Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

lunedì 27 maggio 2013

In morte e resurrezione di Don Gallo




                                                            di Diego Fusaro

Se ne è andato il 22 maggio Don Andrea Gallo, il prete di strada di Genova. Ci piace ricordarlo come uno splendido esempio di quella che il filosofo Ernst Bloch chiamava la “corrente calda” del Cristianesimo: ossia di quel pathosnon conservativo che, nel nome del regno dei cieli, aspira a rovesciare il trono dei potenti, instaurando in terra il “regno dei cieli”, la giustizia mondana.
 

In questo, Don Gallo è stato un fedele discepolo di Cristo e come tale occorre ricordarlo. Una vita intera spesa in difesa degli offesi del pianeta, nel tentativo di assisterli, ma poi anche di lottare insieme a loro in nome di qualcosa di più grande della miseria del presente. L’epoca della morte di Dio – Nietzsche docet – è quella del nichilismo pienamente sviluppato: nulla in cui credere o per cui lottare, in un’acefala resa alle logiche illogiche del presente saturato dalle prestazioni sempre più oscene del fanatismo dell’economia.

 

E però Dio – Don Gallo ce l’ha insegnato – torna a vivere ogni qual volta torniamo a sperare in un'ulteriorità nobilitante, in un futuro in grado di riscattare le miserie del presente: una speranza militante, che si traduce operativamente in lotta contro le ingiustizie e in sacrosanta ira in grado di ridisegnare le geometrie dell’esistente. La religione può oggi costituire una preziosa risorsa di resistenza al nichilismo, già solo in forza del suo eroico riconoscimento dell’alterità della forma di merce rispetto alla divinità trascendente

Tutti i quotidiani italiani hanno riportato, sia pure in forme diverse, la notizia della morte di Don Gallo. Tra tutti, però, “Il Giornale” ha scelto un modo davvero particolare di ricordarlo: “muore don Gallo, il prete rosso. Scambiò la Chiesa per una piazza”. Queste le parole del titolo che il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti ha consacrato al ricordo di Don Gallo. Si commentano da sé, ça va sans dire. A suo tempo, scrisse Walter Benjamin: “neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”. Pensiamo che non vi siano parole più efficaci per commentare l’indecoroso titolo scelto da “Il Giornale”. Che il quotidiano di Sallusti non abbia alcuna simpatia per la summenzionata “corrente calda” del Cristianesimo, non è un mistero: come non lo è il fatto che gli sia più congeniale quella “corrente fredda” che, in modo diametralmente opposto, impiega il messaggio dei Testi Sacri per glorificare l’ordine costituito e le ingiustizie dilaganti. Sartre diceva che, quando Dio tace, gli possiamo far dire tutto quello che vogliamo.

 

E, tuttavia, a voler essere coerenti e rigorosi, il quotidiano di Sallusti dovrebbe utilizzare le stesse parole volgarmente impiegate per ricordare Don Gallo anche per ricordare la stessa figura cristica. È particolarmente significativo, a questo riguardo, il fatto – tutti lo sanno e pochi sono disposti a ricordarlo – che il solo episodio di ira di Gesù che ci venga presentato dalle Scritture è quello della cacciata dei mercanti dal tempio. La fede per cui Gesù si immolò era la fede secondo cui il regno di Dio, già instaurato nell’alto dei cieli, doveva essere tradotto nell’aldiqua con comportamenti concreti e azioni conseguenti: “lo Spirito del Signore è sopra di me, e proprio per questo Dio mi ha unto, inviandomi a portare il lieto annuncio ai poveri, a proclamare la libertà dei prigionieri e la restituzione della vista ai ciechi, a promuovere la liberazione degli oppressi, instaurando l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).

 

L’ideale del regno di Dio diventa, nella figura di Cristo, il paradigma alla cui luce agire per attuare l’ideale della giustizia sulla terra, creando una comunità in cui ogni essere umano sia libero di esprimere le proprie potenzialità: “beati coloro che sono senza potere, perché è per essi il regno dei cieli. Beati coloro che sono nell’afflizione, perché è ad essi che sarà dato conforto. Beati coloro che sono capaci di amare, perché saranno gli eredi della terra. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5, 3-6). Non è allora difficile capire, tra Don Gallo e i suoi detrattori, a chi appartenga il regno dei cieli.

da:  http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/in-morte-di-don-gallo-10759.html

