Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

lunedì 30 settembre 2013

Dialogo tra due papi



                                       di Diego Fusaro

Si è recentemente svolto, sulle pagine di “La Repubblica”, un dialogo epistolare tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Si tratta di un avvenimento importante, su cui occorre soffermare l’attenzione, sia pure da una prospettiva differente rispetto a quella che si è imposta come egemonica negli scorsi giorni.
Ho già affrontato la questione in una lunga intervista apparsa – a cura di Moreno Pasquinelli – sul blog “Sollevazione” e, pertanto, in questa sede non farò altro che riprendere cursoriamente alcuni punti che reputo particolarmente degni d’attenzione e che, in quell’intervista, ho sviluppato più estesamente. In primo luogo, merita di essere analizzata la tragicomica inversione delle parti a cui si è assistito: dialogico, aperto, denso di dubbi e di incertezze, il Papa; dogmatico, pontificante e senza la minima incertezza, Scalfari.

Prescindendo dalle tesi esposte e dalla notorietà dei due personaggi, a leggerli si sarebbe potuti plausibilmente essere indotti a ritenere che, tra i due, il pontefice non fosse Bergoglio. Il fondatore di “Repubblica” si pone oggi come pontefice di una religione atea e scientista, intollerante verso ogni forma di sapere che non sia quello piegato ai moduli della ratio strumentale, sotto i cui raggi risplende l’odierna barbarie della finanza e dell’austerity, dell’eurocrazia e della religione neoliberale.
Tale religione promuove compulsivamente il disincantamento e il congedo dalle utopie, la riconciliazione con la realtà presentata come inemendabile, la precarietà come stile esistenziale e lavorativo, l’abbandono del pathos antiadattivo e dell’attenzione per la questione sociale, il culto demenziale dell’antiberlusconismo come unica fede politica possibile: essa è la prova di quanto vado sostenendo da tempo, ossia che il capitalismo si riproduce oggi culturalmente a sinistra (è la tesi al centro del mio saggio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, a cui mi permetto di rimandare per eventuali approfondimenti). Si pensi anche solo alla trasformazione dei costumi – propugnata urbi et orbi dalla sinistra – in vista di una società interamente liberalizzata, postborghese e postproletaria, individualistica e iperedonistica, affrancata dalla morale borghese e dalla religione.

Anche in quest’ottica, destra e sinistra si rivelano pienamente interscambiabili: l’anticomunitaria e globalista “Destra del Denaro” detta le regole econonomico-finanziarie tutelanti gli interessi della global class, mentre la “Sinistra del Costume” – espressione dell’ideale del comunismo in un uomo solo, trasformando quest’ultimo in atomo di volontà di potenza innervata dal capitale  – fissa i modelli e gli stili di vita funzionali alla riproduzione del sistema dell’integralismo economico.
Coerente con questa visione del mondo, Scalfari parla dell’inesistenza di Dio con una sicurezza dogmatica che andrebbe resa oggetto d’attenzione (e che, con buona pace del coro virtuoso dei sedicenti neoilluministi, nulla ha a che vedere con la matrice culturale dell’illuminismo critico). Analogamente, il pontefice di “La Repubblica” rivela una fascinazione quasi commovente – e, a suo modo, teologica – per la scienza innalzata a verità ultima.

Se anche è troppo presto, forse, per valutare l’operato del nuovo Papa, certo è possibile individuare in lui, con diritto, un profilo complessivo non affine alla visione dominante della ragione, ossia quella della ratio strumentale su cui – come ricordavo poc’anzi – si fonda l’odierna teologia economica. Questo è già, di per sé, un aspetto ampiamente positivo, da valorizzare massimamente in una prospettiva che individui il nemico principale non nella fede, ma nella ratio strumentale stessa, che tutto riduce a quantità misurabile, calcolabile e trasformabile in profitto. Si veda, a questo proposito, lo splendido discorso pronunciato dal pontefice a Cagliari domenica 23 settembre, tutto centrato sui temi del lavoro e della dignità offesa dalla disoccupazione coessenziale al regime neoliberale.
Temo che questo concetto – di per sé chiaro come il sole – non passerà facilmente presso l’armata Brancaleone dei cosiddetti “laicisti”. Illudendosi che il gesto più emancipativo che possa darsi sia la ridicolizzazione del Dio cristiano (o, alternativamente, la soppressione del crocifisso dalle scuole), essi non cessano di contrastare tutti gli Assoluti che non siano quello immanente della produzione capitalistica, il monoteismo idolatrico del mercato: il laicismo integralista, in ogni sua gradazione, si pone come il completamento ideologico ideale del fanatismo del mercato e del “cretinismo economico” (secondo la stupenda espressione di Gramsci), in cui “The Economist” diventa “L’Osservatore Romano” della globalizzazione capitalistica e le leggi imperscrutabili del Dio monoteistico divengono le inflessibili leggi del mercato mondiale.

Capirà mai l’armata Brancaleone dei laicisti che la lotta contro il Dio tradizionale è, essa stessa, uno dei capisaldi dell’odierna mondializzazione capitalistica, la quale si regge appunto sulla neutralizzazione di ogni divinità non coincidente con il monoteismo mercatistico?
Riusciranno mai costoro, inguaribili lavoratori per il re di Prussia, a comprendere che ciò di cui più si avverte il bisogno, oggi, è un nuovo illuminismo che contesti incondizionatamente l’Assoluto capitalistico e l’esistenza di presunte leggi economiche oggettive della produzione, sottoponendo a critica l’onnipervasivo integralismo della finanza? Quando capiranno che l’ateismo, oggi, ha come matrice principale non certo l’aumento della conoscenza scientifica (con buona pace di Odifreddi!), ma il processo di individualizzazione anomica che disgiunge l’individuo da ogni sostanza comunitaria? E, ancora, che la “morte di Dio” da loro salutata con entusiasmo corrisponde al momento tragico della perdita di ogni valore in grado di contrastare il dilagante nichilismo della forma merce?


                                                  

domenica 29 settembre 2013

Con il Papa Francesco: il Terzo Mondo in Vaticano





di Leonardo Boff

Sono note le tante innovazioni che Papa Francesco, il Vescovo di Roma, come vuole essere chiamato, ha introdotto nelle abitudini papali e nello stile di presiedere la Chiesa nella tenerezza, nella comprensione, con il dialogo e la compassione.
Ma alcuni sono rimasti perplessi, perché erano abituati allo stile classico dei papi, dimenticando che questo stile è ereditato dagli imperatori romani pagani, dal nome di "Papa" per il mantello sulle spalle (Mozetta), tutto ornato, simbolo del potere imperiale assoluto, prontamente respinto da Francesco.
Ricordiamo di nuovo che l'attuale Papa viene da fuori, dalla periferia della Chiesa centrale europea. Porta con sé un' altra esperienza ecclesiale, con nuovi costumi e con un’altra forma di sperimentare il mondo con le sue contraddizioni. Lo ha espresso coscientemente nella sua lunga intervista con la rivista gesuita Civiltà Cattolica: "Le chiese giovani sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire, e quindi diversa da quella che hanno sviluppato le Chiese più antiche". Queste ultime non sono segnate dal divenire ma dalla stabilità, e fa loro fatica incorporare elementi nuovi derivati dalla cultura moderna laica e democratica.
Qui il Papa Francesco sottolinea la differenza. È consapevole di venire da un altro modo di essere Chiesa, maturato nel Terzo Mondo. Questo è caratterizzato da profonde ingiustizie sociali, da un numero assurdo di baraccopoli che circondano quasi ogni città, da culture originarie sempre disprezzate che subiscono discriminazioni importanti e dall'eredità della schiavitù di origine africana.
La Chiesa ha capito che oltre alla sua missione religiosa particolare, non poteva sottrarsi a una missione sociale urgente: schierarsi con i deboli e gli oppressi e lottare per la loro liberazione. In diversi incontri i vescovi continentali dell'America Latina e dei Caraibi (Celam) è maturata l’opzione preferenziale per i poveri contro la loro povertà, e l’evangelizzazione liberatrice.
Papa Francesco viene da questo brodo ecclesiale e culturale. Qui, tali opzioni con le loro riflessioni teologiche, con i modi di vivere la fede in rete di comunità e celebrazioni, incorporando lo stile popolare di pregare Dio, sono cose evidenti. Ma non lo sono per i cristiani della antica cristianità europea, pieni di tradizioni, teologie, cattedrali e con un senso del mondo riempito con il modo greco-romano-germanico di articolare il messaggio cristiano. Venendo da una Chiesa che ha dato centralità ai poveri, prima di tutto ha visitato i rifugiati sull'isola di Lampedusa, poi è andato a Roma presso il centro dei gesuiti e poi presso i disoccupati di Corsica. E' naturale per lui, ma è quasi uno "scandalo" per i curiali e un fatto senza precedenti per gli altri cristiani europei. L'opzione per i poveri, ribadita dagli ultimi papi, era solo retorica e concettuale. Non c'era un vero incontro con i poveri ed i sofferenti. Con Francesco capita esattamente il contrario: l'annuncio è pratica affettiva ed efficace.
Forse queste parole di Francesco chiariscono il suo modo di vivere e di vedere la missione della Chiesa: "Vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. E' inutile chiedere a uno gravemente ferito se ha il colesterolo e la glicemia elevati! È necessario guarire le ferite. Poi, si può parlare di tutto il resto". "La Chiesa" - continua - "a volte è chiusa in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante, piuttosto, è il primo annuncio: 'Gesù ti ha salvato!'.
Pertanto, i ministri della Chiesa, in primo luogo, devono essere ministri di misericordia, le riforme strutturali e organizzative sono secondarie, vale a dire, vengono dopo, la prima riforma dovrebbe essere l'atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone in grado di scaldare il cuore della gente, camminare con loro durante la notte, dialogare e anche entrare nella “loro” notte senza perdersi nel buio. “Il popolo di Dio -conclude- vuole pastori e non dipendenti o chierici di Stato”. In Brasile, parlando ai vescovi latinoamericani, ha chiesto loro di fare la "rivoluzione della tenerezza".
Pertanto, la centralità non è occupata dalla dottrina e dalla disciplina, così dominanti in questi ultimi tempi, ma dalla persona umana nelle sue ricerche, che sia o non sia credente, come il Papa ha mostrato nel dialogo con l’ex direttore del quotidiano romano La Repubblica, Eugenio Scalfari, persona non credente. Sono nuovi venti che soffiano da nuove chiese periferiche e danno aria nuova a tutta la Chiesa. La primavera davvero sta arrivando, promettente.

