Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

venerdì 28 settembre 2012

Quale tipo di chiesa può salvarsi?

Leonardo Boff
Teologo/Filosofo

Il fulcro della predicazione di Gesù non era la Chiesa, ma il Regno di Dio, un’utopia di totale rivoluzione/riconciliazione di tutta la creazione. Tant’è vero che gli Evangeli, a eccezione di Matteo, non parlano mai di Chiesa, ma sempre di Regno.
Con il rifiuto del messaggio e della persona di Gesù, il Regno non si concretizza e al suo posto sorge la chiesa come comunità di coloro che testimoniano la Resurrezione di Gesù e custodiscono la sua eredità tentando di viverla nella Storia.
Fin dall’inizio i cristiani affrontano un dilemma: il grosso dei fedeli sceglie il Cristianesimo come cammino spirituale in dialogo con la cultura- ambiente; l’altro gruppo, ben minore, accetta di assumere, sotto controllo dell’Imperatore, la conduzione morale dell'Impero romano in franca decadenza.
Vengono copiate le strutture giuridico-politiche imperiali come paradigma per la comunità di fede. Questo gruppo, la gerarchia, si struttura intorno alla categoria “potere sacro” (sacra potestas). È un cammino ad altissimo rischio, perché se c’è una cosa che Cristo ha sempre rifiutato, questa è il potere. Per lui il potere, nelle sue tre espressioni, come si vede nelle tentazioni nel deserto –profezia, religione, politica– quando non è servizio, ma dominazione, appartiene alla sfera del diabolico.
Ma è stato il sentiero seguito dalla chiesa-istituzione gerarchica, sotto forma di monarchia assolutistica, che ha rifiutato la partecipazione a questo potere ai laici, la stragrande maggioranza dei fedeli. Questa situazione perdura fino al giorno d’oggi, in un contesto di una gravissima crisi di fiducia. Succede che quando predomina il potere, l’amore viene messo in fuga.
Effettivamente lo stile di organizzazione della Chiesa è burocratico, formale e non raramente inflessibile. In essa tutto si esige, nulla si scorda, mai si perdona. Praticamente non c’è spazio per la misericordia e per una vera comprensione dei divorziati e degli omosessuali.
Imposizione del celibato ai preti, un radicato antifemminismo, il sospetto su tutto quello che ha a che fare con sessualità e piacere, il culto della personalità del papa e la sua pretesa di rappresentare l’unica vera chiesa, “unica custode dell’eterna, universale e immutabile legge naturale”. Non solo: nelle parole di Benedetto XVI “assume una funzione direttiva su tutta l’umanità. L’allora card. Ratzinger, ancora nel 2000 ha ripetuto nel documento ‘Dominus Iesus’ la dottrina medievale che “Fuori della chiesa non c’è salvezza”e quelli fuori corrono “un grosso rischio di perdizione”. Per questo tipo di chiesa non c’è sicuramente salvezza. Lentamente perde sostenitori in tutto il mondo.
Quale sarebbe la chiesa degna di salvezza? È quella che umilmente torna alla figura del Gesù storico, semplice operaio e profeta, Figlio incarnato, imbevuto di una missione divina di annunciare che Dio è qui presente con la grazia e misericordia per tutti; una chiesa che riconosce le altre chiese come espressioni differenti dell’eredità sacra lasciata da Gesù; che si apre al dialogo con tutte le altre religioni e sentieri spirituali vedendo in essi l’azione dello Spirito che arriva sempre prima del missionario; che è disposta a imparare tutta la sapienza accumulata dall’umanità, che rinuncia a qualsiasi potere e spettacolarizzazione della fede, affinché non sia pura facciata di una vitalità inesistente, che si presenta come avvocato difensore degli oppressi di qualsiasi tipo, disposta a soffrire persecuzioni e martirii a somiglianza del suo fondatore; in cui il Papa avesse il coraggio di rinunciare alla pretesa di potere giuridico su tutti e fosse segnale di riferimento e di unità della Proposta Cristiana con la missione pastorale di confermare tutti nella fede, nella speranza e nell’amore.
Questa Chiesa è alla nostra portata. Purché imbevuti dello spirito del Nazareno. Allora sarebbe veramente la chiesa delle donne, degli uomini, di Gesù, di Dio, la prova che l’utopia di Gesù, del Regno, è vera. Essa sarebbe uno spazio di realizzazione del Regno dei liberi a cui tutti sono chiamati.
LB è autore di Cristianesimo: il minimo del minimo, Vozes 2012.
Tradotto da Romano Baraglia