domenica 26 maggio 2013

Etica a partire dal riscaldamento globale




                                                 di Leonardo Boff
In alcuni luoghi della Terra si è infranta , tempo fa, la barriera delle 400 ppm (parts per million) di anidride carbonica, il che può comportare disastri socio-ambientali di grande portata. Se non faremo nulla di sostanzioso, andremo incontro a giorni tenebrosi. Non è che non sia possibile fare più nulla. Impossibile bloccare la ruota? Cominciamo almeno a diminuirne la velocità. Possiamo e dobbiamo adattarci ai cambiamenti e organizzarci per minimizzare gli effetti dannosi. Adesso si tratta di vivere radicalmente le quattro erre: ridurre, riutilizzare, riciclare e  riarborizzare. Abbiamo bisogno di un orientamento etico che ci aiuti ad allineare le nostre pratiche nel superamento della crisi attuale.
In questo quadro drammatico, come fondare un discorso etico minimamente consistente che abbia valore per tutti? Finora le etiche e le morali si basavano su culture regionali. Oggi nella fase planetaria della specie umana abbiamo bisogno di rifondare l’etica a partire da qualcosa che sia comune a tutti e che tutti possono intendere e realizzare. Guardando indietro, abbiamo identificato due fonti che  hanno orientato e ancora orientano eticamente e moralmente le società fino al giorno d’oggi: le religioni e la ragione.
Le religioni continuano ad essere la nicchia di valore privilegiato della maggioranza dell’umanità e nascono da un incontro con il Supremo Valore, con il Sommo Bene. Da questa esperienza nascono i valori di venerazione, rispetto, amore, solidarietà, compassione e perdono. Molti pensatori riconoscono che la religione, più che l’economia e la politica, è la forza centrale che mobilita le persone e le porta fino a donare la propria vita (Huntigton).  Altri arrivano persino a proporre le religioni come la base più realistica  e efficace per costruire “un’etica globale per la politica e l’economia mondiali” (Küng). Per  questo le religioni devono dialogare tra di loro. Nel dialogo, sottolineare di più i punti in comune che le divergenze. Con questo si può inaugurare la pace tra le religioni. Questa pace non deve rimanere chiusa in se stessa, ma deve animare la pace fra tutti i popoli.
La ragione critica, da quando ha fatto irruzione in tutte le culture mondiali, nel secolo sesto a.C., nel cosiddetto tempo dell’Asse  (Jaspers) ha tentato di stabilire codici etici universalmente validi, basati fondamentalmente sui valori, con al centro la giustizia. Ma afferma pure la libertà, la verità, l’amore e il rispetto dell’altro. I fondamenti razionali dell’etica e della morale - etica autonoma - hanno rappresentato uno sforzo ammirevole del pensiero umano, da quando i maestri greci Socrate, Platone e Aristotele passando per Emanuele Kant fino ai moderni Jürgen Habermas, Enrique Dussel e, da noi,Hnrique Vaz de Lima, Manfredo Oliveira e altri della nostra cultura. Comunque il livello di convinzione di questa etica razionale è stato modesto e ristretto ad ambienti noti e perciò con limitata incidenza nel quotidiano delle popolazioni. Questi due paradigmi non sono invalidati dalla crisi attuale, ma hanno bisogno di essere arricchiti se vogliamo stare all’altezza delle sfide che ci vengono dalla realtà di oggi profondamente modificata.
Per questo aggiornamento abbiamo bisogno di scendere al livello  in cui si formano continuamente i valori, contenuto principale dell’etica. L’etica, per avere un minimo di consenso, deve sbocciare dalla base comune e ultima dell’esistenza umana. Questa base non risiede nella ragione, come sempre ha preteso l’Occidente. La ragione  - e questo è  riconosciuto dalla stessa filosofia  - non è né il primo né l’ultimo momento dell’esistenza. Per questo non spiega tutto né abbraccia tutto. In essa si apre in basso da dove emerge da qualcosa di più elementare e ancestrale: l’affettività e il sentimento profondo. Irrompe in  alto, per lo spirito, che è il momento in cui la coscienza si sente parte di un tutto e che culmina pertanto  nella contemplazione e nella spiritualità. Pertanto l’esperienza di base non è “penso, dunque esisto”, ma “sento, dunque esisto”. Alla radice di tutto non c’è la ragione (“logos”), ma la passione (“pathos”) che si esprime attraverso la sensibilità e l’affetto. Da ciò lo sforzo attuale di riscattare la ragione sensibile cordiale (Meffesoli, Cortina).

Per questo tipo di ragione captiamo il carattere prezioso degli esseri, quello che li rende degni di essere appetibili. È partire dal cuore e non dalla testa che alimentiamo la vivenza del valore. È in forza dei valori che noi ci muoviamo e siamo. Insomma è l’amore la forza maggiore dell’universo e il nome proprio di Dio. Questa etica può condurci a comportamenti atti ad affrontare il riscaldamento globale. Ma siamo realisti: la passione è abitata da un demonio che può essere distruttore. E’un  torrente fantastico di energia che, come le acque di un fiume, ha bisogno di rive, di argini e della giusta misura. Caso contrario, esonda e distrugge.  È qui che entra in funzione insostituibile della ragione. È  proprio della ragione vederci chiaro e ordinare, disciplinare e definire la direzione della passione. Ecco che sorge una dialettica drammatica tra passione e ragione. Se la ragione reprime la passione, trionfa la rigidezza e la tirannia dell’ordine. Se la passione vuol fare a meno della ragione, allora comanda il delirio delle pulsioni del puro sfruttamento delle cose. Ma, se sarà attivata la giusta misura e la passione si servirà della ragione per un autosviluppo regolato, allora può sorgere una coscienza etica che ci rende responsabili davanti al caos ecologico e al riscaldamento globale. Da quelle parti c’è ancora tanta strada da fare. Tempi Nuovi, Etica nuova.
Traduzione di Romano Baraglia

lunedì 20 maggio 2013

Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso


   
                                              di Diego Fusaro


In questi giorni si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’Iantiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo.
 
Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo.  
 
Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno.
 
Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.
 
Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli.
 
La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge.
 
L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti.
 
Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale.  
 
Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.

Da:
http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/berlusconiani-vs-antiberlusconiani-solito-spettacolo-penoso-10634.html

domenica 19 maggio 2013

Il tramonto di un'alba




                                                di Alfredo Mazzucchelli

La storia della sinistra parlamentarista e legalitaria in Italia inzia con la costituzione del partito socialista su impulso di Andrea Costa, 1892. Due anime principali lo compongono e da subito si contrappongono, quella riformista e quella sedicente rivoluzionaria, massimalista. La gestione del partito da una parte è "elitaria", dall'altra la si immagina chiaramente e decisamente centralista. 27 anni dopo, con il colpo di stato bolscevico in Russia, la situazione si complica ancora di più: la presa del potere da parte della corrente massimalista porterà alla costruzione di un partito unico aderente alla terza  internazionale e via via passato da un centralismo non democratico, ad un centralismo burocratico ( La burocratisation du monde ), per successivamente approdare al centralismo democratico, al compromesso storico tra le masse marxiste e quelle cattoliche, per approdare infine al centralismo autocratico di matrice grillastra. Grillo ha finalmente svelate le sue tattiche e la sua strategia finale: la conquista del potere politico all'interno dello stato capitalista e condito e benedetto dai tanti poteri forti dell'empireo finanziario e consumistico. Tempi felici per i vampiri e tempi grami per gli aspiranti ricostruttori di Babele, ancora una volta confusi, perdenti e smarriti in proposte stantie.


EX MACHINA


giovedì 16 maggio 2013

Costituzionalismo ecologico in America Latina




Le moderne costituzioni si fondano sul contratto sociale di stampo antropocentrico. Non includono il contratto naturale, cioè l’accordo e la reciprocità che devono esistere fra gli esseri umani e la Terra, che tutto ci dà: noi in cambio ne abbiamo cura e la preserviamo. Per questo sarebbe naturale riconoscere che essa e gli esseri che la compongono sono portatori di diritti. I classici contrattualisti come Kant e Hobbes limitavano, invece, l’etica e il diritto unicamente alle relazioni tra umani. Soltanto si ammettevano obblighi umani verso altri esseri, specialmente animali, nel senso di non distruggerli né sottometterli a sofferenze e crudeltà non necessarie.
 Il non considerare che ogni essere possiede valore intrinseco indipendente dall’uso che ne fanno gli umani, uso razionale e che è portatore di diritti di esistere all’interno dello stesso habitat comune, il pianeta Terra, ha aperto il cammino alla mentalità che la natura poteva essere trattata come un puro oggetto de sfruttare, senza nessuna considerazione, in alcuni casi fino all’esaurimento.

È toccato, pertanto, all’America Latina come ha mostrato un noto criminalista e giudice della corte suprema Argentina, Eugenio Raul Zaffaroni (La Pachemama y el humano, Ediciones Colihue 2012)  sviluppare un pensiero costituzionalista della natura ecologica in cui la Terra e tutti gli esseri della natura, particolarmente quelli vivi e gli animali sono titolari di diritti. Questi devono essere inclusi nelle costituzioni moderne che hanno lasciato da parte un radicato antropocentrismo e il paradigma del dominus, dell’essere umano come signore e dominatore della natura e della Terra.

I nuovi costituzionalisti latino americani uniscono due correnti: la più tradizionale, dei popoli originari per i quali la Terra (Pacha) è madre (Mama)  -  da questo il nome di Pachamama – essendo titolare di diritti perché è viva, ci dà tutto quello di cui abbiamo bisogno e finalmente, per la ragione che siamo parte di lei e ad essa  apparteniamo. Come pure gli animali, le foreste, le acque, le montagne i paesaggi. Tutti meritano di esistere e di convivere con noi, costituendo la grande democrazia comunitaria e cosmica.

Alleano questa ancestrale tradizione, efficace, della cultura andina che va dalla Patagonia all’America centrale, alla nuova comprensione derivata dalla cosmologia contemporanea, dalla biologia genetica e molecolare, dalla teoria dei sistemi che intendono la Terra come un super organismo vivo che si auto regola (autopoiesis di Maturama-Varela e Capra) in modo tale da mantenere sempre la vita e la capacità di riprodurla e di farla coevolvere. Questa Terra, denominata Gaia, ingloba tutti gli esseri, genera e sostiene la tela della vita con la sua incommensurabile biodiversità. Essa, come Madre generosa, deve essere rispettata, riconosciuta nelle sue virtualità e nei suoi limiti e per questo accolta come soggetto di diritti -  la dignitas Terrae – base per rendere possibili e sostenere tutti i rimanenti diritti personali e sociali.

Due paesi latinoamericani, l’Ecuador e la Bolivia hanno fondato un vero costituzionalismo ecologico; per questo sono più aggiornati di qualsiasi altro paese cosiddetto “sviluppato”.