Leonardo Boff ha scritto Francesco d'Assisi e Francesco di Roma, Mar Idéias, Rio 2013.


mercoledì 25 settembre 2013

LETTERA APERTA AL PAPA FRANCESCO: UN’ASSEMBLEA PER LA VITA SULLA TERRA




Caro Papa Francesco,


Noi sottoscritti cristiani, così come le persone di altre fedi e quelle di buona volontà, Le inviamo questa lettera pubblica con una richiesta molto particolare. Ci piacerebbe che Lei convocasse un evento globale, come un’assemblea per la difesa della vita sulla Terra.



Oggi la vita è ferita a morte per la fame (900 milioni di persone in tutto il mondo), la sete (1,2 miliardi non hanno acqua pulita da bere ogni giorno, e 2,4 miliardi non hanno servizi igienico-sanitari di base), per le guerre, per la distruzione dell'ambiente (suolo, acqua, biodiversità, aria, e soprattutto perché sull'umanità e su tutta la vita incombe un sorprendente cambiamento climatico. Come dice il documento di Aparecida: non stiamo soltanto vivendo un momento di cambiamento, ma un cambiamento di epoca (DAP 44). Una società consumista e predatoria come l'attuale non rappresenta alcun futuro per tutta l'umanità.

Quando Dio creò il mondo, donò la Terra agli uomini e alle donne per "coltivarla e averne cura" (Gen 2,15). Dopo il diluvio, quando Noè lasciò l'arca con la sua famiglia e con tutti gli animali che erano in essa, Dio fece un’alleanza primaria con loro dicendogli che "per parte mia, io stabilirò il mio patto con voi e con i vostri discendenti, con tutti gli esseri viventi che sono con voi: uccelli, animali selvatici e domestici, insomma, con tutti gli animali della Terra che sono usciti con voi dall'arca (Gen 9, 9-10).”


 L'apostolo Paolo ci dice che "la creazione stessa spera di essere liberata dalla schiavitù della corruzione, in vista della libertà che è la gloria dei figli di Dio" (Rm 8, 21). Così Dio ama tutto ciò che ha creato e ci ha comandato di prenderci cura della sua creazione.



I popoli autoctoni ed indigeni e  recentemente gli scienziati hanno riferito che tutte le forme di vita sono a rischio sulla faccia della Terra  Tuttavia, non c’è una risposta alla sfida di questo momento della storia da parte del mondo politico ed economico. Come Lei già ha detto, noi non possiamo accettare passivamente la globalizzazione dell'indifferenza.

Lei ha autorità morale e spirituale davanti a tutta l’umanità per convocare questo urgente dibattito e, ancora più, urgenti interventi. Le chiediamo ciò come un modo per contribuire alla realizzazione dei suoi gesti, che ci sfidano ad un atteggiamento di cura e di protezione della vita minacciata. Quei gesti espressi in suo viaggio a Lampedusa, nella Giornata Mondiale della Gioventù in Brasile, nella visita agli immigrati in Italia, nei digiuni contro le guerre. Se Lei convocherà un'assemblea per difendere la vita nella sua pienezza, non solo per ascoltare gli esperti, ma anche le popolazioni indigene colpite dalla distruzione del loro ambiente, le persone colpite dai cambiamenti climatici e i rifugiati, le vittime della fame e della sete, di certo, gran parte dell'umanità parteciperà prontamente a questa richiesta.

E' quello che anche noi sottoscritti aspettiamo. Con un abbraccio fraterno, nello spirito di San Francesco d'Assisi, in comunione con tutte le forme di vita e con tutta l'umanità, confermiamo la nostra richiesta.

Brasilia - DF, 16 Settembre 2013


Nota: Può inviare la sua adesione a magalhaes@caritas.gov.br

Leonardo Boff

martedì 24 settembre 2013

Papa Francesco parla con un non credente da uomo a uomo



                                           di Leonardo Boff

Francesco, vescovo di Roma, si è spogliato di tutti i titoli e simboli di potere che non fanno altro che allontanare le persone le une dalle altre ed ha pubblicato una lettera nel principale giornale di Roma, La Repubblica, rispondendo al suo ex-direttore e "decano" intellettuale Eugenio Scalfari, non credente. Lui aveva sollevato pubblicamente alcune domande al Vescovo di Roma. Francesco ha compiuto un atto di straordinaria importanza, non solo perché l’ha fatto in un modo senza precedenti, ma soprattutto perché ha parlato come un uomo che parla ad un altro uomo in un contesto di dialogo aperto, collocandosi allo stesso livello del suo interlocutore. 
Infatti, Francesco, che, come sappiamo, preferisce chiamarsi Vescovo di Roma e non Papa, ha risposto a Eugenio Scalfari cordialmente, con l'intelligenza calorosa del cuore, più che con la fredda intelligenza delle dottrine. Attualmente, in filosofia, si cerca di riscattare l’"intelligenza sensibile "che arricchisce ed amplia l'"intelligenza intellettuale", perché parla direttamente agli altri, alla loro profondità, senza nascondersi dietro dottrine, dogmi o istituzioni.
In questo senso, per Francesco non è rilevante che Scalfari sia o non sia credente, ognuno ha la sua storia personale e il suo percorso esistenziale che devono essere rispettati. Ciò che è rilevante è la capacità di entrambi di essere aperti ad ascoltare l'altro. Per dirla come il grande poeta spagnolo Antonio Machado: "La tua verità? No, la Verità, e vieni con me a cercarla. La tua, tientela”. Più importante che sapere, è non perdere mai la capacità di imparare. Questo è ciò che significa il dialogo.
Con la sua lettera, Francesco ha dimostrato che tutti cerchiamo una verità più piena e più ampia, una verità che non abbiamo ancora. Per scoprirla, non servono i dogmi presi da loro stessi, né le dottrine formulate in astratto. Il presupposto comune è che ci sono ancora risposte da ricercare e che tutto è avvolto nel mistero. Questa ricerca colloca tutti allo stesso livello, credenti e non credenti, anche i fedeli delle diverse Chiese. Ognuno ha il diritto di esprimere la sua visione delle cose.
Viviamo tutti in una contraddizione terribile che circonda credenti e atei: Perché Dio permette le grandi ingiustizie di questo mondo? E' la domanda di profondo sconforto che ha fatto Papa Benedetto XVI quando ha visitato il campo di sterminio nazista di Auschwitz. Si sottrasse per un momento il suo ruolo di Papa e parlò solo come un uomo, con il cuore aperto: "Dio, dove eri quando queste atrocità sono accadute? Perché taci?".
Tutti noi cristiani dobbiamo ammettere che non c'è una risposta e che la questione rimane aperta. Solo ci conforta l'idea che Dio può essere ciò che la nostra ragione non capisce. L’intelligenza intellettuale da sola ammutolisce, perché non ha una risposta per tutto. La Genesi, come diceva il filosofo Ernst Bloch, non è all'inizio ma alla fine. Le cose, così pensano i credenti, si sviluppano verso un lieto fine. Solo alla fine, in qualche modo, ci sarà dato di capire il senso dell'esistenza. Allora noi potremo finalmente dire: "e tutto è buono" e dare "l’Amen" definitivo. Ma mentre viviamo non tutto è buono.
Verità assolute e verità relative? Preferisco rispondere come il grande poeta, mistico e pastore, il vescovo Don Pedro Casaldáliga, lì nella Amazzonia profonda: “L’assoluto? Solo Dio e la fame".
Nutro grande fiducia che Francesco, con il suo dialogo, potrà realizzare grandi cose per il bene dell'umanità. Ha cominciato a fare una grande riforma del papato. Presto ci sarà la riforma della Curia romana. Attraverso diversi discorsi ha detto che tutti i problemi possono essere discussi, cosa impensabile tempo fa. Questioni come il celibato sacerdotale, il sacerdozio delle donne, la morale sessuale ed il riconoscimento degli omosessuali, fino a poco tempo non potevano essere sollevate da teologi e vescovi.
Penso che questo sia il primo Papa a non volere un governo monarchico e assolutista, il "potere", come ha detto Scalfari. Invece, vuole essere più vicino al Vangelo che presenta i principi di misericordia e di compassione, avendo come centro di riferimento l’umanità.
Sicuramente il suo dialogo con i non credenti potrà veramente espandersi ed aprire una nuova finestra con l'etica della modernità che considera non solo la tecnologia, ma la scienza e la politica, e può anche portarci a superare l'esclusione dal comportamento della Chiesa cattolica, in altre parole, l'arroganza di concepirsi come l'unica vera erede del messaggio di Gesù'. E' sempre bene ricordare che Dio ha mandato suo Figlio al mondo, e non solo ai battezzati. Egli illumina ogni persona che viene nel mondo, non solo i credenti, come ricorda san Giovanni nel prologo del suo Vangelo.
In questo senso, in una lettera al Papa Francesco, ho suggerito personalmente un Concilio Ecumenico di tutta la cristianità, di tutte le chiese, tra cui anche la presenza di atei che possono, per la loro saggezza ed etica, aiutare ad analizzare le minacce che affliggono il pianeta e come affrontarle. E prima di tutti le donne, generatrici di vita, perché la vita stessa è minacciata.
Il Cristianesimo è presentato come un fenomeno occidentale e deve trovare il suo posto entro la nuova fase dell'umanità, la fase planetaria. Solo allora sarà per tutte e per tutti.
In Francesco, come egli già aveva dimostrato in Argentina, non vedo alcuna volontà di conquistare e fare proselitismo, ma, come riaffermato a Scalfari, disponibilità a testimoniare e camminare un pezzo di strada insieme agli altri. Il Cristianesimo prima che una istituzione è un movimento, il movimento di Gesù e degli Apostoli. In questa comprensione, sperimentare la dimensione della dignità umana, dell'etica e dei diritti fondamentali è più importante che semplicemente appartenere ad una Chiesa. Questo è il caso di Eugenio Scalfari. E' più importante guardare la dimensione della luce della storia, che la dimensione delle ombre, vivere come fratelli e sorelle nella stessa casa comune, la Madre Terra, rispettando le scelte di ciascuno, sotto il grande arcobaleno, simbolo della trascendenza dell'essere umano.
Il lungo inverno della Chiesa è finito. Aspettiamo una primavera solare, piena di fiori e di frutti, nella quale valga la pena di essere umani nella forma cristiana di questa parola.

