e istituti finanziari da rapina speculativa globale, oppure, non come dicono certuni millantatori del nulla, certi poveri e meschini scherani della meteorologia del capitalismo senza regole e freni, rovesciare il tavolo, ma piuttosto rinegoziare seriamente i vincoli con cui interi popoli sono tenuti con il cappio al collo e si preferisce salvare le loro banche piuttosto che i servizi vitali di cui i cittadini non possono fare a meno. Tenendo soprattutto conto che, salvare gli stati con i loro servizi sociali, costa, tra l'altro, anche meno che salvare gli istituti finanziari.
Oggi, in Italia, con la piena complicità di un sistema mediatico che sistematicamente manganella ogni possibilità di dissenso, impedendole anche minimamente di apparire e di rialzare la testa, perché la costringe alla nullità da mancanza di finanziamenti e di mezzi per comparire, un apparato politico trasversale di complici della millantatrice meteorologia del mercati, non fa altro che assicurarsi la continuità dei propri privilegi, scaricando i costi della sua inefficienza e della crisi strutturale del sistema capitalistico sulla gente, sul popolo, fino a costringerlo alla mancanza di libertà e di democrazia, con la fiducia ad un governo di tecnici arroganti e inefficienti, il cui compito è palesemente quello di scongiurare ogni qualsiasi tipo di cambiamento.
Novanta anni fa entrava in scena una dittatura rozza e violenta, oggi ne abbiamo una che pretende di essere raffinata e morbida, ma che, di fatto, ha azzerato sia la sovranità popolare sia ogni tipo di dissenso.
Ieri, nonostante la furia denigratoria dei nuovi dittatori della tecnocrazia grigia dell'Italia contingente che vorrebbero far lavorare i servitori di uno Stato che loro usano per incrementare i loro privilegi, di più, ma con stipendi inferiori, esattamente come si fa con un servo, nonostante la protezione indebita offerta ad un popolo, in pieno stile taglieggiatorio, con tasse invereconde che si abbattono indiscriminatamente su tutto e su tutti, anche sui beni essenziali ed indispensabili, come la casa di abitazione, mentre i grandi patrimoni restano sempre intoccabili, nonostante il silenzio acquiescente della pseudosinistra che si candida a governare proseguendo la strada dell'imbambolamento delle masse dei lavoratori con la litania dei sacrifici a senso unico, noi c'eravamo, noi lottavamo.
Perché noi credevamo, noi crediamo e noi crederemo che un'altra Italia e un altro mondo non solo sono possibili, ma anche doverosi e necessari.
Purtroppo abbiamo constatato che anche certa sinistra antagonista prosegue con degli slogan astratti che il popolo non capisce e di conseguenza non segue, provate infatti a chiedere cosa ne sa del fiscal compact il cittadino che chiude le saracinesche per paura della devastazione o l'anziano che capita per caso per strada o lo studente che ancora studia la storia delle date e delle grandi battaglie, oppure la casalinga che deve solo far quadrare i conti in famiglia.
Per questa gente gli slogan sui massimi sistemi del capitalismo in crisi strutturale non funzionano più, e non per niente questa gente o non vota o lo fa seguendo le suggestioni di un leader populista e demagogo, ancor di più se sa divertire, da autentico professionista del settore.
La sinistra che vuole riconquistare alla causa del vero cambiamento, in nome della giustizia e della libertà quel consenso miseramente desertificato nell'astensionismo o nell'applauso che si mescola alla risata dissacratoria e sgangherata, ha bisogno non di una narrazione, magari senza nemmeno il lieto fine, ma con l'unico epilogo dell'imbroglio consociativo, ma di una seria e convincente proposta politica alternativa che parta dalla tutela dei beni e dei sevizi comuni, dalla necessità di far pagare chi non ha mai pagato, e dalla garanzia che non ci sarà mai nessuno lasciato morire di disperazione e di abbandono, tanto meno chi sta peggio ed è pure colpito da una disabilità.
Le forze della sinistra non di matrice strettamente comunista hanno una grande responsabilità nel portare avanti questo compito, come per un dovere morale immancabile, per un imperativo categorico della coscienza morale, prima ancora che politica, così come hanno fatto da sempre quelle minoranze illuminate che hanno seriamente e concretamente cambiato la storia di questo Paese, dal Risorgimento alla Resistenza.
Per questo, esse hanno il dovere di emergere prima come soggetti politici autonomi sicuramente riconoscibili, combattendo una battaglia di avanguardia con altre forze politiche, contaminandole con un linguaggio ed una prassi nuova, e non limitandosi alla mera lotta di retroguardia che resti confinata in un associazionismo trasversale permanentemente relegato nell'apnea dell'inazione politica da altri partiti, di piccole o grandi proporzioni.
E' tempo di finirla con i perché rivolti ai tutori, e tempo di assumersi la responsabilità di dare in prima persona delle risposte, che implicano un impegno diretto sul campo e il diretto sostegno anche a chi scende concretamente nel teatro della lotta, come chi si candida ad amministrare la capitale ha fatto ieri, partecipando alla collegialità di una protesta comune, in tutti i modi nascosta e scongiurata anche con false previsioni meteorologiche, dai media servi dell'ideologia dominante. Quella della ineluttabilità del presente come fenomeno naturale, come se la speculazione e la corruzione fossero niente altro che terremoti o tsunami o inondazioni, di fronte ai quali non ci restano che i sacchetti di sabbia ed i loro insabbiatori.
La Lega dei Socialisti diventati grandi e adulti, e senza quindi né bavaglio e né tutore, è scesa in campo ieri insieme al Nuovo Partito d'Azione, piccoli passi per due piccoli gruppi politici, ma salti straordinari per l'umanità e la capacità dell'Italia libera nuova di esserci e di testimoniare un'altra verità, che dirada sia le nebbie di quella ideologica dei mass media dominanti, sia quella sterilmente polemica ed autoreferenziale che non di rado si dispiega nel web.
La verità di ieri non ha bisogno di narrazioni e tanto meno di narratori, si narra da sola, con i fatti, abbiamo gridato a chiare lettere che l'Italia non ha bisogno di papponi di stato che facciano pagare il costo della sua prostituzione di massa ai più poveri e disgraziati, riservando le migliori “prestazioni” ai più ricchi e privilegiati.
Questo è il linguaggio che la gente capisce perché lo sente, lo soffre e lo sconta sulla propria pelle.
Siamo sicuri che in molti ci hanno intesi. Non è che un debutto, altri scenari ci attendono per scelte e lotte sempre più concrete, decisive e soprattutto unitarie.
La piccola sinistra laica degli antichi e intramontabili valori etici prima ancora che politici, vuole sfidare quella ideologicamente identitaria alla prova dei fatti e della condivisione, lo fa senza spocchia ma semplicemente con la tenacia del camminatore instancabile che vuole arrivare ad una meta importante e condivisa.
Non ci fermeremo, continueremo, fino alla vittoria, sempre!
C.F.




