Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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martedì 20 dicembre 2022

I VERI VOTI CHE CONTANO

 



                                                     di Carlo Felici


In Occasione del Natale e del 126° compleanno dell'Avanti, voglio dedicargli queste mie meditazioni cristiane sui voti laici, alla portata di tutti

Il Socialismo non è altro che un Cristianesimo senza Chiesa nè gerarchia, nasce dai principi cristiani e, nonostante alcune deviazioni un po' settarie o mondane durante la sua lunga storia, non sarebbe sopravvissuto senza questa spinta originaria.

Oggi è un po' in crisi, specialmente in Europa, soprattutto perché al suo interno non è stata fatta una profonda riflessione morale e non si è dato abbastanza spazio ai principi evangelici.

E' quindi auspicabile non solo una fruttuosa sinergia tra cattolici e socialisti, ma una prassi sempre più coerente con quei valori originari che sono la comune base della cultura cristiana ed europea

I Voti cristiani sono alla portata di tutti, e non si tratta di quelli elettorali molto effimeri e transeunti, bensì di solidi principi su cui orientare la vita non solo di coloro che sono consacrati come sacerdoti, suore, monaci...ma di ogni buon laico che possa e voglia testimoniare la sua fede, capendo bene cosa significa, specialmente oggi, castità, povertà e obbedienza

Osserviamoli dunque singolarmente, uno per uno.


LA CASTITA'

Quando si parla di castità, nel percorso cristiano, in genere ci si riferisce ad una condizione precisa di astinenza sessuale, riservata a chi sceglie una vita consacrata ma, a ben guardare, questo è più un luogo comune che una precisa prescrizione.

Innanzitutto il sacerdote non fa voto di castità ma di celibato, ci ricorda infatti lo stesso Giovanni Paolo II nella Enciclica “Sacerdotalis caelibatus” che “la verginità non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta dalla prassi della Chiesa primitiva e dalla tradizione delle Chiese orientali, ma lo stesso sacro Concilio non ha dubitato confermare solennemente l'antica, sacra, provvidenziale vigente legge del celibato sacerdotale, esponendo anche i motivi che la giustificano per quanti sanno apprezzare in spirito di fede e con intimo e generoso fervore i doni divini.”

Questo ovviamente comporta anche una opportuna castità che però non coincide necessariamente con l'astinenza.

Celibato e astinenza infatti sono due cose sostanzialmente diverse che possono coincidere, ma non necessariamente devono coincidere perché la castità non è semplicemente astenersi dal sesso.

Esiste infatti per la Chiesa una “castità matrimoniale”, nel senso che il sesso, come il mangiare e il respirare ed ogni altra funzione naturale, è considerato un dono di Dio che ci accompagna in forma diversa dalla nascita alla morte, e quindi, come tale, non va rifiutato ma solo ben amministrato.

Anche lo stesso apostolo Paolo, in I Timoteo 6:17, afferma che l’opposto del materialismo non va individuato in un ascetismo astratto, ma nella speranza riposta“… in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo”.

Quindi sarà bene ricordare che godere, anche sessualmente, non costituisce peccato ma vuol dire corrispondere ad un volere divino che si manifesta in una necessità naturale.

La Chiesa infatti prescrive esplicitamente che il sesso è lecito all'interno del matrimonio. Ma può bastare? Evidentemente no, se consideriamo quante violenze, anche sessuali, quanto sfruttamento e quanta mancanza di rispetto possono verificarsi all'interno di un matrimonio che non è mai, di per se stesso, garanzia né di castità e nemmeno di integrità morale, anzi spesso serve da “copertura” per immoralità di ogni genere persino contro i figli.

Ovviamente non sempre è così, ma la questione è un'altra, ed è il fatto che solo persone caste possono far diventare un matrimonio casto, non, viceversa, un matrimonio, “per definizione sacramentale” casto, può far diventare le persone caste.