(Intervista rilasciata per telefono a Vera Schiavazzi, di Romano Canavese, Torino, il 15 settembre scorso).

sabato 21 settembre 2013

L'indipendentismo catalano fra ragioni e torti


                                   

                                                 di Riccardo Achilli

La questione dell'autodeterminazione dei popoli è sempre spinosa, quando viene affrontata da sinistra, e rischia soltanto, a chi, come me, si accinge a parlarne, di generare soltanto disapprovazione e pesci in faccia. 
Detto questo, però, non è nemmeno possibile sottrarsi a tematiche che sono di attualità, e che riguardano tutti noi. Come il fuoco indipendentista che brucia in Catalogna. Pare che il 55% circa dei catalani siano favorevoli alla piena indipendenza dalla Spagna. Questa febbre non ha una targa politica precisa, essendo la tigre nazionalista cavalcata sia da partiti moderati, come quello dell'attuale presidente Mas, sia dall'ERC, partito indipendentista di stampo socialista democratico, sia da ampi settori del PSC, il partito socialista catalano "cugino" del PSOE. 
Ovviamente un principio di base del socialismo è quello del diritto all'autodeterminazione. Da questo punto di vista, voler semplicemente negare, come fa il governo Rajoy, il diritto a celebrare il referendum nel 2014 per cavilli legali, appare, oltre che inaccettabile, anche stupido. La legge ha forza fintanto che gli uomini le riconoscono autorità. Nessuna legge o sentenza della Corte Costituzionale spagnola può frenare un popolo, alla lunga. 
Tuttavia, un altro principio di base del socialismo è la solidarietà fra i popoli, che qualche volta stride con l'autodeterminazione, quando questa si converte in nazionalismo gretto. Pertanto, i diritti di autodeterminazione vanno esaminati caso per caso. Non ci si può nascondere dietro al dito: una parte importante delle rivendicazioni indipendentistiche catalane, anche se ovviamente non l'unica, è di tipo economico. La Catalogna ha un PIL pari al 19% di quello spagnolo e genera il 28% del suo export totale, a fronte di una popolazione pari al 16% del totale. E' quindi una regione che dà alla Spagna, in termini di gettito fiscale, molto più di quanto riceva, in termini di spesa pubblica e trasferimenti, e la differenza fra queste due voci, secondo una stima del Sole 24 Ore, è di circa 10 punti di PIL. E' quindi evidente che una componente importante dell'indipendentismo risieda nella volontà, in parte comprensibile ed in parte egoistica, di difendere privilegi e benessere, in una regione molto benestante, il cui PIL pro capite è pari al 117% della media spagnola. La parte egoistica, però, stride con il principio di solidarietà, tanto più in una fase di crisi economica così acuta, quando 42 milioni di spagnoli non residenti in Catalogna hanno bisogno delle locomotive della propria economia, come la Catalogna, per uscirne fuori. 
Tra l'altro, la Catalogna dispone già di una enorme autonomia: gestisce in proprio persino alcuni aspetti della giurisdizione civile, come il diritto successorio, ha una propria polizia che sostituisce completamente quella nazionale, ha ampie competenze in materia economica, sociale, di ordinamento scolastico, nel settore delle opere pubbliche, ecc. Il bilinguismo è garantito addirittura in forma leggermente discriminatoria per lo spagnolo, nella misura in cui lo Statuto catalano stabilisce che la lingua preferenziale nei rapporti fra P.A. e cittadini sia il catalano. 
Il problema vero risiede però nei rapporti fiscali: in larga misura, oggi, il sistema fiscale spagnolo prevede che i grandi tributi siano gestiti a livello nazionale, e il relativo gettito sia ripartito fra Stato e Comunità Autonome. Queste ultime possono creare tributi propri esclusivamente su presupposti d'imposta non colpiti da imposte nazionali, e poi godono della gestione di alcuni tributi nazionali "ceduti" (come quello sul patrimonio, la tassa di successione, l'imposta sui giochi d'azzardo). Ma il grosso degli introiti del bilancio catalano deriva dalla compartecipazione ai tributi statali (fissata con legge nazionale) e dai trasferimenti statali, sostanzialmente finalizzati a coprire "buchi di bilancio" a livello locale. 
Mancando una autentica e piena autonomia fiscale, ciò alimenta il famoso "albero storto" del federalismo di cui soffre anche il tentativo federalista fatto in Italia: tale sistema crea un corto circuito, nella mente dei cittadini, per cui i "buoni" sono i governanti della Generalidad di Barcellona, che spendono il denaro ricevuto da Madrid senza alcuna responsabilità specifica sui saldi finali (atteso che si crea l'aspettativa che eventuali buchi di bilancio vengano sempre e comunque coperti da Madrid, spaventata dal rischio perenne di secessione) ed i "cattivi" sono i governanti di Madrid, che regolamentano e prelevano la maggior parte delle imposte. Con il risultato finale che la Catalogna è oberata da 44 miliardi di debito pubblico, con rating portato al livello "spazzatura", e bond incollocabili sul mercato, per cui la Generalidad deve chiedere costantemente aiuto al governo "amico" di Madrid (Mas e Rajoy stanno dalla stessa parte) per non finire a dover fare politiche di austerità sgradite ai propri cittadini. Quattrini che nonostante tutto, la Spagna sottoposta al fiscal compact riesce sempre a trovare (ad agosto 2012 è stata versata una rata di aiuti pari a 5 miliardi, per sbloccare gli stipendi dei funzionari pubblici dell'amministrazione regionale). Naturalmente, in nome dell'autonomia, la Generalidad pretende che tali aiuti siano incondizionati. E questo forse è anche giusto. Però poi la solidarietà deve essere bidirezionale: non puoi chiedere di essere aiutato ed al contempo progettare la secessione per scaricare il resto del Paese al suo destino. L'egoismo fiscale dei catalani sembra non avere fine: con la riforma fiscale del 2009, essi hanno ottenuto, oltre ad un forte aumento della percentuale di compartecipazione all'imposta sui redditi ed all'IVA, anche la possibilità di non dover più restituire allo Stato la parte di imposte eccedente il finanziamento dei livelli essenziali di servizi pubblici, se essa viene devoluta a finanziare le altre competenze della regione. 
Il problema adesso ruota attorno alla solidarietà interregionale, cioè al fondo di perequazione fra comunità autonome che assicura la "nivelaciòn", ovvero l'obbligo di distribuire il 75% del gettito fiscale in modo che tutte le comunità abbiano lo stesso livello di finanziamento pro capite dei servizi essenziali (educazione, salute, assistenza sociale). In effetti, Madrid e la Catalogna finanziano l'80% della solidarietà interregionale. E questo dato rappresenta il vero "busilis" del problema: i catalani non vogliono più finanziare la solidarietà alle altre regioni meno ricche del Paese, nonostante il fatto che la riforma fiscale del 2009 consenta di lasciar loro in tasca i soldi per finanziare servizi di livello superiore alla media nazionale. Echeggia lo stesso richiamo del leghismo più becero: i soldi devono restare ai territori che li producono. Fanculo i terroni, si arrangino. 
Il principio attraverso il quale si esprime il nazionalismo fiscale di Mas, purtroppo seguito anche dal PSC, è quello dell'"ordinalità", un principio secondo il quale la posizione di una regione nel ranking della contribuzione fiscale pro capite debba essere uguale a quella del ranking basato sulla spesa pubblica pro capite. Ora, essendo la Catalogna una regione ricca, tale principio non può valere, per ovvi motivi di perequazione territoriale: si dà il caso che, al 2010, essa sia la terza regione spagnola per gettito fiscale pro capite devoluto allo Stato e soltanto la decima per risorse finanziarie ricevute dallo Stato per abitante. Non c'è niente di strano, è tipico di ogni Stato federale; negli USA, 21 dei 25 Stati maggiormente "contributori" cadono ben al di sotto del 25-mo posto nel ranking degli Stati "ricevitori". Ci si lamenta che per ogni euro raccolto dal fisco in Catalogna tornino soltanto 57 centesimi come spesa pubblica statale. Ma questa situazione è capitata anche allo Stato del Nevada nel 2003 e 2004, senza che i suoi cittadini urlassero alla secessione dagli USA! (cfr. http://www.vozbcn.com/2012/07/27/122476/principio-ordinalidad-fiscal-eeuu/). 
In sostanza: si dispone già di un'autonomia immensa in termini politico/amministrativi; si ottiene una maggiore compartecipazione fiscale, nonché la possibilità di trattenere una quota di risorse per pagarsi le altre competenze autonome e distintive ottenute, si vivacchia in una condizione di sostanziale irresponsabilità fiscale, per cui i cattivi che fanno le tasse stanno a Madrid ed i buoni che spendono stanno a Barcellona, salvo che poi i cattivi vengano in soccorso, con generosi trasferimenti pubblici incondizionati, per coprire i buchi di bilancio della malagestione dei buoni. E malgrado tutto ciò, quando c'è da dare qualcosa alla solidarietà interregionale, allora è meglio l'indipendenza. Mi spiace, ma qui non c'è alcun diritto di autodeterminazione nazionale. Qui c'è solo becero egoismo fiscale. 
In questi termini, la posizione politicamente più corretta è quella del PSOE, che non accetta l'indipendenza, però si propone di passare dall'autonomismo ad un reale federalismo. Il principio è corretto, e sono buone le proposte del PSOE, duramente negoziate con i cugini del PSC, di creazione di una Camera delle Regioni in luogo dell'attuale Senato, di maggiore autonomia in ambito giurisdizionale, di riconoscimento costituzionale della nazione catalana, ecc. 
La proposta del PSOE, per tenere l'accordo con il PSC, propone anche un buon compromesso sul principio di ordinalidad, sopra descritto, per cui la proposta del PSOE accetta il principio, peraltro stabilito da una sentenza della Corte Costituzionale, secondo cui "la contribuzione interterritoriale non deve collocare chi contribuisce in posizione relativa peggiore rispetto a chi è beneficiato". Una formulazione che quindi consente che ci sia solidarietà interregionale, e che quindi le diverse regioni possano non trovarsi nella stessa posizione nei due ranking di chi contribuisce e di chi riceve, implicando però un ragionevole limite a tale solidarietà, nel senso che non vada fino a spogliare le regioni ricche, impoverendole. Il richiamo alla sentenza costituzionale che è esplicitato nel documento, infatti, vale a mantenere un margine di flessibilità nel ranking finale, atteso che tale sentenza, del 2010, statuisce che il sistema di solidarietà non deve pregiudicare le regioni più ricche "al di là di ciò che è da considerarsi ragionevole", e deve consentire "l'approssimazione progressiva" fra regioni ricche e povere, consentendo quindi che vi sia una certa solidarietà, con regioni ricche che scendono moderatamente nel ranking dei contributi pro capite, e le regioni povere che salgono, sempre moderatamente. Inoltre, il documento del PSOE propone un vincolo costituzionale all'erogazione omogenea e paritaria su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali dei servizi pubblici fondamentali (scuola, salute, servizi sociali, previdenza) che di fatto va a rappresentare il "nucleo duro", intoccabile, della solidarietà interregionale, quello su cui nessuno ha il diritto di discutere e, se è ricco, deve soltanto pagare per garantirlo anche ai più poveri. 
Detto ragionevole compromesso può incontrare la ragionevole accettazione dei catalani: lo scambio è fra più soldi che restano al territorio catalano, e l'accettazione di un livello minimo di solidarietà con il resto del Paese, oltre che l'accantonamento definitivo di ogni ipotesi indipendentista. Speriamo che la ragionevolezza prevalga. 