lunedì 22 ottobre 2012

Convivialità: passaggio dallo stadio animale all’umano


Leonardo Boff

La specificità “essere umano” è sorta in forma misteriosa e di difficile ricostruzione storica. Ma ci sono indizi che 7 milioni di anni fa a partire da un antenato comune sarebbe cominciata la separazione lenta e progressiva tra le scimmie superiori e gli umani.
Etnobiologi e archeologi ci indicano un fatto singolare. Quando i nostri antenati antropoidi uscivano a raccogliere frutti, sementi, cacciagione e pesce non mangiavano ognuno per conto suo. Prendevano gli alimenti e li portavano al gruppo. E così praticavano la convivialità, il che vuol dire: dividevano gli alimenti tra di loro e li mangiavano in modo comunitario. Questa convivialità ha permesso il salto dall’animalità in direzione dell’umanità. Piccola differenza, totale differenza.
Quello che ieri ci ha resi umani continua ancora oggi a farci di ancora umani. E se non c’è, diventiamo disumani, crudeli e senza pietà. Non è questa, purtroppo, la situazione dell’umanità attuale?
Un elemento produttore di umanità strettamente legato alla convivialità è la culinaria, tecnica relativa alla preparazione degli alimenti. Bene ha scritto Claude Lévy-Strauss, eminente antropologo che ha lavorato molti anni in Brasile: «Il dominio della cucina costituisce una forma di attività umana veramente universale. Come non esiste società senza linguaggio, così pure non c’è nessuna società che non cucini qualcuno dei suoi alimenti».
500.000 anni or sono l’essere umano ha imparato a fare il fuoco e a controllarlo. Con il fuoco ha cominciato a cucinare gli alimenti. Il «fuoco culinario» è ciò che differenzia l’essere umano dai mammiferi complessi. Il passo dal crudo al cotto è considerato uno dei fattori di passaggio dallo stadio animale allo stadio di essere umano civilizzato. Con il fuoco è nata la culinaria, propria di ciascun popolo, di ciascuna cultura e di ciascuna regione.
Non si tratta mai soltanto di cucinare gli alimenti ma di dar loro sapore. Le varie culinarie creano abiti culturali, non raramente vincolati, da noi, a certe feste come il Natale (tacchino), la Pasqua (uova di cioccolata), primo dell’anno (carne suina), la festa di San João (granturco bollito) e altre.
Nutrirsi non è mai un meccanismo biologico individuale. Mangiare in modo conviviale è comunicare con gli altri che mangiano con noi. È comunicare con le energie cosmiche che soggiacciono agli alimenti, specialmente la fertilità della terra, il sole, le foreste, le acque e i venti.
In ragione di questo carattere sacro del mangiare/consumare/comunicare tutta la convivialità è in qualche modo sacramentale. Abbelliamo gli alimenti, perché non mangiamo soltanto con la bocca ma anche con gli occhi. Il momento di mangiare è uno dei più attesi del giorno e della notte. Esiste la coscienza istintive e riflessa che è senza mangiare non c’è né vita, né sopravvivenza, né allegria di esistere e di coesistere.
Per milioni di anni di essere umani sono stati tributari della natura, prendevano da lei quello di cui avevano bisogno per sopravvivere. L’appropriazione dei frutti della natura si evolve e viene isolata la loro produzione mediante la creazione dell’agricoltura che suppone la domesticazione e la coltivazione di sementi e piante.
Dieci o dodici mila anni or sono è avvenuta forse la maggiore rivoluzione della storia umana: da nomadi, gli esseri umani diventarono sedentari. Fondarono le prime città (12.000 a.C.), inventarono l’agricoltura (9000 a.C.) e cominciarono a domesticare e allevare animali (8500 a.C.). S’innescò un processo di civilizzazione estremamente complesso con successive rivoluzioni: industriale, nucleare, cibernetica, nanotecnologica e dell’informazione fino ad arrivare a noi.
Innanzitutto si domesticarono cereali e vegetali selvatici, probabilmente a opera di donne più osservatrici del ritmo della natura.
Tutto ha inizio a quanto pare nel Medio Oriente tra il Tigri e l’Eufrate nella valle degli indù dell’India. Lì vennero domesticati grano, avena, lenticchie e piselli. In America Latina, granoturco, avocado, pomodoro, mandioca e fagioli. In oriente, riso e risino, in Africa granturco e sorgo.
In seguito verso il 8500 a.C., si domesticarono specie animali, a cominciare da capre, pecore, poi il bue e il porco. Tra i gallinacei la gallina fu la prima e tutto il processo agricolo è stato facilitato dall’invenzione della ruota, della zappa, dall’aratro e da altri utensili di metallo verso il 4000 a.C.
Questi pochi dati oggi sono presentati scientificamente da archeologi e etnobiologi che usano le più moderne tecnologie: carbonio radioattivo, microscopio elettronico, analisi chimica dei sedimenti, delle ceneri, del polline, degli ossi e carboni di legna. I risultati permettono di ricostruire com’era l’ecologia locale come si operava l’utilizzazione economica da parte delle popolazioni umane.
Siccome si seminava e si raccoglievano grano o riso, si potevano creare delle riserve, organizzare l’alimentazione di gruppi, fare crescere la famiglia e la popolazione. C’era da guadagnarsi la vita con il sudore della fronte. Fu fatto con furore. Il progresso dell’agricoltura e dell’allevamento di animali fece scomparire lentamente la decima parte di tutta la vegetazione selvatica e degli animali. Non c’era ancora la preoccupazione per la gestione responsabile dell’ambiente. E’ difficile anche solo immaginarlo, data la ricchezza delle risorse naturali e la capacità di rigenerazione degli ecosistemi.
A ogni modo neolitico mise in marcia un processo che giunge fino ai giorni nostri. La sicurezza alimentare e il grande banchetto che la rivoluzione agricola avrebbe potuto preparare per tutta l’umanità nel quale tutti sarebbero ugualmente commensali, non ha potuto ancora essere e celebrato. Più di 1 miliardo di esseri umani stanno ai piedi della mensa aspettando qualche briciola per potere calmare la fame. Il vertice mondiale dell’alimentazione celebrato a Roma nel 1996 che si propose di sradicare la fame entro il 2015, dice che “la sicurezza alimentare esiste quando tutti gli esseri umani hanno, in qualsiasi momento, un accesso fisico economico a una alimentazione sufficiente, sana e nutritiente, permettendo loro di soddisfare le loro necessità energetiche e le loro preferenze alimentari per poter condurre una vita sana e attiva”.
Questo proposito è stato assunto dalle Mete del Millennio dell’ONU. Purtroppo la stessa FAO ha comunicato nel 1998 e adesso l’ho fatto anche l’Onu, che questi obiettivi non saranno raggiunti a meno che non sia superato il fossato troppo grande delle diseguaglianze sociali.
Finché non facciamo questo salto non completiamo ancora la nostra umanità. Questa è la grande sfida del secolo 21º, quella di arrivare a essere perfettamente umani.



domenica 21 ottobre 2012

IL RAPPORTO TRA I SOCIALISTI ITALIANI E IL CONCETTO DI “GOVERNO”

di Giuseppe Angiuli

In questi ultimi tempi, nei quali la Lega dei Socialisti sta cercando – non senza qualche difficoltà - di definire la sua identità politica ed il suo ruolo strategico per l’avvenire, sento molti compagni esprimere delle riflessioni inquiete che investono alcuni concetti-chiave dell’agire politico.

Ma siamo diventati un soggetto della “sinistra radicale” o vogliamo puntare ad essere “sinistra di governo”?
Che ci facciamo con le nostre insegne alla manifestazione del NO MONTI DAY del 27 ottobre?
Ma non è che ci stiamo trasformando in un luogo di “gruppettari” e che ci stiamo “isolando” dagli altri soggetti della sinistra (PD, SEL, ecc.)?

La risposta a simili interrogativi richiede un esame che vada alla radice semantica delle parole, intese nel loro corretto significato.
Che vuol dire oggi essere “socialisti”?
Che significa essere “sinistra di governo”?
Rispetto a chi ed a che cosa occorre evitare di “isolarsi”?