Il celibato sacerdotale, tipico solo della chiesa cattolica o latina è in vigore come norma dal Concilio Lateranense IV del 1215 in cui si afferma che “Gesù è presente nell’Eucaristia per transustanziazione, cioè per cambiamento dell’intera sostanza del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue» Per cui il sacerdote che celebra questo sito sacramentale deve essere casto in quanto si identifica con la figura di Gesù presente nell'Eucarestia.

Ma casto cosa vuol dire? La parola anche etimologicamente ha un significato preciso, evoca infatti il latino carere (da cui carente) che vuol dire essere privo e il greco katharos, che a sua volta vuol dire puro ma anche sgombro, libero.

Quindi effettivamente la parola casto può essere associata all'idea di libertà secondo la quale una persona casta lungi dall'essere un soggetto represso è piuttosto un essere umano più libero.

Ma da cosa? Ecco il punto.

Evidentemente chi è casto non è libero dalla pulsione sessuale che di per sé è una cosa buona e godibile, ma lo è piuttosto dal peccato dell'egotismo che può accompagnarla,

Esso nasce soprattutto da tendenze onanistiche che non giungono a maturazione. Non per niente la Chiesa è arrivata a condannare in passato più la masturbazione che la prostituzione, anche se apparentemente è molto più deprecabile la seconda. La prima, generalmente una pulsione del tutto innocente, in genere nasce in età preadolescenziale e accompagna un po' a fasi alterne tutta la vita umana, soprattutto quando non vi è la possibilità di un incontro e di una relazione stabile e matura. Qual è però il suo rischio e pericolo? E' il fatto che l'essere umano si “abitui”, e "snaturi", spinto dalla sua fantasia, un atto che lo spinge a considerare in un rapporto sessuale l'altro/a come “oggetto” di piacere, come “concretizzazione” cioè di una “fantasia soggettiva” e non, come dovrebbe essere, un “soggetto” da incontrare sessualmente e da “sentire” e “seguire” con una sensibilità integrale comunicativa che ne orienta l'atto “in fieri” volta per volta.

Non poche insoddisfazioni sessuali nascono infatti, specialmente in campo femminile, da una mancanza di sensibilità nel saper percepire delle reazioni che orientano il desiderio sessuale e lo portano a compimento in maniera biunivoca, secondo cioè una reciprocità, e non secondo la rincorsa al piacere a senso unico. Anzi, non di rado, il mancato soddisfacimento di una pulsione sostanzialmente onanistica che “si serve” dell'altra/o per espletarsi, porta anche a stupri e a violenze sessuali

Siamo dunque arrivati a capire il significato autentico e originario della castità. Essa non è altro che l'essere privi di quell'egocentrismo onanistico che tende a fare dell'altro non un soggetto libero da incontrare ma un “oggetto” di piacere da soddisfare.

Da questo ovviamente derivano tutte le devianze sessuali, lo sfruttamento, la violenza, la mercificazione, il ricatto, l'esercizio del potere e via dicendo che sono concretamente ciò che impediscono ad un essere umano di essere libero e casto.

E il matrimonio, lo sappiamo bene, è ben lungi dall'essere una garanzia di “castità”, anzi spesso si rivela miseramente solo una “codificazione” di vite che sono l'esatto contrario della castità, per le violenze subite in quell'ambito, per lo sfruttamento anche casalingo che vi avviene, per il permanere in esso, nonostante tradimenti vari, solo per questioni di patrimonio e di interesse. Anzi, in quest'ultimo caso esso si rivela persino la forma più subdola della prostituzione e non solo femminile..

In definitiva, dunque la castità è la forma migliore della libertà sessuale umana, quella in cui “eticamente” la libertà, come dovrebbe essere per ogni ambito, e non solo sessuale, è indissolubile rispetto alla sensibilità e alla responsabilità che si espleta nella vita condivisa da due persone.