La Costituzione di Montechristi della Repubblica dell’Ecuador del 2008, dice esplicitamente nel suo preambolo: «Celebriamo la natura, la Pacha Mama, della quale siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza». In seguito  enfatizza che la Repubblica si propone di costruire «una nuova forma di convivenza cittadina , nella diversità ma in armonia con la natura, per raggiungere il bien vivir, lo Sumac Kawsay (la pienezza della vita, il vivere pieno). Nell’articolo 71º del capitolo settimo dispone: «La natura o la Pachamama, da cui si riproduce e realizza la vita, ha diritto al completo rispetto della sua esistenza, al mantenimento e rigenerazione dei suoi cicli vitali, alla struttura, alle funzioni e processi evolutivi; tutte le persone, le comunità, popoli o nazionalità potranno esigere dall’autorità pubblica l’adempimento dei diritti della natura… Lo Stato incentiverà le persone naturali giuridiche,  e raggruppamenti, perché proteggano la natura e promuoverà il rispetto di tutti gli elementi che formano un ecosistema”.
Commoventi sono le parole del preambolo della costituzione politica dello Stato boliviano, approvata nel 2009: «A compimento del mandato dei nostri popoli, con la fortezza della nostra Pachamama e grazie a Dio, noi rifondiamo la Bolivia”. L’articolo 33º dispone: «Le persone hanno diritto a un ambiente sano, protetto e equilibrato. L’esercizio di questo diritto deve permettere agli individui e alle collettività della presente e delle future generazioni, inclusi altri esseri vivi e a svilupparsi in maniera normale permanente». L’articolo 34º dispone: «Qualsiasi persona, a titolo individuale o in rappresentanza di una collettività, ha la facoltà di esigere azioni legali a difesa dell’ambiente».
Qui abbiamo un vero costituzionalismo ecologico che ha ottenuto corpo e lettera nelle rispettive costituzioni. Tali visioni sono anticipatorie di quello che dovrà essere per tutte le costituzioni future dell’umanità. Soltanto con questa mentalità e predisposizione  garantiremo un destino felice in questo pianeta.

Traduzione di Romano Baraglia - romanobaraglia@gmail.com

martedì 14 maggio 2013

Sankara, gli alberi e l’ambiente


                                            di Thomas Sankara


Parigi, 5 febbraio 1986, Prima conferenza internazionale sull’albero e la foresta (estratti)


La mia patria, il mio Burkina Faso è senza dubbio uno dei pochi paesi al mondo che ha il diritto di definirsi un concentrato di tutte le calamità naturali di cui il genere umano soffre tuttora, alla fine di questo ventesimo secolo.
Otto milioni di burkinabé hanno interiorizzato questa realtà in 23 terribili anni. Hanno visto morire le madri, i padri, i figli e le figlie, decimati da fame, carestia, malattie e ignoranza. Con gli occhi pieni di lacrime hanno guardato prosciugarsi stagni e fiumi. Dal 1973 hanno visto il loro ambiente deteriorarsi, gli alberi morire e il deserto invaderli a passi da gigante. Secondo le stime, ogni anno il deserto avanza nel Sahel di 7 chilometri.
(…) Signore e Signori, siamo qui nella speranza che vi impegniate in una lotta dalla quale non saremo certo assenti, noi che siamo sottoposti ad un attacco quotidiano e crediamo che il miracolo dell’inverdimento possa nascere dal coraggio di dire le cose come stanno. Sono venuto per unirmi a voi per deplorare i rigori della natura. Sono venuto anche per denunciare quegli uomini che con il loro egoismo sono la causa della sfortuna del prossimo. Il colonialismo ha saccheggiato le nostre foreste senza nemmeno lontanamente pensare a lasciarle o a ripristinarle per il nostro domani.
Continua impunita nel mondo la distruzione della biosfera con attacchi selvaggi e assassini alla terra e all’aria. E non lo diremo mai abbastanza fino a che punto spargano morte tutti questi veicoli che vomitano fumi. Coloro che hanno i mezzi tecnologici per trovare i colpevoli non hanno interesse a farlo, e coloro che hanno quest’interesse mancano dei necessari mezzi tecnologici. Dalla loro hanno solo la propria intuizione e la propria ferma convinzione. Non siamo contro il progresso, ma vogliamo che il progresso non sia condotto in modo sregolato e nella criminale dimenticanza dei diritti altrui. Vogliamo affermare che la lotta contro l’avanzata del deserto è una lotta per la ricerca di un equilibrio fra esseri umani, natura e società. Come tale, è prima di tutto una battaglia politica, il cui esito non può essere lasciato al destino.
La creazione in Burkina di un Ministero dell’acqua, collegato a quello dell’ambiente e del turismo, è segno della nostra volontà di porre chiaramente sul tavolo i problemi, per trovarne soluzioni.
(…)Ecco perché il Burkina ha proposto e continua a proporre che almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca di forme di vita su altri pianeti sia destinato a finanziare la lotta per salvare gli alberi e la vita. Non abbandoniamo la speranza che il dialogo con i "marziani" possa farci riconquistare l’Eden; ma riteniamo nel frattempo, come abitanti della terra, di avere il diritto di rifiutare un’alternativa limitata alla sola scelta fra inferno e purgatorio.
Così formulata, la nostra lotta in difesa degli alberi e delle foreste è in primo luogo una lotta popolare e democratica. Poiché lo sterile e costoso agitarsi di un manipolo di ingegneri ed esperti forestali non risolverà nulla! Né le coscienze commosse di una quantità di forum ed istituzioni, per quanto sinceri e lodevoli possano essere, rinverdiranno il Sahel, se non abbiamo fondi per scavare pozzi di acqua potabile profondi cento metri, mentre c’è tutto il denaro necessario a scavare pozzi di petrolio profondi 3.000 metri! Come diceva Karl Marx, chi vive in un palazzo non pensa alle stesse cose, né allo stesso modo, di chi vive in una baracca. Questa lotta per difendere gli alberi e la foresta è prima di tutto una lotta contro l’imperialismo. Perché l’imperialismo è il piromane delle nostre foreste e delle nostre savane.
(…)Sì, il problema della foresta e degli alberi è esclusivamente questione di equilibrio e armonia tra individui, società e natura. È una scommessa possibile; non ci tiriamo indietro di fronte all’enormità del compito e non sviamo dalla sofferenza degli altri perché la desertificazione non ha più frontiere. 