Un detto antico recita: HISTORIA MAGISTRA VITAE.
Basterebbe studiare a fondo la storia del socialismo italiano sin dalle sue origini per trovare una bussola che permetta di dare risposte credibili ad interrogativi importanti come quelli a cui si è fatto cenno sopra.

Una prima cosa decisiva da capire è che, se la costruzione di una nuova società giusta costituisce (o dovrebbe costituire) da sempre l’orizzonte strategico di tutti i socialisti (ossia il famoso “sol dell’avvenire” a cui alludeva Giuseppe Garibaldi in una celebre lettera all’amico Celso Ceretti), la tattica del breve-medio periodo che i socialisti hanno perseguito nel corso della loro storia è sempre mutata, risentendo inevitabilmente del preciso momento storico in cui essi si sono concretamente trovati ad operare.
Come ho ricordato nel corso del mio intervento all’assemblea romana della Lega dei Socialisti del 14 ottobre scorso, quando i pionieri del socialismo italiano (tra gli altri, Andrea Costa, Filippo Turati e Antonio Labriola) misero mano alla fondazione del socialismo italiano, il primo obiettivo che essi si posero davanti non fu quello di conquistare il potere mediante la partecipazione alla competizione elettorale interna alle istituzioni dello Stato liberale ottocentesco; né per loro ebbe ad acquisire un valore affatto decisivo il rapportarsi con il tradizionale quadro politico che, all’epoca dell’Italia post-unitaria, occupava la scena, allora dominata dal confronto tra Destra e Sinistra storica.
Al contrario, per i pionieri del socialismo italiano, l’obiettivo prioritario in quella precisa fase storica fu quello di costruire una chiara e netta identità politica, mediante l’adattamento al contesto nazionale delle idee del socialismo scientifico loro consegnate da Marx ed Engels.
E quelle nuove idee erano talmente forti e dirompenti che essi compresero benissimo che la loro efficace diffusione tra i lavoratori italiani non sarebbe potuta mai avvenire se i socialisti non si fossero presentati come qualcosa di nettamente distinto e di diverso rispetto a tutto il panorama che fino a quel momento aveva occupato lo scenario politico dello Stato liberale.

Per comprendere a fondo la questione in parola, è emblematico analizzare la fase embrionale delle più significative esperienze organizzative del socialismo italiano (anteriori alla fondazione del PSI a Genova nel 1892).
Ad esempio, Andrea Costa, dopo avere in un primo momento diffuso idee anarchiche sul solco della Prima Internazionale dei Lavoratori, si decise a costituire il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna: tale soggetto politico per diverso tempo si mosse unicamente nelle campagne e nei borghi della Romagna, organizzando una fitta rete di leghe, cooperative e associazioni solidaristiche (prototipo degli odierni sindacati), il cui spirito unitario fu cementato dai fogli della propaganda socialista, che plasmavano una nuova coscienza di classe nelle genti che da tempo immemore erano state solamente abituate ad obbedire a soggetti che al giorno d’oggi definiremmo come “poteri forti”.
Anche l’azione politica di un altro pioniere del socialismo italiano, Camillo Prampolini, originario di Reggio Emilia, fu avviata in un primo momento solo sul terreno squisitamente sociale e non certo su quello politico-istituzionale (il socialista reggiano è passato alla storia principalmente quale antesignano del movimento cooperativo emiliano e nazionale).

L’insegnamento che deve essere tratto dalla rilettura di queste vicende storiche è che il socialismo italiano giunse a rivestire un ruolo politico incisivo all’interno delle istituzioni parlamentari soltanto dopo anni di lenta incubazione delle proprie idee all’interno della società e dopo che i primi socialisti ebbero a discutere a lungo tra di loro sulla stessa opportunità di partecipare alle competizioni elettorali, cosa che molti di loro – a cominciare proprio da Andrea Costa e da Antonio Labriola (il cui contributo di pensiero per la fondazione del PSI fu assai importante) – non davano affatto per scontata!

Soltanto dopo avere organizzato efficacemente le classi lavoratrici all’interno della società italiana, partendo dalle campagne e dalle officine, i primi socialisti poterono fare eleggere Andrea Costa alla Camera dei Deputati, in una posizione di assoluta indipendenza ed autonomia dalla “Sinistra” storica di Agostino De Pretis - cosa che gli consentì, tra le altre cose, di condannare autorevolmente il nascente imperialismo coloniale inaugurato dal Governo Crispi con la spedizione di Adua del 1896 - ma assumendo al contempo una grande incisività e azione politica autonoma presso le classi lavoratrici italiane.
E fu soltanto al passaggio del secolo, e cioè dopo che i socialisti si erano messi a capo di vasti moti popolari para-insurrezionali tra il 1893 (Fasci siciliani) e il 1898 (i moti del pane di Milano), e dopo che Filippo Turati ebbe provato perfino a respirare l’aria delle patrie galere, che i socialisti poterono contribuire a sbloccare il sistema politico bipolare e classista dell’età liberale e trovarono per la prima volta uno sbocco partecipativo al governo Giolitti-Zanardelli e, in tale quadro politico inedito, fecero approvare le prime radicali riforme del sistema sociale e del lavoro.

Ponendoci una domanda paradossale, cosa sarebbe accaduto se il PSI, sin dalla sua fondazione, avesse puntato da subito ad andare al Governo del Paese se prima non si fosse forgiato in anni ed anni di generose lotte dal basso, grazie alle quali conquistò la fiducia di milioni di lavoratori italiani, condotti per la prima volta ad assumere un ruolo di soggettività politica nel Paese?

E comunque la si pensi sul senso della collaborazione turatiana ai governi dell’età giolittiana, resta chiaro un concetto: la partecipazione dei socialisti italiani a quelle esperienze di Governo restò sempre legata a precisi punti qualificanti dell’azione governativa e portò all’approvazione di riforme vere (tra cui la prima forma di tutela del lavoro femminile e minorile), che migliorarono non di poco le condizioni materiali delle plebi italiane.

E dunque, se per i socialisti, a prescindere dal mutare delle condizioni storiche, la bussola dell’agire politico deve restare sempre l’obiettivo di trasformare la società e favorire l’elevazione sociale e culturale delle classi lavoratrici, si comprende bene che la loro partecipazione al Governo del Paese ed alla vita delle istituzioni non può rappresentare un fine in sé e per sé dell’attività politica ma può tutt’al più costituire un mero strumento di lotta politica, praticabile in alcuni contesti storici ma non certo in tutte le fasi.

Anche i socialisti di seconda generazione, come Pietro Nenni, dovettero vivere una prima lunga fase di battaglie nella società, in momenti storici in cui era diventato necessario fare perfino le barricate in piazza per poter conquistare un minimo di agibilità politica (come Nenni fece, giovanissimo, nella sua Faenza), prima di potere arrivare a porsi la concreta possibilità di entrare nella “stanza dei bottoni”, cosa che lo stesso Nenni accettò di fare solo nel 1963 con la nascita del primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana[1].

Pertanto, se per i socialisti la conquista del governo nelle istituzioni non può che costituire soltanto un mezzo per trasformare la società (nel senso, ovviamente, di favorire un miglioramento delle condizioni sociali e materiali delle classi lavoratrici) e non può essere un fine immanente dell’agire politico, allora si comprende quanto sia riduttivo e fuorviante – per tornare ai giorni nostri – ragionare in termini in cui molti compagni sono oggi soliti ragionare: “Ma ci alleiamo o no con S.E.L.”?;  “Ma siamo o no sinistra di governo”?; “Ma vogliamo consegnare il Paese alla Destra?” e così via dicendo.