Libertà e responsabilità unite indissolubilmente sono la sostanza non solo del senso più autentico della “castità” ma sono anche il viatico di una esistenza più integra e più soddisfacente in tutti i campi dell'agire umano

Per cui un bambino educato ad essere tanto libero quanto responsabile, inevitabilmente sarà un adulto che vivrà “naturalmente” anche la sua castità sessuale senza imposizioni dogmi né catechesi

Sarà un essere capace di riconoscere e “sentire” l'altro/a nelle sue sfumature, nel piacere e nella sofferenza, propiziandone l'incontro con “cura” ed “affetto”, con disponibilità e tenerezza, non in modo effimero oppure occasionale, ma nel permanere di un cammino esistenziale, umano e famigliare da condividere giorno per giorno.

Sarà dunque “naturalmente casto”, pur avendo tutti i rapporti sessuali che riesce ad avere con chi è prediletto dalla sua “sensibilità e cura”.

Come diceva anche Kant, volere quel che è necessario e naturale, significa essere “santi” magari non da calendario, ma lo stesso capaci di vivere e testimoniare la “santità” ogni giorno

E così nessun imperativo categorico potrà essere tanto piacevole.


LA POVERTA'


Per capire bene come una persona consacrata a Dio (e tutti i cristiani, in quanto battezzati dovrebbero esserlo, non solo i sacerdoti, i frati, le suore o i monaci) dovrebbe orientare la propria vita a quella che Francesco d'Assisi chiamava “Madonna Povertà”, partiamo da una profonda differenza tra povertà e miseria. La povertà può coincidere anche con la miseria, ma non necessariamente e non sempre. Infatti un povero non è un miserabile quando capisce che la sua povertà è una condizione impermanente e può anche essere una opportunità per crescere, non solo in ricchezza ma anche in umanità. Il miserabile è invece chi, sia povero che ricco di risorse materiali, resta profondamente avvinto al desiderio o di incrementarle o alla paura di perderle


Diciamo innanzitutto che la povertà è una condizione impermanente perché varia a seconda delle condizioni individuali, sociali e famigliari e per questo ciascun povero deve essere messo in condizioni di poterle mutare, e non solo fatto oggetto di una semplice elemosina che sostanzialmente lascia la sua condizione così come si trova. Anche la saggezza orientale infatti insegna che se regali a un povero un pesce lo lasci miserabile, se invece, anche grazie a te, impara a pescare, fai in modo che la sua povertà non resti miseria non solo materiale, ma anche morale.
Ma tornando al percorso cristiano, possiamo fare riferimento alla parabola dei talenti che tutti possono leggere in Matteo 25 14-30
Matteo ricordiamo che è un esperto di questioni economiche, un esattore, oggi non a caso patrono persino dei banchieri.


Ebbene in questa parabola, l'Evangelista ci narra di Gesù che racconta di un padrone che deve partire per lungo tempo e che affida varie parti del suo patrimonio ad alcuni uomini di fiducia. A uno dà 5 talenti, ad un altro 2 e al terzo 1. Dopo molto tempo (e il “molto” non è casuale) si ripresenta a loro per regolare i conti. Il primo e il secondo hanno raddoppiato il ricevuto, facendo crescere il patrimonio, il terzo per paura del giudizio del padrone, ha solo sepolto la sua moneta e la restituisce unica e sola a lui. A quel punto, il padrone premia i primi due e, rivolgendosi al terzo, dice testualmente: “28 Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30 E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”


Ora evidentemente la parabola non è un elogio delle banche, degli investimenti e delle attività speculative, ma un avvertimento ben preciso, come anche altri esempi che sembrano apparentemente contraddire questa parabola, come quando Gesù si rivolge al giovane ricco a cui egli dice: "Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"
In entrambe i casi in questione è la ricchezza materiale, che però è metafora di quella spirituale, in entrambe i casi in questione però non è il suo possesso ma il suo effetto, la sua potenzialità.