lunedì 24 settembre 2012

Il Presidente proletario



La sua vittoria in Uruguay, nel marzo 2010, fu un evento storico. La capitale Montevideo esplose. Persone di tutte le età e classi sociali scesero in strada per festeggiare il nuovo presidente: l'ex guerrigliero di sinistra José Mujica che, dal Movimento de participación popular (Mpp) contro la dittatura, era arrivato alla guida del Paese.
Ora Mujica, 78 anni, fa notizia per un altro motivo: vive con 800 euro al mese, rappresentando il miglior modello di austerity su scala internazionale.
Pepe, come vuole essere chiamato il presidente, abita in una fattoria a Rincón del Cerro, alla periferia della capitale. Una cascina che non gli appartiene perché è della moglie, la senatrice Lucía Topolansky.
SENZA CONTO IN BANCA. Per il fisco, l’unico patrimonio di Mujica è una vecchia Volkswagen Fusca color celeste. Il presidente uruguaiano non sa cosa sia una carta di credito, né un conto in banca. E la sua unica scorta è il cagnolino Manuela.
Lontano dagli stili di vita opulenti dei suoi colleghi oltrefrontiera, ogni mese Mujica trattiene per sé solo 20 mila pesos, circa 800 euro, dei 250 mila (quasi 10 mila euro) che riceve come stipendio.
STIPENDIO DA FAME. Il resto - quasi il 90% del salario - viene distribuito al Fondo Raúl Sendic, che si occupa dei settori più poveri della popolazione, al Mpp che aiuta cooperative sociali, e a varie organizzazioni non governative (ong), che lavorano per costruire abitazioni nel Paese.
A chi gli ha chiesto spiegazioni per questo stipendio «da fame», il presidente ha detto: «I soldi mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno».

 

Da venditore di fiori a presidente dell'Urugay

Mujica, ex venditore di fiori, negli Anni '60 ha fatto parte del Movimento di liberazione nazionale dei Tupamaros: l’organizzazione radicale ispirata al marxismo, che si rifaceva alla Rivoluzione cubana.
Sotto la dittatura di Jorge Pacheco Areco, il movimento si è poi trasformato in un’organizzazione di guerriglia urbana. Ferito sei volte in scontri armati, è stato arrestato quattro volte, è evaso altre due e ha trascorso in carcere circa 15 anni. Fino alla sua liberazione, nel 1985, con l’amnistia generale.
LA SVOLTA POLITICA. Da allora, prima di diventare presidente, Mujica ha trascorso il tempo nella sua fattoria a Rincón del Cerro, impegnandosi nella fondazione del Mpp, del quale - dal 1999 - è stato prima deputato, poi senatore.
Parte del gruppo di centro-sinistra Frente Amplio, l'Mpp è stato decisivo per l’elezione alla presidenza del Paese, nel 2005, del socialista Tabaré Vázquez. Del suo governo, tra il 2005 e il 2008, Mujica è stato ministro per l’Allevamento, l’agricoltura e la pesca.

Il 'cubano' Mujica conquista Stati Uniti ed Europa

I suoi aficionados lo ricordano ancora giovane, dopo la caduta della dittatura militare, a cavallo della sua Vespa che lo portava in parlamento. Ma neanche da presidente il suo stile di vita è cambiato.
Chioma grigia spesso scompigliata, mai la cravatta, l’aria di uno che si trova lì per caso, soprattutto quando è vicino ad altri capi di Stato, da quando è stato eletto ha subito proposto di donare la sua pensione presidenziale al Paese, accettando come auto blu una semplice Chevrolet Corsa.
NIENTE SPRECHI, NÉ PROTOCOLLI. Niente sprechi, niente protocolli, Pepe si ferma sempre a parlare con i cittadini, saluta il macellaio del quartiere, abbraccia i ragazzi della piccola squadra di calcio Huracán, si mette in posa per qualche scatto.
Un modo di governare che attira simpatie ovunque. Nonostante sia un ex combattente vecchio stampo, di fede cubana, Mujica gode di buona reputazione anche negli Stati Uniti.
E anche in Europa ha conquistato supporter, nonostante, dopo l’elezione, la sua unica visita sia stata in Spagna.
Si trattava di un viaggio privato per incontrare uomini d’affari e potenziali investitori.
Ora Mujica vuole attrarre nuovi capitali stranieri, soprattutto nel settore minerario, promuovere il commercio e lo sviluppo economico nel suo Paese.