Quel che prima di tutto occorre capire è la particolare congiuntura storica in cui ci troviamo oggi a vivere e ad operare, in Italia come in Europa.
Siamo all’interno della più grave crisi che il capitalismo occidentale abbia mai affrontato da prima della seconda guerra mondiale ad oggi.
In questa fase, dovrebbe risultare evidente a chiunque abbia spirito libero e non sia condizionato da “secondi fini” di carattere opportunistico, che le forze del capitalismo finanziario stanno portando a compimento un lungo programma di “lotta di classe”, messo in atto da almeno un ventennio a questa parte.
Tale programma mira essenzialmente a due obiettivi: realizzare un colossale spostamento di ricchezze dai ceti medio-bassi a quelli alti della nostra piramide sociale e, in secondo luogo, attuare una ristrutturazione oligarchica della nostra società, con una progressiva e inarrestabile azione di svuotamento di tutti i poteri delle istituzioni democratiche e con un progressivo azzeramento della sovranità popolare.
Tutto ciò avviene in un contesto di istituzioni sovra-nazionali (l’Unione Europea dei Trattati di Maastricht e di Lisbona) che non consente ai Parlamenti nazionali di adottare alcun tipo di politica redistributiva e di rilancio dell’occupazione.

E quel che è più grave è che nel nostro panorama politico nazionale, il quadro realistico sopra descritto (di sostanziale “sabotaggio” della democrazia rappresentativa) viene sottaciuto da tutte le principali forze politiche della “Sinistra” italiana, da quelle più imponenti, come il P.D. (che di popolare non ha più nulla ma che è anzi il primo referente delle oligarchie oggi al comando, come dimostrano le amicizie non nascoste del “rottamatore” Renzi) a quelle minori, come S.E.L. e il piccolo P.S.I. di Nencini le quali – in buona o cattiva fede, sarà la storia a rivelarcelo – non muovono di fatto alcuna critica pregnante verso i principi fondativi dell’Unione Europea ultra-liberista di Maastricht e di Lisbona, accettando così di risultare del tutto subordinati alle relative logiche.

E a tutto ciò si aggiunga che ormai una buona metà dell’elettorato italiano – soprattutto quello afferente alle classi popolari ed ai ceti medi – sembra ormai avere bene compreso la natura sostanzialmente omogenea dei due principali schieramenti del circo politico-mediatico nazionale (centro-sinistra e centro-destra) di fronte a tutti i punti nodali dell’economia e della società, a partire dalla conclamata incapacità di entrambe le coalizioni di dare una risposta seria al bisogno di lavoro, casa e diritti promanante da milioni di cittadini in estrema difficoltà, che vedono di giorno in giorno peggiorare le proprie condizioni di vita.

E allora, se il quadro è quello appena descritto, ragionando in un’ottica storica ma guardando all’autunno del 2012, coloro i quali intendono assumere su di sé l’onerosissimo incarico di ricostruire una cultura del socialismo italiano, rispetto a quali soggettività devono preoccuparsi di non “isolarsi”?
Diventa più essenziale, per loro, intavolare oggi trattative con Bersani, Renzi o Vendola oppure interagire con milioni di lavoratori italiani che, non solo non sanno che farsene delle primarie interne al centro-sinistra ma che non hanno alcuna intenzione nemmeno di andare a votare alle prossime elezioni politiche, di cui percepiscono fin da ora la sostanziale inutilità?

E’ più importante oggi per i socialisti essere presenti alle primarie del centro-sinistra (ossia partecipare ad un gioco farsesco in cui si sa fin da ora quale futuro reciproco ruolo toccherà a ciascuna di esse) o è più importante porsi alla guida dei movimenti sociali di lavoratori ventenni e trentenni disoccupati o precari che rischiano di non avere più nella loro vita un lavoro stabile, una casa di proprietà e una posizione pensionistica?

E’ da “gruppettari” partecipare al NO MONTI DAY il prossimo 27 ottobre, vale a dire ad una delle pochissime situazioni in cui ai veri socialisti può toccare il compito che nella loro storia essi hanno spesso saputo assumere, cioè quello di porsi alla guida dei movimenti, per offrire loro uno sbocco politico realistico ed adeguato ai tempi?

Al giorno d’oggi è “anti-politico” appassionarsi agli squallidi talk-show tra Renzi e Bersani o provare a ridare una rappresentanza politica a milioni di persone che se ne sentono prive?

E può essere mai così decisivo per i socialisti, nel contesto odierno, porsi come obiettivo tattico prioritario quello di come raggiungere nel modo più facile l’occupazione di scranni parlamentari dal cui conseguimento potrà ricavarsi, nella migliore delle ipotesi, soltanto il ruolo di passacarte e di ratificatori di un impianto legislativo ultra-liberista che, ormai da un ventennio, viene concepito non più a Montecitorio ma nei freddi uffici della B.C.E. e della Commissione Europea?

Quale margine di visibilità atta a rilanciare la loro gloriosa storia potrebbero mai ricavarsi, al giorno d’oggi, i socialisti, all’interno di uno schieramento di centro-sinistra “di governo” il cui programma appare già cristallizzato sulla carta e non è passibile di alcuna sostanziosa modifica che metta in discussione quanto meno il fiscal compact e lo scellerato principio del pareggio di bilancio inserito addirittura nella nostra carta costituzionale?

Quali “riforme” migliorative delle condizioni delle classi lavoratrici italiane potrebbero mai ottenere i socialisti dalla partecipazione ad un futuro Governo di “centro-sinistra” quando è da 20 anni che i ceti medio-bassi italiani al solo sentire nominare la parola “riforma” hanno solo da tremare?

E allora, se siamo onesti fino in fondo, dobbiamo rispondere nel modo seguente al più importante dei quesiti amletici da cui ha mosso i suoi passi il presente scritto.
Se la Lega dei Socialisti si sta trasformando in una banda di “gruppettari”, come insinuato da diversi compagni scettici rispetto alla linea decisa a maggioranza all’assemblea del 14 ottobre, vuol dire che anche Andrea Costa, Filippo Turati, Antonio Labriola e Camillo Prampolini erano dei “gruppettari” ante litteram.


21 ottobre 2012.
Giuseppe Angiuli


[1] E non si dimentichi che il PSI di Nenni, prima di imbarcarsi nella sua prima esperienza al Governo del paese, ottenne delle importanti rassicurazioni dalla D.C., che poi trovarono effettiva attuazione, tra le quali la nazionalizzazione dell’ENEL, la riforma agraria e la riforma scolastica curata da Tristano Codignola.
 