Nel primo caso la possibilità che cresca, nel secondo che diminuisca. In entrambe la sua impermanenza, il non restare uguale a come è. Gesù infatti, come Buddha, insegna in maniera “circostanziata”, esponendo cioè sempre gli stessi principi ma in forma diversa a seconda del suo interlocutore.
E qui in questione non c'è la ricchezza materiale dell'essere umano, quanto piuttosto la sua integrità spirituale e morale.
Nel primo caso si tratta di un servo che pur avendo ricevuto una Grazia, non sa metterla a frutto e si badi, “per paura”, e quando dopo molto tempo (che sta a significare non alla fine dei tempi o dopo che tutti se ne erano dimenticati, ma quando meno te lo aspetti) arriva il padrone a chiedergli cosa ne ha fatto di quel dono, egli resta paralizzato dal suo terrore e ne subisce la pena. Evidentemente questo è un monito per quelli che antepongono il timore di Dio e delle sue regole alla capacità di avere fede nella sua presenza ed operare affinché i doni celesti possano fruttificare.


Attenzione, ciò vale per i doni spirituali ma anche per quelli materiali, possedere e investire denaro per produrre altra ricchezza che produca lecito benessere non è quindi un peccato, ma operare perché la Grazia dia i suoi frutti in abbondanza.
E il secondo caso? Ebbene, questo è il caso del “ricco miserabile” cioè di colui che non sa cogliere l'opportunità che la sua stessa ricchezza gli offre per fare cose buone, come migliorare le condizioni dei poveri, e quindi resta preda della sua tristezza e del suo attaccamento che gli impediscono di seguire Gesù, il quale se non lo avesse riconosciuto come profondamente attaccato ai suoi beni materiali, probabilmente non lo avrebbe nemmeno messo alla prova dicendogli di liberarsene.
Questa è la dimostrazione che un povero (il servo che per paura seppellisce l'unico talento ricevuto) può essere un miserabile, e che può esserlo anche un ricco (perché resta attaccato al suo denaro più di quanto possa seguire Gesù)


Come dice giustamente Frà Marco Moroni, riferendosi a Francesco e a Madonna povertà: “Bisogna distinguere tra povertà come miseria e povertà come liberazione dal possesso dei beni, un senso di assoluta libertà. Un elogio della miseria sarebbe assurdo perché i beni della terra sono importanti, ma spesso non siamo noi a possederli, bensì loro ci possiedono. San Paolo parlava del ‘vivere come se non’ e l’accezione francescana è quella di vivere senza aggrapparsi ai beni. Francesco per primo ha rinunciato a tutto fino a non possedere più nulla e nella pratica francescana si porta avanti la possibilità avere dei beni a livello di comunità, condivisi, con un sano distacco da essi. Francesco non si limita a servire solo i poveri, lui vive con i poveri. Nella Basilica di Assisi c’è la vela giottesca dell’allegoria della Povertà che rappresenta il ‘matrimonio’ di Francesco con ‘Madonna Povertà’. Ai piedi della Povertà c’è un roveto mentre dalle sue spalle cresce un roseto: la povertà scelta per amore di Cristo è un segno di libertà che fa fiorire la vita. Una povertà che non riguarda solo i beni materiali: Francesco parlava spesso di restituzione in quanto tutto ci è venuto da Dio e tutto ciò che facciamo è per sua grazia”.


La vera santa povertà non è dunque miseria o pauperismo ma semplicemente, come abbiamo già rilevato per la castità, una forma di libertà indissolubile rispetto alla responsabilità che non è altro che saper dare una adeguata risposta (responsum) alle sollecitazioni del contesto in cui viviamo, alle varie circostanze e persone che incontriamo nella vita.
E' la libertà dall'attaccamento ai beni materiali ma anche dal bisogno, perché è al contempo necessità di condividerli affinché tornino a vantaggio non di pochi ma del prossimo, nel senso sia famigliare che sociale del termine, non è una forma ideologica di comunismo coatto, perché come abbiamo visto nelle parabole, il padrone non dice cosa devono fare i suoi servi del suo denaro né Gesù costringe il giovane ricco a diventare povero per seguirlo. Alla base della libertà e di ogni forma di giustizia sociale e individuale c'è sempre infatti la responsabilità, la capacità di ciascuno di dare la sua risposta senza che altri lo costringa a farlo, in piena autonomia