Da:
http://thomassankara.net/spip.php?article389&lang=fr

lunedì 13 maggio 2013

DIEGO FUSARO: attualità di Marx e critica delle ideologie


Spread ed ultimatum


                                          di Diego Fusaro

“Al governo servono subito sei miliardi”: questa la gigantografia che campeggiava qualche giorno fa sulla prima pagina di un noto quotidiano italiano. Nihil novi sub sole. Siamo ormai ampiamente avvezzi a frasi come queste, che ripetono in forme diverse sempre il solito mantra: occorre assecondare le leggi imperscrutabili dell’economia, ossia della teologia della disuguaglianza sociale.

Nell’epoca del fanatismo dell’economia e del totalitarismo del mercato, anche la violenza cambia forma, riconfigurandosi sub specie oeconomiae. Lo si evince nitidamente non solo dalla forma capillare con cui la violenza oggi si scatena in forme tanto più invisibili quanto più potenti e pervasive (tagli salariali, licenziamenti, contratti a termine, innalzamento dell’età pensionabile, ecc.): accanto a questo fenomeno – che certo non deve essere sottovalutato –, ve ne è un altro. Lo si potrebbe compendiare così: oggi, nel quadro di un’Europa unita esclusivamente sulle basi della Banca Centrale Europea e della conseguente eurocrazia, si realizza tramite la violenza silenziosa dell’economia l’oppressione dei popoli che nel Novecento era ottenuta mediante il dispiegamento di carri armati e drappelli militari.

In questo scenario, non stupisce che vengano imposte agli Stati svuotati di sovranità le quarantott’ore di tempo, come nei classici ultimatum politici, per adottare adeguate misure di crescita. È secondo questa logica illogica che deve essere compresa la frase – che ha tutto il sapore di un ultimatum – a cui si faceva poc’anzi riferimento: “al governo servono subito sei miliardi”. Perché, si potrebbe ragionevolmente domandare? Qual è il senso di questa folle stregoneria in cui l’economia autoreferenziale, che ha spodestato Dio, detta le sue leggi a un’umanità ridotta a un misero pulviscolo di atomi-consumatori che le obbediscono ciecamente? La risposta la si troverebbe certo agevolmente nel solito teologumeno, a cui siamo ormai a tal punto avvezzi da non accorgercene nemmeno più, “ce lo chiede l’Europa”. Il carro armato in cui si cristallizzava l’essenza politica della violenza nel Novecento ha oggi ceduto il passo allo spread e alla borsa, alla violenza economica che non si vede non perché non vi sia, ma perché è a tal punto pervasiva da aver saturato la società in ogni suo atomo.

Da
 http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/spread-e-ultimatum-10515.html

giovedì 9 maggio 2013

Spettacolarizzazione dell’attentato di Boston: far dimenticare l’eventuale fine della specie