mercoledì 18 settembre 2013

La Curia di Roma è riformabile?

         
             

                                                        di Leonardo Boff

La Curia romana è costituita da tutti gli organismi che aiutano il Papa a governare la Chiesa nei 44 ettari che circondano la basilica di San Pietro. Sono un po’ più di tremila funzionari. È nata piccola nel XII secolo, ma è diventata un organismo di esperti nel 1588 con il Papa Sisto V, pensata soprattutto per far fronte ai riformatori, Lutero, Calvino e altri. Paolo VI nel 1967 e  Giovanni Paolo II nel 1998 hanno cercato senza successo di riformarla.  

È considerata una delle amministrazioni governative più conservatrici del mondo e così potente che ha quasi ritardato, accantonato e annullato le modifiche introdotte dai due Papi precedenti e bloccato la linea progressista del Concilio Vaticano II (1962-1965). Rimane invariata, come se non lavorasse per il tempo, ma per l'eternità. Tuttavia, gli scandali morali e finanziari accaduti dentro i loro spazi sono stati di tale portata che è sorto il grido di tutta la Chiesa per una riforma, come una delle missioni da portare avanti per il nuovo Papa Francesco. Come scrisse il principe dei vaticanisti, purtroppo ora deceduto, Giancarlo Zizola (Quale Papa 1977): "quattro secoli di Controriforma hanno quasi estinto il cromosoma rivoluzionario del cristianesimo delle origini, la Chiesa si è stabilizzata come un organo contro-rivoluzionario" (p. 278) e che nega tutto ciò che appare come nuovo. In un discorso ai membri della Curia il 22 febbraio del 1975, il Papa Paolo VI riconobbe che la Curia Romana aveva preso "un atteggiamento di superiorità e di orgoglio al di sopra del collegio episcopale e del popolo".

Combinando la tenerezza francescana con il rigore gesuita riuscirà  il Papa Francesco a darle un’altra forma? Si è circondato saggiamente di otto cardinali esperti, provenienti da tutti i continenti, per accompagnarlo e per realizzare questo immane compito con le correzioni che necessariamente si devono fare.

Dietro a tutto ciò vi è un problema storico-teologico che ostacola notevolmente la riforma della Curia. Esso è espresso da due punti di vista contrastanti. Il primo è costituito dal fatto che, dopo la proclamazione della infallibilità del Papa nel 1870, con la successiva romanizzazione e uniformità di tutta la Chiesa, c’era una concentrazione massima alla testa della piramide: il Papato con il potere "supremo, pieno, immediato" (canone 331). Ciò implica che esso concentra tutte le decisioni, il cui onere è praticamente impossibile da essere effettuato da una sola persona, anche con potere monarchico assolutista. Questo potere non ha potuto subire alcun decentramento, in quanto ciò avrebbe significato una diminuzione del potere supremo del papa. La Curia si chiude attorno al Papa, che diventa suo prigioniero, a volte blocca iniziative spiacevoli per il loro conservatorismo tradizionale o semplicemente accantona i progetti fino a quando essi vengono dimenticati.

L'altro filone, riconosce il peso del papato monarchico e cerca di dare vita al Sinodo dei Vescovi, un organismo creato dal Concilio Vaticano II per aiutare il Papa nel governo della Chiesa universale. Ma successe che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, pressati dalla Curia che lo consideravano come un modo per rompere il centralismo del potere romano, l’hanno trasformato in un organo deliberativo e non consultivo.  Esso si celebra ogni due o tre anni, ma senza un reale impatto sulla Chiesa.

Tutto fa pensare che Papa Francesco, nel convocare questi otto cardinali per realizzare insieme a lui e sotto la sua direzione la riforma della Curia, pensi di creare un organo collegiale con il quale presiedere la Chiesa.   Magari potrebbe estendere questo collegio a rappresentanti non solo della gerarchia, ma a tutto il popolo di Dio, comprese le donne che sono la maggioranza della Chiesa. Questo passo non dovrebbe sembrare impossibile.