venerdì 19 ottobre 2012

Dio, questo conosciuto sconosciuto

Leonardo Boff
Teologo/filosofo

Il 5 e il 6 ottobre in Assisi è stata realizzata una nuova edizione dell’ «Atrio dei Gentili», iniziativa delle Pontificio Consiglio per la Cultura del Vaticano, riguardante la questione di Dio. Il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano e Cardinale Gianfranco Ravasi, direttore del Consiglio e famoso esegeta biblico, hanno fatto un dialogo coinvolgente su “Dio, questo sconosciuto”.
Con l’ “Atrio dei Gentili” si compie uno sforzo ulteriore per portare al dialogo credenti e non credenti. L’Atrio era lo spazio intorno al tempio di Gerusalemme accessibile ai gentili (pagani) che, per il resto, mai sarebbero potuti entrare nel tempio. Adesso si cerca di togliere gli interdetti perché tutti possano accedere al tempio.
A questo proposito mi permetto una riflessione che mi accompagna da tutta la vita di teologo: pensare Dio al di là delle oggettivazioni religiose (metafisiche) e tentare di interpretarlo come Mistero sempre sconosciuto e, allo stesso tempo, sempre conosciuto. Perché questo cammino? Einstein ci segnala una pista: “L’uomo che non ha occhi aperti al Mistero passerà la vita senza mai vedere niente”. Effettivamente, dovunque noi volgiamo lo sguardo, verso il grande o verso il piccolo,verso fuori o verso dentro, verso l’alto o verso il basso, da qualsiasi lato, troviamo il Mistero. Il Mistero non è lo sconosciuto. È il conosciuto che ci affascina e ci attrae per conoscerlo sempre più. Al tentativo di conoscerlo, noi percepiamo che la nostra sete e fame di conoscenza mai si sazia. Nello stesso momento che Lo conosciamo, egli ci sfugge in direzione dell’ignoto. Lo inseguiamo senza posa e anche così lui rimane sempre Mistero in tutta la conoscenza, causandoci attrazione invincibile, timore profondo e riverenza irresistibile. Il Mistero semplicemente è.
La mia tesi di base è questa: nel principio era il Mistero. Il Mistero era Dio. Dio è il Mistero. Dio è mistero per noi e per Se stesso.
È mistero per noi nella misura in cui mai finiamo di conoscerLo, né attraverso la ragione né attraverso l’amore. Ogni incontro lascia un’assenza che porta a un altro incontro. Ogni conoscenza apre una finestra per una nuova conoscenza. Il Mistero di Dio non è il limite del conoscere ma l’illimitato del conoscere. È l’amore che non conosce riposo. Il Mistero non rientra in nessun schema e nemmeno viene imprigionato nelle maglie di una qualche religione, chiesa o dottrina. Lui sarà sempre da conoscere.
Il Mistero è una Presenza assente. Ma anche, un’assenza presente. Si manifesta nella nostra assoluta insoddisfazione che instancabilmente e invano cerca soddisfazione. In questo va e vieni tra Presenza e Assenza si realizza l’essere umano, tragico e felice, completo ma non rifinito.
Dio è Mistero in se stesso e per se stesso. Dio è Mistero in se stesso perché la sua natura è Mistero. Cioè: Dio in quanto Mistero si autoconosce e pertanto il suo auto conoscimento non ha fine. La conoscenza della sua natura di Mistero è ogni volta intera e piena e, al tempo stesso, sempre aperto una nuova pienezza, rimanendo sempre Mistero, eterno e infinito per se stesso. Se non fosse così, non sarebbe quello che è: Mistero. Pertanto, Lui è un assoluto Dinamismo senza limiti.
Dio è Mistero per se stesso, cioè: per quanto lui si autoconosca mai si esaurisce questa suo conoscenza. Rimane aperto a un futuro che è realmente futuro. Pertanto, qualcosa che ancora non è dato, ma che può darsi come nuovo anche per Lui. Con l’incarnazione, Dio ha cominciato a essere quello che prima non era. Pertanto, in Dio c’è un divenire, un diventare.
Ma il Mistero, per un dinamismo intrinseco, permanentemente si rivela e si autocomunica. Esce da sé e conosce e ama il nuovo che emerge da Lui. Quello che emerge non è una riproduzione dello stesso. Ma sempre distinto e nuovo, anche per lui. A differenza dell’enigma, che, conosciuto, si disfa, il Mistero quanto più conosciuto tanto più appare come sconosciuto, cioè, come Mistero che invita a una maggiore conoscenza e a un amore più grande.
Dire Dio-Mistero è esprimere un dinamismo senza residui, una vita senza entropia, una irruzione senza perdite, un divenire senza interruzione, un eterno venire-ad-essere sempre essendo, una bellezza sempre nuova e differente che mai si esaurisce. Mistero è Mistero, adesso e sempre, da tutta e per tutta l’eternità.
Davanti al mistero si ingorgano le parole, svaniscono le immagini e cessano i riferimenti. La parte che ci tocca è il silenzio, la riverenza, l’adorazione e la contemplazione. Questi sono gli atteggiamenti adeguati al Mistero.
Ammettendo tale comprensione, cadono tutti i muri. Non ci sarà più ormai l’ Atrio dei gentili e nemmeno il tempio esisterà più perché Dio non ha religione. Lui è semplicemente il Mistero che compatta o ricompatta tutto, ogni persona e l’intero universo. Il Mistero ci penetra e in esso siamo immersi.

Tradotto da Romano Baraglia

lunedì 15 ottobre 2012

IL CONCETTO DI POTERE PER I CINESI


di Riccardo Achilli

Dalla fondazione della Cina attuale, cioè dal regno di Qin Shi (221 a.c. - 206 a.c.) fino al ventesimo secolo, le monete in uso erano circolari, con un foro quadrato nel mezzo. Nella simbologia del Tao, il cerchio è il Cielo, il quadrato la Terra. Se accettiamo l'idea ovvia che una moneta è un simbolo del potere politico ed economico, il fatto che il Potere sia stato, per quasi tutta la storia cinese, associato ad una immagine di Assoluto, di Universo nel suo insieme, dovrebbe farci riflettere profondamente sul significato che i cinesi danno al potere, evitando quindi di assegnargli un epiteto di assolutismo, sulla base dei nostri criteri occidentali-illuministici.
A differenza di noi occidentali, abituati sin dai tempi greco-romani ad associare il potere politico agli individui che lo detengono (infatti nelle monete romane di epoca imperiale figurava sempre l'effigie del volto dell'imperatore allora in carica) per il cinese il potere è un concetto meno personale, più astratto, coincidente con un'idea di assoluto. Se anche vi è un imperatore personale, o un Grande Leader, come Mao, egli infatti altro non è che il fu-mu (padre e madre) in uno Stato concepito come una grande famiglia, in cui i sudditi sono i figli che devono rispetto. Non esiste il monarchismo individualizzato tipico della cultura occidentale, che porta Luigi XIV ad affermare "l'Etat, c'est moi". Molto più semplicemente, se la famiglia anagrafica è il microcosmo in cui l'individuo vive la sua vita, la famiglia statuale è il suo macrocosmo, ed ingloba tutto quanto. Per cui, esattamente come nella sua famiglia anagrafica, il cittadino dovrà venerare l'autorità dei genitori e degli avi, nella famiglia statuale egli dovrà obbedire agli ordini superiori dei suoi leader.
Da questo punto di vista, i concetti di rappresentatività e di controllo popolare sull'operato del Governo, cari alla democrazia liberale occidentale, sono semplicemente privi di senso per un cinese. Che senso ha controllare o pretendere rappresentatività dai propri genitori? Esattamente come in una famiglia, ogni individuo vive esclusivamente in funzione del ruolo che occupa, ed il rispetto assoluto per le gerarchie e per i ruoli diviene la base stessa che dà significato all'esistenza individuale. Rieccheggia in pieno l'insegnamento di Confucio: come afferma uno studioso di Confucio come Piero Corradini: "l'uomo potrà realizzare se stesso e i suoi valori soltanto nella società ed il fine ultimo della vita umana viene considerato in funzione dell'attività che ogni singolo svolge nella sua posizione sociale che, pur se suscettibile di miglioramento, è sempre, al momento, fissa e ben determinata." 
Poiché il confucianesimo non elabora una dottrina metafisica, la società sarà l'immagine dell'intero cosmo, ed il ruolo disciplinato ed ordinato dell'individuo nella società è fondamentale proprio perché corrisponde al suo ruolo nell'intero universo, e quindi al suo stesso significato essenziale. Da questo punto di vista il significato di "autoritarismo", nell'accezione di noi occidentali, è insensato. E' forse autoritario un padre? Forse, ma comunque e sempre per il nostro bene.
A differenza di ciò che si potrebbe pensare superficialmente, il confucianesimo non contempla un meccanismo sociale rigido ed ingessato. Al contrario, per il suo studio, i suoi meriti intellettuali, la sua devozione ed abnegazione assoluta alle gerarchie ed agli interessi superiori dello Stato, l'individuo può migliorare, evolvere, divenire una sorta di "santo laico", il "junren". Da ciò, deriva che nella mentalità cinese la meritocrazia ha un ruolo molto più forte che da noi. Il funzionario, la vera spina dorsale di una società che, per mantenere la  sua unità nonostante un territorio sterminato e distanze geografiche siderali, nonostante centinaia di etnie e religioni diverse, nonostante le pressioni disgregatrici esterne, si è sempre affidata al ruolo accentratore, autoritario (e quindi unificante) della burocrazia, viene selezionato, anche dai ceti contadini ed operai più poveri, con esami severi. E questo sia in epoca imperiale che in epoca moderna.  l'ambizione assume quindi un connotato diverso da quello occidentale: non è la legittima volontà di dispiegare appieno tutte le potenzialità dell'individuo, come la intendiamo noi, è bensì la capacità dell'individuo di agire per il bene dell'intera collettività: per Confucio l'uomo deve fare e "fare per niente". La pace e la prosperità del popolo e del Paese si realizza soltanto se ciascuno compie disinteressatamente il proprio dovere.