                                             di Leonardo Boff

Non indignarsi e non condannare l’attentato perpetrato a Boston con due morti e centinaia di feriti vuol dire che uno non è umano, che non ha un briciolo di solidarietà e di compassione. Questo non ci dispensa dal dovere di essere critici. C’è stata una spettacolarizzazione mondiale dell’attentato con obiettivi occulti che bisogna scoprire. Molti sono gli attentati che avvengono in questo mondo, specialmente in Afghanistan e in Iraq sotto gli occhi di truppe nordamericane e alleate. Sempre con tanti morti e centinaia di feriti. Quasi nessuno dà importanza a questo fatto, banalizzato al punto da farlo apparire come qualcosa di naturale.
Molti pensano: si tratta di terroristi o amici di terroristi che non si rassegnano all’occupazione occidentale. Che s’ammazzassero. Ma cerchiamo di capirci: sono esseri umani come quelli di Boston. È il metro di valutazione che è differente. Sappiamo perché.
Dobbiamo stare attenti al significato politico-ideologico della spettacolarizzazione dell’attentato di Boston. È una forma per sviare l’attenzione mondiale di questioni molto più fondamentali: primo, lo stato di terrore che la potenza nordamericana sta imponendo internamente ai suoi cittadini e al mondo intero. Con questo tradisce la cosa migliore che avesse: la difesa dei diritti fondamentali. Non ha chiuso Guantanamo e nemmeno ha ratificato strumenti internazionali importanti come il Trattato di Roma, la Corte Penale Internazionale e nemmeno la Convenzione Americana dei Diritti Umani (patto di San José di Costa Rica). Non vogliono che siano portati in tribunale le violazioni e gli attentati che i loro agenti perpetrano in giro per il mondo per la sicurezza dell’impero centrale.
Ma a causa della ininterrotta occupazione dei media mondiali (la Globo aveva traslocato con armi e bagagli da quelle parti) a proposito dell’attentato, i “signori del mondo” vogliono sviare l’attenzione dalla seconda questione, questa sì, con conseguenze funeste e che può colpire tutti: la minaccia della fine della specie umana.
Primo, questi “signori” hanno devastato per secoli il pianeta al punto che non potrà da sé solo recuperare la sua sostenibilità. Attraverso eventi estremi, ci dimostra che i limiti sono stati sorpassati. In seguito, nell’ansia di accumulare illimitatamente e dominare il processo di pianetizzazione dell’umanità, hanno montato una macchina di morte che minaccia la vita sulla Terra e può portare allo scontro finale e decisiva per la specie umana.
Scienziati famosi a livello mondiale e i più seri teorici dell’ecologia richiamano l’attenzione a questa minaccia reale. Una sola cosa sappiamo, quando e come esattamente avverrà. Ma ipotizzando che il corso degli altri fattori resti invariato, quella sarà fatale. Michel Serres, rinomato filosofo francese dell’ecologia l’ha già detto: dopo Hiroshima, Nagasaki, ora Fukushima, l’umanità ha scoperto un nuovo tipo di morte: la morte della specie. Sì, come Gorbaciov non si stanca di ripetere: possiamo distruggere tutta la specie umana, senza lasciare nessuna testimonianza, con le armi chimiche, biologiche e nucleari che già abbiamo costruito e abbiamo immagazzinato. Sicurezza? Non è assoluta. Ricordiamoci Three Islands, Chernobyl e Fukushima.
Dunque: la nostra specie realmente si è mostrata il Satana della Terra: ha imparato a essere omicida (uccide i suoi simili), etnocida (quanti popoli autoctoni non sono stati liquidati?), ecocida (ha devastato interi ecosistemi ); adesso può essere anche specicida (induce la propria specie al suicidio).
Il sistema imperiale vive cercando capri espiatori (prima i comunisti, poi i sovversivi, adesso i terroristi, gli immigrati…è chi ancora?) sui quali ricade il desiderio mimetico e collettivo della vendetta. E così si autoassolve da colpe e da errori. Ma principalmente fa di tutto perché questa minaccia mortale alla specie umana non sia ricordata e si trasformi in una coscienza mondiale pericolosa.
Nessuno accetta passivamente un verdetto di morte. Si va a lottare per garantire la vita e un futuro comune. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una governance globale, che esige la rinuncia alla volontà imperiale che pensa solo a perpetuare il suo ruolo invece dipensare al Bene Comune della madre Terra e dell’umanità.
Per quanto tempo i potenti nasconderanno la situazione drammatica che pesa su di noi dopo l’attentato di Boston, sia pure manipolato? Magari ci svegliassimo tutti, semplicemente perché non vogliamo morire ma vivere e sprizzare vita.
Leonardo ha scritto Proteggere la Terra-aver cura della vita: come sfuggire alla fine del mondo, Record 2011.
Traduzione di Romano Baraglia – romanobaraglia@gmail.com