Il modo migliore per riformare la Curia, a giudizio degli esperti delle cose del Vaticano e anche di alcuni membri della gerarchia, sarebbe realizzare un grande decentramento delle sue funzioni. Siamo nell'era della globalizzazione e della comunicazione informatica in tempo reale. Se la Chiesa cattolica volesse adattarsi a questa nuova fase dell'umanità, niente di meglio che operare una rivoluzione organizzativa. Perché il dicastero per l'evangelizzazione dei popoli non potrebbe  essere trasferito in Africa? Quello del dialogo interreligioso all'Asia? O quello della pace e la giustizia in America Latina? E la promozione dell'unità dei cristiani a Ginevra, accanto al Consiglio Mondiale delle Chiese? Alcuni, per le cose più immediate, rimarrebbero in Vaticano. Tramite videoconferenze, Skype e altre tecnologie di comunicazione potrebbero mantenere un contatto immediato e continuo. Così sarebbe possibile evitare la creazione di un anti-potere cosa della quale la Curia è grande esperta. Ciò renderebbe la Chiesa cattolica veramente universale e non più occidentale.

Come Papa Francisco vive chiedendo di pregare per lui, dobbiamo pregare efficacemente e a lungo affinché questo desiderio diventi realtà.


lunedì 16 settembre 2013

Il triste affaire Kyenge

   
                                                      

                                          di Diego Fusaro

Probabilmente l’estate 2013 verrà ricordata anche per il triste “affaire Kyenge”. Alludo, con questa formula, alla penosa vicenda che ha coinvolto in prima persona il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Si tratta di una questione che, nel suo complesso, reputo patetica per più motivi. Il primo dei quali, naturalmente, resta la vergognosa “furia del dileguare” propria di alcuni noti politici leghisti, che si sono accaniti in modo oltremodo volgare sul ministro dell’Integrazione, simbolo e presagio – a loro dire – della “futura Italia meticcia”. Il vecchio e pomposo slogan leghista (“Padania libera!”) trova, paradossalmente, la propria verità se riferito a taluni politici leghisti, liberandosi dei quali la cosiddetta Padania trarrebbe indubbiamente un immenso giovamento.

Ma al di là dell’osceno episodio di razzismo, che è stato giustamente condannato pressoché a trecenetossessanta gradi (con rare eccezioni, dovute soprattutto al fatto che gli imbecilli, purtroppo, non potranno mai estinguersi del tutto), è un altro il punto su cui vorrei soffermare l’attenzione. Si tratta di un punto che, nel dibattito generale, è passato del tutto inosservato, e certo non a caso. È il solo aspetto che, per uno sguardo marxianamente educato, deve essere preso seriamente in esame.

Lo formulerò in maniera telegrafica (anche a costo di semplificare più del dovuto), in modo da giungere direttamente, senza troppe perifrasi, al cuore della questione. L’insistenza maniacale con cui l’industria mediatica ci ha intrattenuti sull’“affaire Kyenge” è tutto fuorché innocente. Di più: corrisponde a una delle molteplici manifestazioni di una volgare strategia ormai in auge da tempo nel capitalistico regno animale dello spirito. Tale strategia, nella sua essenza, consiste nello spostamento ininterrotto dell’attenzione dell’opinione pubblica su questioni secondarie, di modo che la contraddizione principale resti permanentemente occulta.

Tramite un simile spostamento d’attenzione, la questione sociale, in tutte le sue determinazioni (debito pubblico, erosione sempre più oscena dei diritti sociali, eurocrazia imperante, connazionali che stentano a raggiungere la fine del mese, ecc.), è puntualmente resa invisibile: in suo luogo, sono poste al centro dell’attenzione mediatica tutta una serie di questioni secondarie, il cui unico fine – e sottolineo unico – corrisponde all’occultamento della contraddizione principale, i rapporti di forza capitalistici, con il classismo, l’asservimento, lo sfruttamento e la miseria generalizzata che essi continuano senza tregua a produrre.

Il cuore della questione sta, allora, in questo: l’“affaire Kyenge” non è legato alla legittima e, di più, necessaria opposizione al razzismo in ogni sua declinazione, bensì alla distrazione programmata rispetto alla contraddizione capitalistica. Tale distrazione è artatamente governata dalla manipolazione organizzata, dal circo mediatico e dal clero giornalistico (che parla di tutto e non crede a nulla). Il capitalismo, nella sua forma attuale, non ha più bisogno di legittimarsi tramite il razzismo (ben altrimenti al tempo del colonialismo, naturalmente!), che può anzi condannare con l’obiettivo di mostrarsi proditoriamente emancipativo e, insieme, di destare l’illusione che l’emancipazione si esaurisca nella lotta contro il razzismo (che pure del movimento di emancipazione è un momento indispensabile), di modo che non possa mai sorgere il sospetto che la vera emancipazione comporti di necessità il superamento dei nessi di forza capitalistici (classismo, bombardamenti etici in nome dei diritti umani, schiavitù del debito e del salario, ecc.).

Per questa via, sorge la falsa convinzione – gravida di ideologia – secondo cui la lotta contro il razzismo sarebbe il compimento dell’emancipazione, il non plus ultra dell’opera della critica. In questo modo – è questo il punto decisivo – la lotta contro il capitale e le sue storture viene completamente obliata e, con essa, si perde di vista il fatto fondamentale: la critica del razzismo, di per sé, non basta; può, anzi, fungere da alibi per non affilare le armi della critica indirizzata contro il capitale. È, del resto, un fatto risaputo. La manipolazione organizzata trova nella strategia della “distrazione programmata” una feconda risorsa simbolica. Dirottando l’attenzione su contraddizioni estinte o su questioni irrilevanti, spesso create ad hoc, la passione della critica è ininterrottamente distolta dalla contraddizione principale, nemmeno più nominata. La di per sé nobile e fondamentale critica del razzismo viene, per questa via, impiegata per destare l’illusione che, nel nostro presente, la contraddizione principale sia appunto il razzismo e non il classimo, il debito e le altre nefandezze prodotte dal prosaico sistema della disorganizzazione organizzata del capitale.

In questo modo, la possibile opposizione anticapitalistica è preventivamente frammentata. In luogo del conflitto contro il nesso di forza capitalistico, subentrano una miriade di “micro-lotte” che, di per sé nobili (vuoi in difesa dell’acqua pubblica, vuoi per la respirabilità dell’aria, vuoi per l’eco-compatibilità con il territorio, vuoi per il riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e sociali, ecc.), mancano di un loro comune orizzonte di senso – vuoi anche di una koiné filosofico-politica – che faccia riferimento all’unitarietà del genere umano e, di conseguenza, a un suo programma di emancipazione implicante la lotta incondizionata contro il fanatismo dell’economia che non smette di perpetrare la violenza istituzionalizzata dell’economia e della finanza.

D’altro canto, il dilemma che oggi si pone per chi non voglia rinunciare alla critica e allinearsi con il coro di quanti – per dirla con Hegel – “ululano con i lupi” riguarda la possibilità di una valorizzazione dei momenti emancipativi del nostro tempo (l’attenzione per le differenze, per la pluralità e per la molteplicità di stili di vita) che sappia però sottrarli allo sguardo medusizzante del capitale e all’immediata riconversione in merce che esso opera.
L’antirazzismo deve, allora, essere incorporato in una più generale critica radicale del fanatismo dell’economia, anziché lasciarsi riassorbire – come oggi accade (e l’“affaire Kyenge” ne è una manifestazione chiara come il sole) – nel movimento di santificazione dei nessi di forza capitalistici.


venerdì 13 settembre 2013

Il riscatto necessario della sensibilità ecologico-sociale

   


                                            di Leonardo Boff


Dal 19 al 23 agosto nella città di Copenhagen si è svolto il XIX Convegno internazionale sulla Psicologia Analitica di C.G.Jung, al quale ho partecipato. Erano presenti circa 700 junghiani venuti da tutto il mondo, incluso Siberia, Cina e Corea, in grande maggioranza analisti sperimentati, molti dei quali autori di libri rilevanti in quest’area. Ha predominato questa tendenza: la necessità della psicologia in generale  e di quella analitica junghiana in particolare di aprirsi al comunitario, al sociale ed all’ecologico. 

Questa preoccupazione va incontro al pensiero stesso di C.G.Jung.Per lui la psicologia non possedeva frontiere tracosmose vita, tra biologia e spirito, tra corpo e mente, tra conscio e incoscio, tra individuale e collettivo. La psicologia aveva a che fare con la vita in tutta la sua totalità, nella sua dimensione razionale e irrazionale, simbolica e virtuale con i suoi aspetti archetipici tenebrosi e sacri. Per questo gli interessava tutto, i fenomeni esoterici e l’alchimia, la parapsicologia, lo spiritismo, la filosofia, la teologia, la mistica occidentale e orientale, inoltre i popoli autoctoni e tutte le teorie scientifiche più avanzate. Sapeva articolare questi saperi scoprendo connessioni occulte che rivelano dimensioni sorprendenti della realtà. Da tutto sapeva tirar fuori insegnamento, ipotesi e vedere possibili finestre sulla realtà. Per questo tutte le discipline gli andavano strette, motivo per cui molti lo prendevano in giro. Quello che per i discepoli dell’Illuminismo razionalista pareva un difetto, noi con gli occhi di oggi lo consideriamo una sua grande virtù.