La stessa forma di ragionare dei cinesi è plasmata dal metodo confuciano: a differenza dell'occidentale, che parte dal generale (la teoria) per arrivare al particolare (l'applicazione pratica) il cinese parte da un'immagine concreta per indurne una teoria generale. Ciò peraltro mi ricorda alcuni episodi molto divertenti: durante il mio master, uno dei miei compagni era cinese. Quando i tipici docenti italiani esponevano le classiche lezioni cattedratiche di teoria generale, egli era solito interromperli chiedendo "e allora? In pratica?" Facendoli imbestialire non poco.
Ciò però significa anche che il cinese, proprio per l'abitudine a non ragionare in termini di schemi teorici generali, tende a non utilizzare lo schema dialettico hegeliano: non arriva ad una sintesi come negazione della negazione di una tesi. Al contrario, in ottemperanza al principio confuciano dell'armonia, cercherà sempre il "giusto mezzo" fra tesi ed antitesi, spesso arrivando ad una posizione che fa astrazione della tesi e dell'antitesi iniziali. Lo stesso maoismo teorico è impregnato di questa cultura (inconscia, ovviamente, perché ufficialmente il maoismo rigettava il confucianesimo, in quanto dottrina socialmente tradizionalista e conservatrice). Tutta l'elaborazione maoista sulle contraddizioni, per cui si differenziano le contraddizioni fra popolo ed avversari di classe e le contraddizioni interne al popolo, queste ultime gestibili anche in termini tattici (si veda l'iniziale alleanza fra Mao ed il Kuomintang in funzione anti-giapponese) esprime la ricerca di un punto mediano che in qualche modo smussi la dialettica estrema fra tesi ed antitesi. Molto più consapevolmente, la dirigenza comunista post-maoista ha  esplicitamente  fatto riemergere il confucianesimo dall'inconscio collettivo cinese, cui era stato confinato da Mao, per farne la base dell'istruzione scolastica, sin dalle elementari.
Questa visione del potere, imperniata sul collettivismo che prevale rispetto all'individualismo, sul familismo, sulla costante ricerca del punto mediano di armonia sociale, comporta ovviamente due aspetti, che noi occidentali, con la nostra mentalità, tendiamo a vedere in modo denigratorio, se non addirittura ad utilizzare come sintomi di un presunto "tracollo" imminente del sistema cinese: il paternalismo e la corruzione. Il sistema di potere cinese è paternalista. Lo è sempre stato, proprio perché è concepito come una famiglia. Non esistono però soltanto gli aspetti negativi (scarsa libertà individuale, sacrifici individuali imposti dallo Stato, come ad esempio quelli legati all'adesione a programmi obbligatori, quali quello sul controllo delle nascite o altro, compressione degli spazi per la contestazione e la critica, ecc.) Ha anche effetti positivi, che costruiscono legami di comunità molto più solidi che da noi. In epoca maoista, i cinesi erano organizzati per piccole comunità: la danwei (unità di lavoro) nelle fabbriche, la comunità rurale nelle campagne: queste unità comunitarie di base erano certo il luogo del controllo politico/ideologico del partito, ma anche il luogo della solidarietà, del mutuo soccorso, dei servizi sociali di base (poiché ogni danwei o comune rurale aveva la scuola, l'ospedale, l'asilo, negozi, servizi, ecc.). 

Ancora oggi, in nome di questo paternalismo che noi occidentali esecriamo, ogni cittadino può andare alla locale sezione del partito comunista per esporre problemi di vita quotidiana e chiedere aiuto. Ogni funzionario di base del partito è tenuto ad assicurarsi che i cittadini "siano felici". Fa parte dei suoi obblighi. Ora, nel paradiso occidentale, faccio fatica a vedere il cittadino che si reca alla locale sezione del PD o del PDL per lamentarsi di una bolletta che non riesce a pagare, oppure un attivista di base di tali partiti che fa il giro del quartiere per chiedere ai cittadini se sono felici o se hanno qualche angustia che possa essere risolta dal partito. 
Ancora oggi, le imprese occidentali che investono in Cina sono stupite di sentirsi rivolgere, dai loro lavoratori cinesi, richieste per avere un asilo-nido, una abitazione, il trasporto da casa all'azienda, o la scuola per i figli. Per l'individualismo occidentale, è invece normale regolare il rapporto fra lavoratore e datore di lavoro esclusivamente sulla base di un salario monetario, che poi il lavoratore, nella sua libertà, può spendere per mandare a scuola i figli oppure per ubriacarsi all'osteria. Ciò fa sì che il senso di comunità, di solidarietà e di legame interpersonale, in Occidente, si sia perso, segnando di fatto un arretramento culturale rispetto al tanto vituperato paternalismo cinese. Con enormi danni, ovviamente, per i più deboli, per gli oppressi, e anche per la stessa sinistra politica, la cui malattia degenerativa dipende proprio dall'individualismo crescente, che si è imposto dopo il declino della cultura del '68 (ed anzi, tale cultura conteneva inconsapevolmente i germi di questo individualismo, nella sua ricerca di libertà intesa come auto-realizzazione del Sè: con l'invecchiamento e l'integrazione nel sistema della generazione del '68, tale germe è diventato la pianta velenosa del rampantismo degli anni Ottanta).
Venendo al tema della corruzione, anche questo è distorto, se visto con occhi occidentali. Intanto, per ciò che si è detto, il fattore unificante fondamentale della Cina, che le ha permesso di rimanere unita nonostante le enormi spinte centrifughe e centripete che avrebbero facilmente potuto disintegrarla, è stata la burocrazia. La Cina è da sempre uno Stato burocratico, dai madarini imperiali ai funzionari di partito odierni. La burocrazia ha infatti unificato lo Stato, conferendogli autorità, stabilità, legalità. Però la burocrazia è una classe che non si riproduce generando valore aggiuntivo, poiché è esterna al ciclo di produzione. La sua forma di riproduzione (in un sistema fondamentalmente meritocratico come quello cinese, in cui si accede al funzionariato tramite esami) è, quindi, esattamente basata sulla corruzione, come forma, da un lato, di sfruttamento delle classi produttive, e dall'altro di affermazione del suo potere nella società. Potere necessario a tenere insieme un Paese immenso e profondamente diversificato come la Cina. 
La corruzione è infatti esistita da sempre, era endemica nella Cina imperiale come in quella attuale, e diversi episodi sanguinosi e radicali della storia cinese, quelli cioè in cui l'armonia sociale confuciana si è momentaneamente spezzata, possono essere interpretati anche (benché non solamente) come necessarie fasi di lavacro sociale, nel momento in cui la corruzione raggiungeva livelli oramai eccessivi e socialmente distruttivi. Ad esempio, la fase di instabilità e violenza che va dalla rivolta del Loto Bianco del 1774 alle rivolte degli Hui e dei Miao del 1873, una fase in cui le vittime delle violenze furono il doppio rispetto ai morti della prima guerra mondiale, fu legata anche all'eccessivo livello di corruzione della burocrazia. La stessa Rivoluzione Culturale di Mao, con i suoi strascichi di violenza, fu anche un modo per sovvertire le posizioni di potere acquisite da una burocrazia corrotta. La strage quotidiana e silenziosa perpetrata dai vertici comunisti attuali, mediante la condanna a morte di centinaia di funzionari e dirigenti di partito accusati di corruzione, è la guerra che si sta combattendo oggi. In sintesi, per quanto sia odioso, occorre riconoscere pragmaticamente che la corruzione, in quanto forma di riproduzione sociale della mezza classe dei burocrati, è un male necessario ed inevitabile in un Paese che per sua natura può essere tenuto insieme proprio dalla burocrazia dello Stato. E che la storia cinese ha elaborato sanguinosi anticorpi per ricondurre la corruzione entro limiti fisiologici, quando diviene eccessiva e pericolosa per la stessa tenuta dello Stato.