Articolo ripreso da  http://www.lettera43.it/attualita/uruguay-presidente-povero_4367552425.htm

venerdì 21 settembre 2012

La servitù nel mondo antico e in quello moderno


Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza
esserlo.” Johann Wolfgang Göethe.
La Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo approvata
dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, all'articolo 1 così recita:
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignita e diritti. Essi
sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli
altri in spirito di fratellanza.”
Constatiamo che, nel corso della storia e tuttora, in molte parti del
mondo, così non è stato e così non è.
In questa sede cercheremo di capire, con un breve excursus
interdisciplinare, il perché di ciò e come invece sia urgente che tale
principio sia applicato globalmente, anche per evitare all'umanità il
rischio di estinguersi in maniera definitiva.
La servitù del mondo greco-romano.
Potrà sembrare paradossale questa affermazione ma lo schiavo
nell'antichità non esisteva, vi era piuttosto il servo, e, anche se tale
differenza può apparire minima, cercheremo di spiegare come invece
essa sia connessa ad una svolta precisa che ebbe inizio con l'età
moderna e che portò ad associare alla discriminazione economica e
sociale, anche quella etnica, razziale ed infine ideologica.
I greci chiamavano quello che noi intendiamo oggi come “schiavo”,
doylos”, una parola che, secondo un autorevole filologo come
Semerano, deriva dal miceneo doero, che Omero usa solo al femminile
per indicare la schiavitù, e che, a sua volta, deriva dall'aramaico dajjalla
e dall'accadico dullu che vuol dire servire con abilità nel lavoro. Anche il
sumero dalalu rimanda rispettivamente al significato di lavoro, pena e al
contempo anche di servizio.
La parola latina che entrò in uso in maniera corrispondente per indicare
lo “schiavo romano” era invece “servus”, che però già assume una
connotazione diversa. Essa infatti etimologicamente deriva dall'umbro
aseriatu” (osservato) e dall'accadico sehru o seheru (piccolo, modesto,
giovane di servizio).
Tra l'uno e l'altro termine vi è una sostanziale differenza semantica che
rimanda alla stessa funzione dell'essere umano che è destinato a subire i
comandi del suo padrone, nel primo caso, con il significante greco,
infatti, si tende ad identificare il servo come colui che svolge un lavoro e
deve per questo dimostrare anche una certa perizia tecnica per poterlo
svolgere bene, dice infatti Aristotele: “Dello schiavo, che è uno
strumento vivente, bisogna aver cura nella misura in cui è buono al
lavoro”.
Nel secondo caso, quello romano, lo schiavo, piuttosto, è colui che vive
in uno stato perenne di “minorità”, di dipendenza ed è continuamente
sorvegliato” e ovviamente punito se sbaglia.
Nonostante ciò, esso, come un “puer” è sovente “allevato” in ambito
famigliare finché non gli si riconosce anche la possibilità di emanciparsi,
diventando per questo un “liberto”. Così infatti scrive Petronio, scrittore
di età neroniana: “Amici, badate che anche i servi sono uomini e hanno
bevuto lo stesso latte, come noi, e non vuol dire nulla se poi mala sorte
li colse.”
Prima di osservare come e quando il “doylos-servus” diventa anche
schiavo”, cerchiamo di focalizzare, a grandi linee, cosa significava la
servitù” nel mondo antico.
Si diventava “servus” in genere per due motivi: o perché si era prigionieri
di guerra oppure perché si era oberati di debiti.
Già questo, osservando il destino di interi popoli a cui viene imposto
tuttora, per motivi economici di debito esorbitante o per “esportazione”
di modelli politici a loro estranei, un sistema politico, economico, sociale
e in certi casi anche militare che prescinde del tutto dalla sovranità