Un altro esempio della storia è quello dei Cavalieri Templari, Ordine cavalleresco ma anche di Frati, il cui patrimonio era ricchissimo, ma perennemente investito per produrre altra ricchezza di cui si beneficiò notevolmente non solo la Terra Santa ma anche l'Europa dell'XII e XIII secolo, eppure ciascuno dei frati che solo in Terra Santa erano armati e combattenti, non per conquistare territori ma per difendere i cristiani, non possedeva nulla di più di quanto l'Ordine stesso gli affidava e lasciava ai suoi Fratelli anche quello, quando moriva.
Evidentemente noi non possiamo né dobbiamo tornare al Medioevo, però se vogliamo davvero essere fedeli a questa Tradizione originaria, possiamo anche noi fare voto di povertà, senza doverci per forza liberare di tutti i nostri beni. Ma liberandoci innanzitutto e subito dell'attaccamento ad essi, dell'avversione per chi li minaccia, non per dilapidarli, ma per averne cura a vantaggio non solo della nostra famiglia, ma anche del prossimo che ne ha più bisogno per sollevarsi dal peso di una povertà che rischia di diventare miseria, aiutandolo non solo con una donazione, ma anche con la nostra cura, con il nostro impegno e la nostra presenza oblativa, affinché ritrovi la fiducia in se stesso e sappia aiutarsi anche meglio di come possiamo aiutarlo noi.


La povertà dunque come libertà dal bisogno e dall'attaccamento e come responsabilità nella condivisione e nel miglioramento della condizione individuale e sociale dell'umanità

L'OBBEDIENZA

Concludiamo con il terzo voto del cristiano, come ho già detto non solo consacrato, quindi non solo prete, frate, suora o monaco, ma che sia autenticamente in grado e cosciente di voler vivere cristianamente
Il “volere” è infatti consustanziale al “dovere” e qui spiegheremo perché.
L'essere umano nasce come un animale, obbedendo cioè solo ai suoi istinti, si viene al mondo dunque "animali", creature viventi come altre, e si “diventa” esseri umani, con l'accoglienza in una comunità umana di cui la prima forma è la famiglia, con l'educazione che riceviamo in essa e a scuola, e soprattutto mediante le relazioni che sappiamo instaurare nella comunità umana.


Se infatti Dio ci dà le vita mediante i nostri genitori, il nostro Io non è determinato da altro che dalle nostre relazioni con ogni essere vivente con cui per tutta la nostra vita siamo necessariamente interdipendenti. Nessuno infatti, vivendo, può fare a meno di altri esseri viventi, per nutrirsi, crescere, imparare, lavorare, vivere e persino morire, dato che anche un cadavere ha bisogno di qualcuno che lo seppellisca.
La qualità delle nostre relazioni, durante la vita è quindi lo specchio della qualità del nostro stesso vivere.
Detto ciò l'individuo, il bambino tende a nascere e a crescere mettendo al centro se stesso e obbedendo solo al suo egocentrismo più o meno esaltato o moderato dalla sua famiglia.


Obbedire al padre e alla madre, poi ai suoi insegnanti al datore di lavoro, mano a mano che cresce ed acquisisce autonomia, è quindi più un sacrificio che una soddisfazione, lo diventa solo quando il sacrificio propizia una soddisfazione più grande. Si abitua così al do ut des, al dare in funzione di uno scopo..il regalo di mamma e papà, la promozione a scuola, quella sul posto di lavoro per fare carriera, così come in una qualsiasi associazione, l'agognata pensione..e alla fine un bel posto al cimitero dove essere ricordato.
E' del tutto evidente che questa non è una vera obbedienza ma solo una “ginnastica di obbedienza” che trae senso dall'utilitarismo.
L'Obbedienza cristiana però è un'altra cosa, è riconoscere che Dio esiste come autorità suprema e universale, sebbene non abbia alcun potere che possa essere paragonato a quello umano.