Queste brevi note possono quindi servire, mi auguro, per contestualizzare le caratteristiche di un sistema politico/sociale che non è né migliore né peggiore del nostro, e per far vedere in diversa luce le tante sciocchezze dette sulla Cina, con le lenti di ingrandimento della nostra cultura occidentale. Ci lamentiamo dell'autocrazia cinese? Però nelle nostre società occidentali, per fasce crescenti della popolazione, sta venendo meno la libertà sostanziale, quella cioè che ci libera dalle esigenze elementari della sopravvivenza dignitosa, perché la nostra libertà è basata sull'individualismo, seme del liberismo, mentre i cinesi ragionano in termini di comunità. Ci lamentiamo del paternalismo del sistema politico cinese? Però, anche nelle fasi economiche prospere, le nostre società sono caratterizzate dalla solitudine e dall'emarginazione e comunque siamo schiacciati, come direbbe Marcuse, in una unidimensionalità produttore/consumatore che non abbiamo scelto e che ci è stata imposta. E poi è anche difficile accusare gli altri di paternalismo da parte di una civiltà che ha prodotto Mussolini e Berlusconi. Ci lamentiamo della corruzione del sistema burocratico cinese? Pur senza avere l'esigenza di tenere unito, con la burocrazia, un Paese sterminato di un miliardo e mezzo di abitanti, anche noi abbiamo una diffusione della corruzione non certo invidiabile. 



Alfredo Mazzucchelli Molto interessante, Riccardo, questa tua analisi sulla concesione cinese del Potere. Ti dico subito che in quanto alla ricerca dell'equilibrio ho trovato delle similitudini col pensiero di Proudhon, la cui dialettica difatti non prevede una sintesi, bensì la ricerca di un equilibrio necessario al buon funzionamento dela società e questo comunque alla luce del mutuo appoggio.

Per il resto, l'incombenza di Confucio in quella società, mista al burocratismo salvifico, non mi pare che abbia giovato un gran che al progresso della società cinese. Un elemento di trascendenza terrena anche autorevole, fatalmente emargina i sudditi relegandoli alla loro condizione di sfruttati e non è che il presentare una supplica al burocrate di turno gli faccia compiere un salto di qualità ai fini di una autogestione delle loro vite. lo schiavo è sempre felice di ricevere qualche frustata in meno ed anche in Cina, chi possiede le "cose" ha il Dominio sugli uomini.

giovedì 11 ottobre 2012

Quarant’anni di Gesù Cristo Liberatore

Leonardo Boff
Teologo-filosofo

Dal sette al 10 ottobre si sta celebrando a San Leopoldo, insieme all’Instituto Humanitas della Unisinos dei gesuiti, il quarantesimo anniverario della nascita della Teologia della Liberazione. Là si trovano i principali rappresentanti dell’America Latina, specialmente il suo primo formulatore, il peruviano Gustavo Gutierrez. Curiosamente, lo stesso anno, 1971, senza che nessuno sapesse nulla degli altri, sia Gutierrez (Perù), quanto Hugo Assman (Bolivia), Juan Luis Segundo (Uruguay) e io (Brasile) lanciavamo i nostri scritti, ritenuti come fondanti questo tipo di teologia. Chissà che non sia stata l’ irruzione dello Spirito che soffiava nel nostro Continente segnato da tante oppressioni?
Io per farmi beffe degli organi di controllo e di repressione dei militari, pubblicavo ogni mese dello stesso anno 1971, su «Sponsa Christi» (La sposa di Cristo), rivista per religiose, un articolo dal titolo: Gesù Cristo Liberatore. A marzo del ’72 misi insieme gli articoli e arrischiai la loro pubblicazione in forma di libro. Mi toccò nascondermi per due settimane, perché la polizia politica mi stava ricercando. Le parole “liberazione” e “liberatore” erano state bandite e non potevano essere usate in pubblico. Ebbe un bel da fare l’avvocato dell’Editrice ( che aveva fatto parte della spedizione brasiliana in Italia nella II Guerra Mondiale) per convincere gli agenti della vigilanza che si trattava di un libro di teologia, con molte note prese dalla letteratura tedesca e che non minacciava lo Stato di Sicurezza Nazionale.
Qual è la particolarità del libro (oggi alla 21ª edizione)? Rappresentava, sul fondamento di una rigorosa esegesi dei Vangeli, una figura di Gesù come liberatore dalle varie oppressioni umane. Con due di queste egli si confrontò direttamente: quella religiosa sotto la forma del fariseismo di stretta osservanza delle leggi religiose; l’altra, politica, l’occupazione romana che comportava il riconoscimento dell’imperatore come “Dio” e assistere alla penetrazione della cultura ellenistica pagana in Israele.
All’oppressione religiosa, Gesù contrappose una “legge” più grande, quella dell’amore incondizionato verso Dio e verso il prossimo. Prossimo per lui è qualsiasi persona alla quale io mi avvicino specialmente i poveri e gli invisibili, quelli che socialmente non contano. Quanto all’oppressione politica, invece di sottomettersi all’ordine dei Cesari, egli annuncia il Regno di Dio, un delitto di lesa maestà. Questo Regno comportava una rivoluzione assoluta del cosmo, della società, di ogni persona e una ridefinizione del senso della vita alla luce di Dio, chiamato “Abba”, cioè “papà” buono e pieno di misericordia che fa sì che tutti si sentano suoi figli e figlie, fratelli e sorelle gli uni degli altri. Gesù agiva con l’autorità e la convinzione di qualcuno inviato dal Padre per liberare la creazione ferita dalle ingiustizie. Mostrava un potere che calmava tempeste, curava malati, risuscitava morti e riempiva di speranza tutto il popolo. Qualcosa realmente di rivoluzionario sarebbe dovuto accadere: la irruzione nel Regno che è di Dio ma anche degli uomini per la loro partecipazione. Sui due fronti creò un conflitto che lo portò alla croce. Appunto, non è morto nel suo letto circondato dai discepoli. ma giustiziato sulla croce come conseguenza del suo messaggio e della sua pratica.
Tutto indicava che la sua utopia era frustrata. Ma ecco che avvenne un evento inaudito: l’erba non fece tempo a nascere sulla sua sepoltura. Delle donne annunciarono agli apostoli che lui era risuscitato. La risurrezione non deve essere intesa come rianimazione del suo cadavere, come quella di Lazzaro, ma come l’irruzione dell’essere nuovo, non più soggetto allo spazio/tempo e all’entropia naturale della vita. Per questo attraversava pareti, appariva e spariva. La sua utopia del Regno, come trasfigurazione di tutte le cose non potendo realizzarla globalmente si concretizzò nella sua persona mediante la resurrezione. È il regno di Dio concretizzato in lui. La resurrezione è il dato più grande, senza il quale il cristianesimo non si sostiene. Senza questo felice avvenimento, Gesù sarebbe come tanti profeti sacrificati al sistema di oppressione. La resurrezione significa la grande liberazione e anche una insurrezione contro questo tipo di mondo. Chi risuscita non è un Cesare o un sommo-sacerdote ma un crocifisso. La resurrezione dà ragione ai crocifissi della giustizia, dell’amore e della storia. Essa ci assicura che il carnefice non trionfa sulla vittima. Significa la realizzazione delle potenzialità nascoste in ciascuno di noi. L’irruzione dell’uomo nuovo.