popolare, ci deve far seriamente pensare che tale destino non è affatto
scomparso, ma, nel mutare delle circostanze storiche, tende a riprodursi
con modalità diverse e su ampia scala.
Lo schiavo nel mondo antico è una cosa, una res vivente, uno "strumento
o animale parlante". Lo è fin dal IV millennio a. C., a partire dalle civiltà
egizia e sumera.
Come abbiamo già messo in evidenza, i prigionieri di guerra, caduti in
proprietà dello Stato, venivano venduti al miglior offerente, chi non
poteva pagare i propri debiti diveniva proprietà del suo creditore, dopo il
relativo periodo di prigionia, oppure veniva venduto sui vari mercati.
Però vi erano anche altri numerosi casi, specialmente in epoca romana,
in cui si ci si poteva ridurre in schiavitù. Lo si poteva infatti diventare
anche a seguito di un naufragio, o a causa di una pena che comportasse
la perdita della libertà personale (come l'assassinio o l'essere disertori o
avere evaso le tasse), a meno che non si accettasse l'esilio. La gente
povera, in ogni caso, spesso finiva schiava anche per reati minimi, se non
poteva pagare una pena in denaro.
Vi erano inoltre persone rapite dai pirati o dai briganti per essere poi
vendute, oppure bambini abbandonati (perché non riconosciuti dal
padre) o venduti dalle famiglie povere.
Non erano rari infine i casi di esiliati politici che emigravano a Roma per
porsi in servitù, o quelli di alcune tribù nordiche che facevano la stessa
cosa, spinte dalla fame o dalla carestia.
L'esistenza della schiavitù poteva essere associata nel mondo antico a
pratiche e a culti religiosi.
In Egitto, in particolare, al posto del diritto che si affermò ampiamente
nel mondo romano, vi fu uno sviluppo eccezionale della religione, e solo
quando si cercò di realizzare il passaggio allo schiavismo esplicito si
operò un tentativo di riforma, poi abbandonato, in direzione del
monoteismo assoluto. Tale intento fu poi portato avanti da Mosè e da
altri sacerdoti egizi insieme al popolo ebraico, che era insofferente
all'acuirsi dello schiavismo. Il fallimento di questa riforma contribuirà
decisamente al crollo della civiltà egizia.
In Grecia osserviamo che accanto alla parola δολος di uso più comune
per indicare la condizione del servo, ve ne sono varie altre come
νδράποδον che indica l'essere a due gambe per distinguerlo da quello a
quattro, ma sempre destinato a svolgere la medesima funzione, vi è l'
οκέτης il domestico, che svolge funzioni casalinghe, il θεράπων che è lo
scudiero dei tempi omerici, l' κόλουθος e cioè l'accompagnatore, che
fa parte del seguito di un signore, con funzioni ancillari, il πας
letteralmente il fanciullo, spesso garzone e destinato a commissioni
varie, e infine la stessa parola σμα che indica il corpo , specialmente in
epoca tarda e con l'influsso della filosofia neoplatonica, diverrà sinonimo
di schiavitù, quella da cui l'anima destinata a mete iperuraniche deve,
con un complesso percorso di espiazione, tendere a liberarsi.
Nel mondo preomerico vi era persino lo “schiavo di Dio” colui che, in
genere reso prigioniero in seguito ad azioni piratesche, diveniva servo di
Poseidone che, per questo, si riteneva ne avesse propiziato la cattura.
Nella civiltà micenea il confine tra servo e cittadino libero in armi non
era così netto come in altri ambiti, perché generalmente coloro che
vivevano lontani dal “palazzo signorile” erano accomunati dalla
medesima sorte, sia che lavorassero i campi sia che fossero dediti
all'artigianato. La principale divisione era dunque tra dipendenti del
palazzo con funzioni servili e per questo destinati ad alimentarne le
risorse, e liberi in armi, i componenti cioè dell'aristocrazia guerriera.
In epoca omerica lo schiavo viene denominato δμώς ed è in genere
destinato ad un ruolo di domestico nella casa del signore che lo ha reso