Possiamo chiamare il potere umano “signoria” “padronato” persino “presidenza” perché presuppone uno che sta sopra gli altri, talvolta sopra tutti, così abituati ci rivolgiamo anche a Dio chiamandolo Signore.
Ma Dio non è Signore, e cioè “padrone” delle nostre vite, Dio è Amore, quindi “è” nelle nostre vite e noi non siamo altro che il Suo tempio. Lo dice anche S. Paolo (1Cor 3,16-23) “Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio.”
Quindi più che obbedire al “Signore Dio nostro”, bisogna riconoscere la presenza di Dio in noi, e lasciare che possa orientare la nostra vita
Evidentemente questa è la cosa più difficile, più della povertà e della castità che abbiamo precedentemente illustrato, perché obbedire a una “non obbedienza” che non è altro che una “riconoscenza” nel senso duplice del riconoscere ed essere grati, può apparire assurdo e paradossale e può persino disorientarci
Come facciamo infatti a trovare Dio in noi, se siamo pieni di affanni incertezze, impellenze materiali, ansie, paure, rabbia, rancore e quant'altro acceso dalle nostre passioni?


Come facciamo se persino la Sapienza, quella filosofia che ha cercato di mettere argine al thauma, all'arcano terrore del vivere che si concretizza con la paura della malattia, della morte e del decadimento fisico nella vecchiaia, ci appare insufficiente e spasmodicamente curiamo in ogni dettaglio la nostra apparenza fisica, mediatica, e persino “sapienziale”, con cure estetiche, foto e selfie di ogni genere, e persino scrivendo libri che speriamo ci possano eternare?
Eppure “ la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio”.
Non ci resta dunque che una “sana follia divina”. Lo diceva Platone prima di S. Paolo: “Ci sono due forme di follia: una che nasce da malattia umana, un'altra che deriva da un divino mutamento delle abitudini consuete”. Così scriveva Platone nel Fedro, distinguendo anche le varie forme di questa follia, “dono divino”, “da cui giungono all'uomo i più grandi doni” un dono divino che nel suo caso proviene da Apollo per quanto riguarda la divinazione e da Dioniso per l'iniziazione mistica, dalle Muse per l'ispirazione artistica e da Afrodite per l'Amore
Ma per il cristiano tutti i doni provengono da Dio, che è Amore nella Sua suprema potenza gloria, beatitudine e bontà.


In poche parole il Cristiano “obbedisce” a Dio, quando lascia che Dio viva in lui, persino “follemente” come dimostrò Francesco d'Assisi, ma cosa è che distingue la follia divina da quella patologica? Che la prima genera gioia in noi stessi e nel nostro prossimo, mentre l'altra, al contrario, genera sofferenza talvolta persino autodistruttiva
Tutti i grandi profeti erano “folli di Dio”, da Abramo che intraprese un viaggio senza conoscere bene la meta, a Mosè che portò il suo popolo in una terra solo “promessa” che lui riuscì a mala pena a vedere, fino a Gesù che predicava in contrasto con la Chiesa del suo tempo in nome di una Comunità di condivisione fondata sull'unica regola dell'Amore verso Dio e di quello verso il Prossimo
Possiamo essere come loro ed obbedire soprattutto a questa “mania divina” che anima le nostre vite? Direi che è un po' difficile anche se arriva sempre nella storia qualcuno che se ne frega di tutto il resto e almeno ci prova...e magari come Francesco ci riesce pure, anche se poi arrivano altri a spiegare che ci vuole una regola che amarsi e amare Dio non basta anzi, è rischiosissimo, che quindi bisogna obbedire ad uno Statuto ad una Tradizione ad una Regola...a loro che ne sono gli interpreti indiscutibili