Questa visione olistica e sistemica dobbiamo farla diventare egemonica nella nostra lettura della realtà. Caso contrario rimaniamo ostaggi di visioni frammentate che perdono l’orizzonte del tutto, specialmente i riflessi psicologici degli eventi storici nella psiche umana e nel senso che diamo alle nostre esperienze. In queste ricerche accurate, Jung è un interlocutore privilegiato.

È toccato proprio a Jung il meritodi valorizzare e decifrare ilmessaggio nascosto nei miti. Essi costituiscono il linguaggio dell’inconscio collettivo. Sono le grandi metafore del dramma umano nella sua piccolezza e nella sua grandezza. Questo ha una sua relativa autonomia e possiede noi, più di quanto noi possediamo lui. Ciascuno è pensato più di quello che propriamente pensa. L’organo che capta il significato dei miti, dei simboli e dei grandi sogni è la ragione sensibile o ragione cordiale. Questa nel tempo della modernità è stata guardata con sospetto perché potrebbe oscurare l’obiettività di giudizio. Jung è sempre stato criticodell’uso ostinato della ragione occidentale perché chiudeva molte finestre dell’anima.

Noto il dialogo degli anni 1924-1925 tra Jung e un indigeno della tribù dei Pueblo del Nuovo Messico (Stati Uniti). Questo indigeno pensava che i bianchi erano pazzi. Jung gli domanda perché i bianchi dovrebbero essere pazzi. Al che l’indigeno risponde: “Loro dicono che pensano con la testa”. Ma è chiaro che pensano con la testa, contestò Jung. Perché voi come pensate? E l’indigeno sorpreso rispose: noi pensiamo ‘qui’ e indicò col dito in direzione del cuore (Memórias, sonhos, reflexões, p. 233).

Questo fatto ha trasformato il pensiero di Jung. Voleva dire che gli europei avevano conquistato il mondo con la testa ma avevano perso la capacità di pensare con il cuore e di vivere attraverso l’anima (cf. Anthony Stevens,Jung,Vida e pensamento, Vozes 1993, p. 269).

È necessario considerare il sensibile e il cordiale come elemento centrale nell’atto della conoscenza. Elemento che permette di captare valori e significati e riscattare la profondità presente nel senso comune (Maffesoli, op. cit. 189; G. Zoia,A arrogância12-17; 170-181). La mente è sempre incorporata, pertanto, sempre impregnata di sensibilità e non soltanto cerebralizzata.

Jung sentiva il legame con le cose. Nelle sueMemórias/Ricordidice: “Ci sono tante cose che mi danno il senso di pienezza: le piante, gli animali, le nuvole, il giorno, la notte e l’eterno presente negli uomini. Quanto più mi sento incerto su me stesso, più cresce il sentimento della mia parentela con tutto” (361).

Il dramma dell’uomo attuale è aver perso la spiritualità e la sua capacità di vivere un sentimento di appartenenza. Quello che si oppone alla religione o alla spiritualità non è l’ateismo o la negazione della divinità. Quello che si oppone è l’incapacità di legarsi e relazionarsi con tutte le cose. Oggi le persone sono sradicate, disconnesse dalla Terra, dall’anima e per questo senza spiritualità.

Per Jung il grande problema oggi è di natura psicologica, non della psicologia intesa come disciplina o solo come una dimensione della psiche,ma psicologia nel senso complessivo come la intendeva Jung, come la totalità della vita e dell’universo in quanto percepiti e articolati con l’essere umano sia per il conscio sia per l’inconscio personale o collettivo.E’ in questo senso che scrive:

“E’ mia convinzione profonda che a partire da adesso fino al futuro indeterminato il vero problema è di ordine psicologico. L’anima è il padre e la madre di tutte le difficoltà non risolte che lanciamo verso il cielo” (Cartas III, 243).

Se non riscattiamo oggi la ragione sensibile difficilmente ci mobiliteremo per rispettare l’alterità degli esseri, per amare la Terra con tutti i suoi ecosistemi e vivere la compassione con chi soffre, nella natura e nell’umanità.

        Traduzione Romano Baraglia – romanobaraglia@gmail.com



lunedì 9 settembre 2013

Ancora su Tav e violenza



                                             di Diego Fusaro

Ha fatto molto discutere l’intervista rilasciata a “Lo Spiffero” qualche settimana fa da me e da Gianni Vattimo in merito alla TAV e alla violenza. Oltre all’usuale chiacchiericcio di internet, anche il “Corriere della Sera”, il 15 agosto, ha dato ampio spazio ai temi trattati nell’intervista. Con questo mio intervento, non intendo far altro che riprendere alcuni plessi teorici a cui avevo fatto cenno in modo necessariamente impressionistico e che, sciaguratamente, nel dibattito giornalistico e su internet sono passati del tutto inosservati e, di più, sono stati (artatamente?) occultati, come se non esistessero.

Il mondo della manipolazione organizzata, del resto, funziona così e non bisogna meravigliarsene. Per dirla con Antonio Gramsci, la stampa resta “la parte più ragguardevole e più dinamica” dell’organizzazione dell’egemonia ideologica. Essa dà costantemente luogo a quella – sono ancora parole del filosofo sardo – “situazione di grande ipocrisia sociale totalitaria” che ottunde quotidianamente le nostre menti. Si tratta di una questione ampiamente nota, ma che non bisogna mai perdere di vista, pena lo smarrirsi nel caos organizzato dell’ideologia dominante, il pensiero unico neoliberale che ha colonizzato l’immaginario collettivo con il dogma religioso “non avrai altra società all’infuori di questa!”.

Nel nostro caso, l’intorbidamento ideologico della questione sta esattamente in questo: la discussione circa l’essenza della violenza – il solo punto interessante per inquadrare l’affaire TAV e le proteste in Val Susa ad esso connesse – è stata integralmente evitata e si è riportata l’attenzione sulle solite manfrine, gravide di ideologia, circa la legittimazione della violenza dei contestatori della Val Susa. Come se, appunto, il sottoscritto fosse intervenuto per legittimare la violenza in ogni sua forma! Come se, da una parte, vi fosse la pace generale e, dall’altra, un manipolo di facinorosi della sperdutissima val Susa che, senza motivo e per puro spirito conflittuale, ricorrono alla violenza in ogni sua possibile forma.

Si tratta di una decontestualizzazione completa, il cui unico fine consiste nel rendere incomprensibile la concreta situazione, presentando in modo niente affatto innocente la violenza dei resistenti come l’unica in campo. Sarebbe come dire – mi si conceda questo paragone – che solo i partigiani erano violenti.

Onde evitare pittoreschi equivoci (ed equivoco, curiosità e chiacchiera restano il regno dell’inautenticità, Heidegger docet), preciso nuovamente la mia prospettiva, in modo che quanti vogliono criticarmi possano farlo prendendo di mira la mia posizione e non – come finora hanno indefessamente fatto – un fantoccio creato ad hoc: tutta la patetica ipocrisia della propaganda ufficiale sta nel criminalizzare come violenti i Valsusini, obliando integralmente il fatto che la violenza è – come altre volte ho avuto modo di sottolineare – l’essenza stessa della società di mercato di cui siamo sudditi (la violenza come “categoria economica immanente”, secondo l’insuperabile formulazione di Lukács).

In questo modo, la partita è vinta senza neppure bisogno di scendere in campo: è violento, per l’ideologia egemonica, sempre e solo chi resiste; la violenza non è mai quella della tirannia del mercato e del fanatismo di un’economia che sottomette le comunità umane alle sacre leggi dell’ordo oeconomicus (nel nostro caso, la creazione di una linea ferroviaria per far circolare più velocemente le merci, in un totale disinteresse della volontà sovrana del popolo), ma è sempre e solo quella di chi si oppone, magari anche con mezzi non propriamente ortodossi. All’egemonia ideologica piace vincere facile, e può farlo perché detiene in modo monopolistico i canali dell’informazione (tv, radio e giornali – a destra come a sinistra – ripetono in modo plurale sempre e solo lo stesso messaggio)!

Questo intendevo sostenere: né più, né meno. Né apologia della violenza, né – tanto meno – difesa a oltranza del popolo che scende in piazza (secondo quella banale identificazione tra discesa in piazza e prassi rivoluzionaria di cui la Vandea continua a rappresentare la più tragica e incontrovertibile confutazione).

Se si vuol condannare la violenza, magari citando Gandhi e le variopinte tradizioni pacifiste, lo si faccia pure, purché si sia coerenti: ossia purché non ci si dimentichi che la prima forma di violenza da condannare non è quella dei Valsusini, ma quella dell’economia globalizzata che impone le sue leggi a scapito della vita umana e del pianeta. Mi rendo conto, tuttavia, che pretendere questo dal clero mediatico significa chiedere troppo.

La resistenza valsusina è, appunto, una forma di resistenza alla violenza criminale dell’economia e delle politiche neoliberali. Per dirla ancora più chiaramente: condannare unicamente i Valsusini non equivale a condannare la violenza, ma semplicemente a glorificare quella dell’economia, per di più dichiarando illegittimo a priori ogni tentativo di opporsi ad essa.
L’ipocrisia ideologicamente condizionata raggiunge, in effetti, vette insuperate quando si condanna la violenza dei Valsusini in nome del pacifismo. Come se, appunto, fossero la pace il totalitarismo dell’economia e il fanatismo della finanza che uccide silenziosamente in nome dell’economia e dello spread!