domenica 5 maggio 2013

LIBERAZIONE: AZIONE CHE CREA LIBERTÀ



Leonardo Boff
Teologo/filosofo

La Libertà è più che una facoltà dell’essere umano, quella di poter scegliere, detta anche libero arbitrio. La libertà appartiene all’essenza dell’essere umano. Anche se non può scegliere, lo schiavo non smette di essere, nella sua essenza, un essere libero. Può resistere, negare e perfino ribellarsi e accettare di essere ucciso. Questa libertà nessuno gliela può togliere. Tra le molte definizioni, penso che questa è, per me, la più corretta: la libertà è la capacità di autodeterminazione.
Tutti nascono dentro a un insieme di determinazioni: di etnia, di classe sociale, in un mondo già costruito e sempre da rifare. È la nostra determinazione. Nessuno è libero da tutti i legami di dipendenza. Che si tratti di lavoro o di basso salario, sempre oppressione è. Lottando contro, l’essere umano esercita un tipo di libertà: la libertà di, da questa situazione. E lotta per la sua indipendenza e autonomia. Lui si autodetermina: assume la determinazione ma per superarla, per essere libero di, libero da questa. Ma esiste ancora un altro significato di libertà come autodeterminazione: è quella forza interiore e propria (auto) che gli permette di essere libero per, per costruire la sua propria vita, per aiutare a trasformare le condizioni di lavoro e per creare un altro tipo di società dove sia meno difficile essere liberi di e per. Qui si mostra la singolarità dell’essere umano, costruttore di se stesso, al di là delle determinazioni che lo circondano. La libertà è una liber-azione, vale a dire, una azione autonoma che crea libertà che stava prigioniera o assente. Questi due tipi di libertà acquisiscono un’ espressione personale, sociale e globale.
A livello personale, la libertà è il dono più prezioso che abbiamo dopo la vita: poter esprimersi, andare e venire, costruire la propria visione delle cose, organizzare la vita a piacere, il lavoro, la famiglia, eleggere i propri rappresentanti politici. L’oppressione maggiore è essere privati di questa libertà; a livello sociale, essa mostra bene le due facce che ha: libertà come indipendenza e come autonomia. I paesi dell’America Latina e dei Caraibi sono diventati indipendenti dai colonizzatori, senza che questo significasse ancora autonomia e libertà, perché rimasti dipendenti dalle élites nazionali che han tenuto saldo il rapporto di dominazione. Con la resistenza, la protesta e l’organizzazione degli oppressi è stato gestito un processo di integrazione che, vittorioso, ha dato l’autonomia alle classi popolari, libertà per organizzare un altro tipo di politica che beneficiasse coloro che sempre erano stati esclusi. Questo è avvenuto in America Latina a partire dalla fine delle dittature militari che rappresentavano gl’interessi delle elite nazionali articolate con quelle internazionali. È in corso un processo di liberazione per, che non è stato concluso ancora ma che ha fatto avanzare la democrazia nata dal basso, repubblicana e di stampo popolare.
Oggi abbiamo bisogno anche di una doppia liberazione: dalla globalizzazione economico-finanziaria che sfrutta mondialmente la natura e i paesi periferici, dominata da un gruppo di grandi corporazioni, più forti che la maggioranza degli Stati e di una liberazione per una governance globale di questa globalizzazione che affronti i problemi globali come il riscaldamento, la scarsità di acqua e la fame di milioni e milioni. O ci sarà una governance collegiale globale oppure c’è il rischio di una biforcazione dell’umanità, tra quelli che mangiano e quelli che non mangiano o soffrono in grandi necessità.
Infine, oggi si impone urgentemente un tipo speciale di libertà di e libertà per. Viviamo l’era geologica dell’antropocene. Questo significa: il grande rischio per tutti non è una meteora radente, ma l’attività irresponsabile e ecoassassina di esseri umani (anthropos). Il sistema imperante di produzione capitalista, sta devastando la Terra e ha creato le condizioni per distruggere tutta la nostra civiltà. O cambiamo o andiamo verso un abisso. Abbiamo bisogno di libertà da questo sistema ecocida e biocida che tutto mette a rischio per accumulare e consumare sempre di più. Abbiamo anche bisogno di una libertà per: per progettare alternative che garantiscano la produzione di quanto necessario e conveniente per noi e per tutta la comunità di vita. Questo viene ricercato e provato dal bien vivir delle culture andine; dall’agricoltura familiare organica; dall’indice di felicità della società e da altre forme che rispettano i cicli della vita. Vogliamo una bio-civiltà.
Come cristiani, bisogno anche di liberare la fede cristiana da visioni fondamentaliste, dalle strutture ecclesiastiche autoritarie e maschiliste, per arrivare a una libertà per le donne che possano aver accesso al Saerdozio, perché i laici possano decidere insieme con il clero il destino della loro comunità, per quelli che hanno un’altra opzione sessuale. Abbiamo bisogno di una Chiesa che, insieme con altri percorsi spirituali, aiuti a educare l’umanità al rispetto dei limiti della terra e per la venerazione della Madre Terra che tutto ci dà.
Speriamo che il Papa Francesco onori l’eredità di San Francesco di Assisi che ha vissuto una grande libertà dalle tradizioni e aperto a nuove forme di relazione con la natura e con i poveri. La lotta per la libertà non termina mai perché essa mai è data, ma va conquistata attraverso un processo di liberazione senza fine.

Traduzione di Romano Baraglia – romanobaraglia@gmail.