Ma quanti hanno perso Dio e lo stanno ancora perdendo obbedendo a regole religiose militarizzate, per cui Dio lo vuole!? Anche se straziano la carne e distruggono i beni e i sacrifici del loro  prossimo!
La bestia umana, peggiore degli animali, crede, obbedisce e combatte! Ma perde Dio!
Allora va bene ascoltare i maestri, i sapienti, i sacerdoti, meditare le Sacre scritture, obbedire ai loro principi, ma solo se vive in noi quella sacra scintilla della follia divina che ci porta soprattutto a riconoscere Dio, più che a credere in Dio e a chi pretende di parlare in Suo nome
Sembra una cosa impossibile obbedire a Dio e per una persona abituata o assuefatta a una “ginnastica di obbedienza” e in effetti è quasi impossibile
Eppure è la cosa più facile del mondo, basta fermarsi, sedersi magari a gambe incrociate o su una sedia se non ci si riesce, e respirare. Noi infatti “respiriamo Dio”, perché lo stesso spirito che, non a caso in ebraico si dice Ruah, si manifesta nell'aria, nel vento perché "Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è dallo Spirito" (Giovanni 3,8)


La differenza fondamentale tra il percorso cristiano e quello gnostico, iniziatico e sapienziale, è proprio che noi non dobbiamo perfezionarci, in un cammino paragonabile alla scalata di una montagna, attraverso le sue balze e i suoi gradi e pagando un prezzo ad ogni gradino che saliamo. Noi non dobbiamo arrivare a Dio in un percorso estenuante di sacrifici e mortificazioni ascetiche.
Noi semplicemente dobbiamo lasciare entrare Dio in noi, nel cammino eucaristico, ma anche respirandoLo in ogni attimo, momento e giorno della nostra vita
Respirare Dio, sgombrando la mente nella preghiera e nella meditazione da ogni pensiero che ci distrae e ruota solo intorno a noi stessi, e lasciarla vuota, in un processo che gli antichi chiamavano kénosis che vuol dire proprio “svuotamento”, vuol dire propiziare la Sua presenza in noi, vuol dire fare ciò che fece Gesù Nella sua Lettera ai Filippesi infatti S. Paolo scrisse: « Cristo svuotò se stesso (ἐκένωσε, ekénōse)» (Flp 2, 7), facendo uso del verbo κενόω, kenóō, che, appunto, significa "svuotare" “ E per fare che cosa? Ce lo dice lo stesso S. Paolo con il seguito: “avendo preso natura di servo, diventando simile agli uomini e apparso in forma umana, si umiliò facendosi obbediente sino alla morte”


Eccolo il senso autentico dell'obbedienza cristiana, svuotarsi dei concetti, delle sovrastrutture persino delle dottrine umane, lasciare che Dio viva in noi per diventare suoi servi e vivere in obbedienza alla sua presenza.
E la presenza di Dio è sempre quella che ci rende gioiosi, amorevoli, sorridenti, e aperti alla prossimìa, alla presenza del prossimo, ci fa cantare, suonare, scrivere, danzare, e ci libera innanzitutto dalla depressione e dalla tristezza
Obbedire a chi ci rende triste, inconsapevole della presenza altrui, e ci dice quel che si deve fare perché pretende di parlare in nome di Dio e magari pretende pure di assolverci in nome di Dio, e non ci consola, non condivide nulla di noi, anzi, ci rimprovera, se non addirittura ci mortifica, forse nemmeno ci sta veramente ad ascoltare, vuol dire solo allontanare Dio da noi
Giustamente Don Milani diceva che “l'obbedienza non è più una virtù” specialmente quando obbedire significa mandare a morire poveri innocenti in nome dell'idolatria di una Patria o di un Dio degli Eserciti cancellato da Gesù con il suo Amore crocefisso e risorto.


Abbiamo detto all'inizio che “volere” è consustanziale al “dovere” ed è così quando “obbedendo” all'Amore lo si vivifica, e il suo giogo è lieve, lo dice lo stesso Gesù Mt 11,28-30 “In quel tempo, Gesù disse: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». “


La vera obbedienza cristiana è dunque gioiosa e lieve, è l'Amore, incondizionato, svuotato da ogni finalismo e personalismo, equanime, puro perché libero e responsabile come negli altri due voti che abbiamo osservato, anche nelle condizioni più disperate e senza limiti, fino in fondo, fino alla fine e dall'inizio della vita. Non bisogna lasciarsi distrarre da altro, perché la distrazione è la madre di tutti i peccati


Amor, etiam spes contra spem et usque ad finem

Carlo Felici