È francamente ripugnante – ieri come oggi – il pacifismo delle masse impotenti che sfilano tra bandiere policrome e belati osceni (“paceee! paceee!”), mentre l’economia continua a mietere le sue vittime e a diffondersi imperialisticamente con bombardamenti umanitari. Il pacifismo non è che l’introiezione del potere in un mondo intessuto di violenza e aggressioni: esso è, dunque, la legittimazione del monopolio della violenza aperta dei dominanti e di quella silenziosa di un sistema che espropria l’umanità del futuro. È, in altri termini, un modo sofisticato (ma neanche troppo!) per negare ai dannati della terra perfino il diritto di lottare e di opporsi alle angherie che quotidianamente patiscono sulla loro carne viva.

Con buona pace del titolo di un best seller del nostro tempo, che recita programmaticamente che resistere non serve a niente, la resistenza al monopolio della violenza organizzata del fanatismo economico che disgrega gli Stati e distrugge le comunità è di vitale importanza. È il solo mezzo per evitare che l’umanità sprofondi inappellabilmente nella notte che non ha mattino. Con gli splendidi versi di Eliot: “noi che non fummo sconfitti solo perché continuammo a tentare”.

da: http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/ancora-su-tav-e-violenza-12381.html

mercoledì 4 settembre 2013

La barbarie d'azzardo





A costo di sembrare impertinente oppure indifferente, per me l'immagine emblematica della crisi siriana non è quella dei “gasificati”, ma piuttosto quella del senatore Mc. Cain che, mentre il Senato delibera sull'eventuale intervento armato degli USA in Siria, se ne sta stravaccato a giocare a videopoker.
Per carità, nulla da invidiare ai senatori nostrani, che si sdraiano addormentandosi sui sedili o i cui concerti “pianistici” sono famosi al mondo e persino negli oceani, per non parlare poi degli straordinari incontri di pugilato, su cui ormai si tuffano pure gli allibratori
Questa, che vi piaccia o no, è la “democrazia” (il maddeché è superfluo), o meglio la maschera grottesca con cui un regime, ormai planetario, cerca in maniera sempre più ridicola di nascondersi per continuare a contare sulla complicità delle addomesticate masse votanti.
Sulla crisi siriana sono stati versati fiumi di inchiostro, per cui queste brevi note non pretendono certo di offrire la migliore chiave di lettura dell'ennesima impresa neocolonialista che l'Occidente, a guida inossidabilmente USA, si accinge ad intraprendere.
L'ambizione resta evidentemente quella, dal Kosovo, alla Libia ed ora verso la Siria, passando per Israele, di rendere il Mediterraneo un lago americano, con solidi e fedeli approdi, specialmente lungo le nostre coste italiane, in un perdurante clima di guerra d'azzardo in cui si rialza la posta in gioco in continuazione e sempre si più.  E' lo stesso gioco d'azzardo che orienta i meccanismi speculativi dei mercati oppure le società di rating. La foto del senatore americano che gioca a videopoker nel Senato ne è l'immagine più efficacemente simbolica ed emblematica. E' il saloon della democrazia
L'unico intoppo, per questo progetto che non è altro che la prosecuzione di una guerra perdurante di conquista, intervallata solo dalla rottura del muro condominiale tra est e ovest, ma con l'obiettivo sempre più dichiarato di estendere il Vallo Atlantico da Nord a Sud, è oggi un altro Stato che, pur essendo oggi a guida socialista, nutre ambizioni analoghe nel Mediterraneo: la Francia.
E' quindi arduo decidere se condannare il presidente Hollande per avere rinnegato ogni minima moralia socialista con il suo perdurante anelito neocolonialista e guerrafondaio, perfetta prosecuzione di quello del governo conservatore che lo ha preceduto nell'intervento in Libia, oppure applaudirlo perché l'unico in grado di competere ancora nel Mediterraneo contro lo strapotere USA.
Noi che evidentemente continuiamo a preferire il socialismo di Pascoli a quello di Labriola, almeno nelle posizioni che riguardarono la politica internazionale, siamo tuttora per una condanna netta e senza riserve.
Anche perché con essa condanniamo allo stesso tempo un Partito Socialista Europeo del tutto inesistente, impotente ed inutile, specialmente nella capacità di mediare ed affermare, a livello continentale, politiche che mettano al primo posto la pace, la diplomazia e la solidarietà tra i popoli, impedendo concretamente derive nazionaliste e guerrafondaie.
Non crediamo tuttavia, con spirito pienamente libertario, che per spegnere l'incendio che rischia di trasformare il Mediterraneo in un lago di sangue, in particolare con le migrazioni bibliche che seguono alle perduranti guerre, si possano o debbano esaltare pompieri come Russia, Cina o Iran, e non per sottilizzare sulla loro carta di identità, ma semplicemente per il fatto che essi stessi non hanno alcuna intenzione di esercitare quel ruolo di spegni incendio.
Le recenti crisi internazionali hanno infatti dimostrato che quelle che appaiono solo ad occhi distratti come potenze antagoniste, sono in realtà perfettamente inserite nella dinamica globale del turbocapitalismo e traggono anch'esse vantaggi dai conflitti, in termini di vendita di armi, sfruttamento delle materie prime ed espansione dei mercati speculativi.
Nell'antitesi tra Socialismo e barbarie, Russia, Cina ed Iran non esprimono dunque la prima opzione ma la seconda, e se poi coniughiamo, come è necessario, il Socialismo con l'imperativo categorico di salvare la Terra per salvare l'umanità, ciò è ancora più evidente.
Da questo punto di vista le carte in regola le hanno di più certi governi Sudamericani, o almeno la tendenza in atto in alcuni degli stati Sudamericani, non tutti, se infatti prendiamo ad esempio l'Ecuador che è seriamente orientato a vendere 3 milioni di ettari di foreste pluviali alle compagnie petrolifere cinesi per ripagare i suoi debiti. Una barbarie che equivale ad una guerra alla natura e ad i popoli indigeni che la popolano.
Noi, dunque, nella diatriba siriana, non siamo affatto tentati di sostenere il dittatore Assad, tanto meno il lupo famelico americano o i falsi pompieri che strillano solo per alzare il prezzo della loro altrettanto famelica indifferenza come Russia e Cina.
Noi restiamo dalla parte del silenzio dei popoli innocenti, vilipesi, martoriati e trucidati, sia quando restano nella loro patria dilaniata, sia quando sono costretti a scappare, naufragando in un mare di disperazione.
Noi restiamo convinti che la ragione principale di un Ecosocialismo che sa validamente contrastare la barbarie globalizzata nella riduzione dell'essere umano e della natura a merce per fini di profitto, consista ancora e principalmente nel “fare la guerra alla guerra”, in ogni luogo ed in ogni tempo.
Che sia tuttora la molla principale di una rivoluzione necessaria e globale e sempre più impellente per salvare la Terra e l'Umanità dal completo annientamento e dalla totale desertificazione, da combattere con ogni mezzo comunicativo e pratico.
Il Comandante Chavez ci ha lasciato in eredità un messaggio chiaro e preciso con queste testuali parole: Se vogliamo salvare la Terra e l’Umanità dal cambiamento climatico dobbiamo prima farla finita con il capitalismo”, precisando che “il cambiamento climatico è l’effetto e non la causa del sistema capitalistico”.
Questa è la vera espressione di un Ecosocialismo che contrasta la barbarie, questa la bussola non per un unico paese, ma per l'intera umanità.
Guerre e devastazioni ambientali ormai procedono di pari passo e sono a tutti gli effetti già guerre atomiche; ridicolo pensare di condannare le armi chimiche quando si usano in continuazione armi all'uranio impoverito che contaminano permanentemente ambienti, persone e persino soldati belligeranti.
Chi oggi ancora si ostina a scrivere nel suo simbolo una parola come “sinistra” che non significa più nulla perché di fatto non rappresenta concretamente tali obiettivi, e contemporaneamente mette al primo posto l'allargamento delle intese (anche in questo caso in perfetto stile da pompiere del nulla) che servono solo per passare dalla zuppa con il piattino di lenticchie al pan bagnato nelle lacrime dei lavoratori, non ha capito un accidente della dicotomia Socialismo o barbarie, e forse farebbe meglio di gran lunga a sostituire la bussola con l'astrolabio, se non altro per rialzare un tantinello la testa..