mercoledì 1 maggio 2013

Papa Francesco e la Teologia della Liberazione





                                                     di Leonardo Boff
 
Molti si sono domandati se, per il fatto stesso di provenire dall’America Latina, l’attuale Papa non sia un seguace della Teologia della Liberazione. Questa domanda è irrilevante. L’importante non è essere della Teologia della Liberazione, ma della liberazione degli oppressi, dei poveri e delle vittime dell’ingiustizia. E Papa Francesco  lo è con chiarezza assoluta. 
In verità questo è sempre stato il proposito della Teologia della Liberazione.  Davanti a tutto sta la liberazione concreta dalla fame, dalla miseria, dal degrado morale e dalla rottura dei rapporti con Dio. Questa realtà appartiene ai beni del Regno di Dio e stava tra gli obiettivi di Gesù. Poi in secondo luogo, viene la riflessione intorno a questo dato reale: in che misura si realizza anticipatamente il Regno di Dio e in che modo il cristianesimo, con il capitale spirituale ereditato da Gesù, può collaborare, insieme ad altri gruppi umanitari, in questa liberazione necessaria.
 La riflessione che nasce in un secondo tempo e che è chiamata teologia, può esistere oppure no. Decisivo è il fatto concreto che la liberazione avvenga realmente. Ma sempre ci saranno spiriti attenti che udiranno il grido degli oppressi e della Terra devastata e che si domanderanno: con quello che abbiamo imparato da Gesù, dagli apostoli e dalla dottrina cristiana di tanti secoli, come possiamo dare il nostro contributo al processo di liberazione? È quanto avvenuto ad opera di tutta una generazione di cristiani, dai cardinali ai laici e alle laiche, a partire dagli anni 60 del secolo passato. E continua fino ad oggi, dato che il numero dei poveri non cessa di crescere e il loro grido è diventato clamore.
Ora, il Papa Francesco ha fatto l’opzione per i poveri, è vissuto e vive poveramente in solidarietà con loro, e ha detto chiaramente in uno dei suoi primi interventi: “Come mi piacerebbe una Chiesa povera per i poveri”. In questo senso, il Papa Francesco, sta realizzando l’intuizione primordiale della Teologia della Liberazione e assecondando il suo marchio registrato: l’opzione preferenziale per i poveri, contro la povertà e a favore della vita e della giustizia.
 Questa opzione non è per lui soltanto un modo di dire ma opzione di vita e di spiritualità. A causa dei poveri, ha incrinato le relazioni con la presidente argentina Cristina Kirchner, esigendo dal suo governo più impegno politico per il superamento dei problemi sociali che, analiticamente, si chiamano diseguaglianze; eticamente, rappresentano ingiustizie e, teologicamente,  costituiscono un peccato sociale che interessa direttamente il Dio vivo che nella Bibbia appare sempre  a fianco di coloro che  possiedono  una vita ridotta e non viene fatta loro giustizia.
Nel 1990 in Argentina i poveri raggiungevano il 4%. Oggi, a causa della voracità del capitale nazionale e internazionale arrivano al 30%. Questi non sono soltanto dei numeri. Per una persona sensibile e spirituale come il papa Francesco, un simile fatto rappresenta un calvario di sofferenze, lacrime di bambini affamati e disperazione di genitori disoccupati. Questo mi ricorda una frase di Dostoiewski: “Tutto il progresso del mondo non vale il pianto di un bambino affamato”.
Questa povertà – ha insistito con fermezza il Papa Francesco – non si supera per filantropia ma attraverso politiche pubbliche che restituiscano dignità agli oppressi e li renda cittadini autonomi e capaci di partecipare.
Non importa che  il Papa Francesco usi o no l’espressione «Teologia della Liberazione». La cosa veramente importante è che lui parla e agisce nello stile della liberazione. Anzi è addirittura una buona cosa che il Papa non sia un affiliato di un certo tipo di teologia, come quella della liberazione o di un’altra qualsiasi. I suoi due predecessori avevano assunto un certo tipo di teologia che stava nel loro cervello e veniva presentato come espressione del magistero papale. E in nome di questo sono stati  condannati non pochi teologi e teologhe.
Sanno bene gli storici che la categoria “magistero” attribuita ai papi è una creazione recente. Ha cominciato a essere impiegata dal papa Gregorio 16º (1765-1846) e da Pio 10º (1835 1914) ed è diventata comune con il papa Pio 12º (1876-1958). Prima il “magistero” era costituito dai dottori in teologia e non dai vescovi o dal Papa. Questi sono maestri della fede. I teologi sono maestri dell’intelligenza della fede. Pertanto, ai vescovi e papi non toccava fare teologia, come avvenuto recentemente: ma testimoniare ufficialmente e  garantire con zelo la fede cristiana. Ai teologi e teologhe toccava e tocca a approfondire questa testimonianza con gli strumenti intellettuali offerti dalla cultura del tempo attuale. Quando dei papi si mettono a fare teologia come succede al giorno d’oggi, non si sa se parlano come Papi o  come teologi. Si crea una grande confusione nella Chiesa; si perde la libertà di ricerca e di dialogo con i vari saperi.
Grazie a Dio, il Papa Francesco esplicitamente si presenta come pastore e non come dottore e teologo fosse pure della liberazione. Così è più libero per parlare a partire dal Vangelo, della sua alla sua intelligenza emozionale e spirituale con il cuore aperto sensibile, in sintonia con il mondo oggi pianetizzato. Papa Francesco: mantieni la teologia in tono minore affinché la liberazione risuoni in tono maggiore: consolazione per gli oppressi e appello alle coscienze dei potenti. Pertanto meno teologia, più liberazione.

Leonardo Boff ha scritto Teología della cattività e della liberazione, Queriniana 1977.
Traduzione di Romano Baraglia