Come intendere questa persona? I discepoli gli attribuirono tutti i titoli, Figlio dell’uomo, profeta, Messia e altri. Infine conclusero: umano così come Gesù soltanto Dio può esserlo. E cominciarono a chiamarlo figlio di Dio.

Annunciare un Gesù Cristo liberatore nel contesto di oppressione che esisteva e ancora esiste in Brasile e in America Latina era ed è pericoloso. Non soltanto per la società dominante ma anche per quel tipo di Chiesa che discrimina donne e laici. Per questo il suo sogno sempre sarà ripreso da quelli che si rifiutano di accettare il mondo così com’è. È forse questo il senso di un libro scritto quarant’anni fa.



sabato 6 ottobre 2012

Articolare intelligenza e miseria

Leonardo Boff
Teologo/Filosofo

A partire dagli anni 50 del secolo passato sono sorti in Brasile, in seno alla massa degli esclusi, movimenti sociali di natura diversa, tutti con un sogno: rifondare il Brasile, costruendo una nazione autonoma e non più un conglomerato di imprese al servizio del capitale mondiale. Questa forza sociale ha raggiunto dimensioni trasformatrici quando è avvenuta l’alleanza tra questi movimenti popolari con gli intellettuali che, non appartenendo agli strati oppressi, optarono per questi ultimi, ne assunsero la causa, ne appoggiarono le lotte e parteciparono al loro destino, a volte tragico perché segnato da persecuzioni, prigione, torture, esilio e morte, come sta dimostrando la Commissione della Verità.
Con questo la intellighenzia brasiliana ha cominciato a pagare un enorme debito sociale verso il popolo. Ma questa alleanza ha bisogno di essere rifatta e consolidata in continuazione, specialmente adesso che uno dei suoi rappresentanti è arrivato alla presidenza e ha raggiunto risultati politico-sociali mai prima realizzati. Su di lui ricade tutto il peso del preconcetto di classe. Da qui la furia con cui viene attaccato in continuazione con l’obiettivo di annientare la sua leadership carismatica e la conseguente risonanza mondiale.
Ora più che mai l’università dove si formano gli intellettuali, non può più essere ridotta a macro-apparecchio di riproduzione della società decisionista e a fabbrica formatrice di quadri per il funzionamento del sistema imperante. Nella nostra storia patria è stata sempre anche un laboratorio di pensiero contestatario e libertario; è la sua missione storica permanente che deve essere accelerata oggi dato l’aggravamento della crisi generale del mondo.
La sfida maggiore è consolidare le conquiste sociali popolari raggiunte. Per questo la nuova centralità risiede nella costruzione della società civile a partire dalla quale uomini anonimi e invisibili smettono di essere quello che sono e passano essere un popolo organizzato. Senza questo tipo di cittadinanza non ci sono basi per un progetto di reinvenzione del Brasile con democrazia sociale, popolare e quotidiana. Per raggiungere questa meta storica e si fa urgente l’incontro dell’università con la società.
Prima di tutto, importa creare e consolidare un’alleanza tra l’intellighenzia accademica e i condannati alla miseria e alla povertà. Tutte le università specialmente dopo la riforma del loro statuto fatta Humboldt nel 1809 a Berlino, hanno dato al loro corpo le due braccia che fino ad oggi la costituiscono: il braccio umanistico che viene dalle Università medievali e il braccio tecnico scientifico che ha creato l’attuale mondo. Esse sono diventate luogo classico della problematizzazione della vita, dell’uomo, del suo destino, della cultura, di Dio. Le due culture -quella umanistica e quella tecnico-scientifica – sempre più smettono di coesistere e si intercomunicano nel senso di prendere sul serio il loro contributo nella gestazione di un paese con meno diseguaglianze e ingiustizie.
Le università sono sorte per assumere questa sfida: le varie facoltà e istituti devono cercare di mettere radici organiche nella base popolare, nelle periferie e nei settori legati direttamente alla produzione dei mezzi di vita. Qui si può stabilire scambi fecondi di sapere, tra il sapere popolare, fatto di esperienza e il sapere accademico, frutto di studio e di ricerca. Da questo scambio può sorgere la definizione di nuove tematiche teoriche e pratiche e si valorizza la ricchezza del popolo nella sua capacità di risolvere i suoi problemi.
Questa diligenza permette un nuovo tipo di cittadinanza, basata sulla con-cittadinanza: rappresentanti della società civile e delle basi popolari come pure dell’intellettualità prendono iniziative autonome e sottomettono lo Stato a controllo democratico, esigendo dallo stesso servizi del bene comune. In queste iniziative popolari, sia nella costruzione di case in corvées, sia nella ricerca di mezzi per la salute, sia nella forma di produzione di alimenti, sia nella contenimento delle scarpate alluvionali e per mille altri fronti, i movimenti sociali sentono la necessità di un sapere professionale. È qui che l’intellighenzia e l’università possono e devono entrare, socializzando il sapere, proponendo soluzioni originali e aprendo prospettive, a volte inimmaginabili da chi è condannato a lottare solo per la sopravvivenza.
Da questo andirivieni fecondo tra pensiero universitario e sapere popolare può sorgere un nuovo tipo di sviluppo adeguato alla cultura locale e all’ecosistema regionale. A partire da questa pratica, l’università pubblica riscatterà il suo carattere pubblico, sarà a servizio della società e non appena di quei privilegiati che sono riusciti a entrarci. E l’università privata realizzerà la sua funzione sociale, visto che in gran parte è ostaggio degli interessi privati delle classi abbienti e incubatrice della loro riproduzione sociale. Da questo matrimonio tra intellighenzia e miseria nascerà un nuovo popolo libero dalle oppressione per vivere in un paese più giusto.
Tradotto da Romano Baraglia