C.F.

martedì 3 settembre 2013

Un governo Letta per un popolo di latta. (patrioti o morti)




E' stata appena risolta, almeno temporaneamente la diatriba sull’IMU, che già le polemiche e gli scaricabarili si susseguono con ininterrotte litanie di rimpallo­­ di responsabilità inerenti al fatto che quello che viene definito dal centrosinistra “cedimento a Berlusconi” è solo un cappio che maschera altre tasse perché i soldi mancano e li si dovrà trovare con altre gabelle.
Un vergognoso tiro alla fune che ha come unico scopo quello di smontare il misero contentino che il PdL sta dando ai suoi elettori per giustificare il perdurante inciucio con il PD. Tanto che se, puta caso, il centrosinistra dovesse vincere le prossime elezioni, c’è da stare più che certi che la tanto vituperata IMU sarà ripristinata in un battibaleno. Questa è la miseria di un paese in cui nemmeno l’abbraccio indissolubile tra due componenti politiche che dovrebbero essere tra loro antagoniste, riesce a fare in modo che si trovino soluzioni definitive e strutturali al perdurante degrado a cui stiamo inesorabilmente andando incontro.
E non è un caso che ciò avvenga da quando quella componente politica che ha segnato per circa un secolo la storia del nostro Paese, configurandone le tappe più significative e socialmente avanzate, è stata adombrata nella sua damnatio memoriae, fino a rendere quasi impossibile in partenza che essa possa rinascere ed influire concretamente di nuovo nelle sorti dell’Italia. Peccato davvero che le generazioni di ventenni non abbiano mai visto, e chissà mai se lo vedranno, un vero partito Socialista all’opera in Italia. Per loro questa parola è destinata a restare nel vocabolario delle astrazioni o in quello dei sinonimi impropri ed impossibili, assimilandolo a ladro o corrotto, quando, piuttosto, non è mai cresciuto tanto latrocinio e tanta corruzione dal momento in cui il Partito Socialista Italiano si è eclissato quasi definitivamente dal panorama politico italiano.
La cosiddetta sinistra radical chic italiana, che tutto è fuorché socialista, nutre una particolare avversione per la povertà e per il patrimonio frutto dei risparmi degli italiani, specialmente se esso si concretizza in case di abitazione, tanto che uno dei suoi guru, nella rivista “guida” L'Espresso, del gruppo editoriale più rappresentativo del turbocapitalismo oggi in atto, arriva persino ad ipotizzare soluzioni di “macelleria” per coloro che non dovessero farcela a pagare l’IMU.
Lo zelante editorialista della rubrica che non a caso si chiama “libero mercato” propone addirittura che i poveri vecchietti che si ritrovano come patrimonio di famiglia la loro casa, magari frutto di una vita di risparmi, di sacrificio e di mutuo, e che non ce la fanno a pagarla, passino allegramente dal mutuo magari appena estinto con una banca, ad un altro con lo stato, per pagare tutte le rate IMU dovute, o al momento di lasciare la casa in eredità, oppure in quello in cui dovranno venderla. Praticamente passando da una rapina all’altra. Il cinismo di certi loschi figuri fa solo crescere la saliva in bocca..con desiderio impellente di espellerla..
Il fatto è che questi guru non vivono in Italia, ma negli USA e il loro compito è quello di sparare castronerie sul modello americano per beatificarlo, senza minimamente preoccuparsi della situazione che esiste in Italia, anzi, forse senza nemmeno conoscerla.
Ci si dice che le tasse sulla casa negli USA sono più salate delle nostre…già, ma quelle sul reddito? Il reddito dell’editorialista dell’Espresso risente di un’aliquota del 31,9%. Meno di un terzo delle sue entrate, dunque, se ne va in tasse. Ma se il “guru” vivesse e lavorasse in Italia e soprattutto se fosse “fedele” al fisco, egli sopporterebbe una pressione fiscale effettiva pari al 55%.
E se fosse un pensionato “di latta” forse anche di più.
Quindi questa è la riprova che in Italia non solo la sinistra non esiste, ma che quella che prova a spacciarsi millantando crediti inesistenti, è pure peggiore della cosiddetta destra. E questo lo diciamo noi che restiamo fedeli ad una idea e ad una concretezza socialista che va ben al di là delle definizioni improprie e del tutto artificiose con cui si mascherano i veri interessi trasversali.
La realtà, nuda e cruda, è che qui si sta vivendo ormai una situazione sudamericana da anni settanta-ottanta, con una popolazione in cui il 10% di riccastri in combutta inossidabile con le stanze del potere, detiene più di metà della ricchezza complessiva del paese, dovuta sempre di più a sfruttamento da lavoro nero, a delocalizzazioni, a speculazioni finanziarie, a taglieggiamenti di vario genere, a pensioni d’oro e a privilegi scandalosi che nessuno si sogna di toccare.
Eccolo quindi il bandolo della matassa con cui semplicemente si potrebbe spiegare ad uno studentello cosa potrebbe essere una grande forza socialista in questo Paese, non certo quella che si accanirebbe contro l’unico patrimonio senza gambe per scappare, ma quella che aspetterebbe al varco i ricattatori del mondo del lavoro, quella che saprebbe come colpire le rendite parassitarie e speculative, la grande evasione fiscale, le delocalizzazioni selvagge. Non quella che incrementa la svendita del patrimonio immobiliare dei cittadini per farlo finire nelle tasche degli stessi speculatori, evasori e taglieggiatori in grado di comprarsi tutto quello che i poveri cristi onesti, lavoratori e risparmiatori di una vita sono costretti a svendere a causa di un carico fiscale insopportabile.
Diciamolo una volta per tutte: il Socialismo non è contro la proprietà privata, non è contro il patrimonio, non è contro la ricchezza e tanto meno contro il libero scambio. Il Socialismo è contro la proprietà dei mezzi di produzione usati per sfruttare i lavoratori, è contro la ricchezza ricavata da speculazioni e da taglieggiamenti, è contro lo scambio ineguale di opportunità e di valore. E’ per la giustizia sociale non per il livellamento sociale, è  per la libertà di iniziativa e di creatività, non per quella di realizzare oligopoli e monopoli commerciali.
C’è un profondo deficit di cultura ed una terrificante assuefazione di origine clientelare e clericale alla logica di consorteria e al trarre profitto dal vassallaggio che rende possibile tutto ciò, è quella logica dei Trimalcioni abituati e proni a tutte le nefandezze, a tutti i più triviali servaggi,  pur di emergere ed avere una fetta di quella torta riservata dai padroni ai loro servi, affinché assicurino loro la schiavitù salariale di un intero popolo di latta, la medesima che rende un intero paese perdurantemente “servo e di dolore ostello”.
Un'Italia serva e debole è la migliore garanzia di una Europa succube e senza prospettive di reale emancipazione, ovviamente questo chi ha interesse a insistere nel suo infinito imperialismo guerrafondaio, lo sa bene, così come sa altrettanto bene che una Patria-Italia forte ed indipendente sarebbe, come in passato, il preludio indispensabile e necessario per un Mediterraneo ed una Europa altrettanto forte ed indipendente.
Meglio dunque rimpinzare i servi Trimalcioni affinché esercitino il loro potere, affinché siano garanti dell'unica loro attitudine al servire, imponendola a tutti, volenti o nolenti. Meglio riempire di guerre e di migranti disperati il mare e le nostre coste per ingrassare loschi Caronti con profitti di bragia, meglio stravolgere l'identità e la cultura di una nazione.
Questo si fa ovunque si metta in atto ogni politica neocoloniale, in tutti i continenti, ora anche in quello europeo.
Ma cosa si fa per rovesciare questa perversa dinamica che sta distruggendo anche le nostre radici, portandoci a spendere più per servire in armi che per valorizzare, scuola, formazione, ricerca e un patrimonio culturale ed artistico di inestimabile valore? Più per credere obbedire e combattere e da servi, piuttosto che per pensare, ribellarsi e lottare per emanciparsi da popolo libero?
Stando così le cose (e sfido chiunque dotato ancora di un briciolo di dignità e libertà di pensiero a confutarle), rebus sic stantibus, solo una rivoluzione.
Quella che ti fa cacciare i padroni, i loro vassalli, valvassini e valvassori, restituendo al popolo e alla sua Patria-Italia la sua dignità, la sua sua Tradizione, la sua giustizia e la sua libertà.
L'unico Socialismo oggi vincente è quello patriottico ed ecologista, quello che crede all'internazionalismo non in forma astratta, ma solo in base a indirizzi concordati e comuni per una comune emancipazione nella diversità degli intenti, delle storie e delle realtà sociali, economiche e politiche. E' quello Sudamericano, non quello europeo, terribilmente asfittico, impotente, e spesso servo di interessi neocoloniali, guerrafondaio ed interventista, come se non più dei governi dichiaratamente neoliberisti, oppure proteso alla tutela degli interessi nazionali di un grande e rinnovato lebensraum (spazio vitale).
La strada verso un Socialismo autenticamente patriottico, libertario (perché basato non su una nomenklatura di potere ma sulla responsabilità, sulla autonomia e sull'autogestione), in Italia è dura, tortuosa e difficile, soprattutto perché appena si prova a parlare di Patria in questo paese, emergono inesorabilmente gli spettri del suo passato fascista, fino a fare spesso dell'antifascismo una sorta di caricatura di se stesso, dimenticando proprio che i partigiani erano patrioti, prima ancora che combattenti “di parte”. Lo erano Mattei, Pertini, Terracini, Spinelli fautori di una Patria-Italia grande, in una Europa altrettanto grande e dei popoli, e non degli speculatori e dei banchieri, lo dovremmo essere ancora tutti noi, riuscendo a fare finalmente quella rivoluzione socialista di cui abbiamo bisogno, al grido di Patria o morte!
Sempre se morti non lo siamo davvero, al grido di.. “solo Renzi può battere Renzi” o già sepolti con una risata grillina.

C.F.