prigioniero e lo considera perciò un vero e proprio bottino di guerra.
Tale è il ruolo di molte donne destinate anche a svolgere il compito di
concubine. Famosa la figura del porcaro Eumeo, che ha rango superiore
allo stesso mendicante e che conserva per questo anche la fiducia del suo
signore verso il quale mantiene una fedeltà assoluta.
Varie testimonianze provenienti dalla letteratura greca, anche arcaica, ci
parlano della schiavitù nel mondo greco.
Esiodo ne “Le Opere e i Giorni” ci parla di diversi dmoes ma non ne
chiarisce molto il ruolo né la funzione, anche i poeti lirici come Archiloco
o Teognide di Megara menzionano vari douloi, ma notizie più precise ci
giungono solo con Plutarco, a partire da La vita di Solone in cui l'autore
ricorda che il legislatore ateniese proibì ai servi di praticare la ginnastica
e la pederastia.
Dato che da quell'epoca i riferimenti alla servitù diventano sempre più
frequenti, possiamo affermare con una certa attendibilità, che proprio a
partire dalla introduzione della democrazia, il ruolo servile si fece in
Atene più nettamente evidente e concretamente ufficializzato.
A Sparta la servitù degli iloti aveva connotazioni più etniche e razziali,
collegata come era ad una stratificazione sociale nettamente definita dal
ruolo prevalente e dominante dei cittadini in armi: gli spartiati, per i
quali gli iloti, che erano discendenti di popolazioni autoctone soggiogate
con la forza, erano poco più che “animali da allenamento”. Ma anche in
queste tragiche condizioni, il servo-ilota conservava il diritto alla
ribellione che, pur essendo duramente repressa, ogni tanto esplodeva,
contrariamente a ciò che accadeva al servo ateniese che era
perennemente soggiogato, anche per quel che nel merito ci dice
Aristotele, il quale teorizza che il servo sia del tutto privo di stirpe e di
comunità e in possesso solo di un corpo atomizzato.
Interessanti, a questo proposito, sono le considerazioni di Luciano
Canfora: “In Atene i liberi hanno ridotto a non-persone i non liberi, e
dopo Solone che ha recuperato alla liberta ceti immiseriti che
andavano scivolando nella schiavitu per debiti si e aperto un baratro,
rimasto incolmabile, tra liberta e schiavitu. Come s'e detto, in Atene il
rapporto liberi/schiavi e di uno a quattro: almeno tale appare in vari
momenti del V e del IV secolo. La grande massa delle non-persone e
indispensabile al funzionamento del sistema, che infatti finche ha
potuto si e alimentato con guerre di rapina e col dominio imperiale. Gli
schiavi sono la base dell'economia domestica e dell'economia pubblica.
Anche il piu povero, il piu miserabile individuo ha almeno uno schiavo:
lo ha ad esempio il poverissimo Eschine ≪socratico≫, scolaro diretto di
Socrate, ridotto secondo il ritratto che ne fa Lisia a corteggiare la
padrona ultra settantenne di una farmacia nella speranza di
ereditarne la bottega. Nell'economia pubblica - in particolare nelle
miniere - gli schiavi sono governati e controllati da campieri anch'essi
di condizione servile; nell'economia domestica questo ruolo di
sorveglianti degli schiavi tocca al le donne, anch'esse non-persone,
soggetti irrilevanti e inesistenti nella societa politica ateniese. A Sparta
la stratificazione sociale ha coinciso con la stratificazione castale ed
etnica tra Dori dominanti e popolazioni sottomesse, ridotte dai
guerrieri-dominatori a differenti gradi e modi di dipendenza. Ma gli
Spartani ≪purosangue≫, o Spartiati, cosi come gli Ateniesi
purosangue≫, erano ≪liberi e uguali≫. Se erano portati a tenere a
bada col terrore i dominati, cio e dovuto essenzialmente alla
preoccupante sproporzione numerica a loro sfavore. La gran parte
degli schiavi di Atene marcivano nelle miniere incatenati in luoghi
pestiferi, come precisa Plutarco a proposito degli schiavi di Nicia (Vita
di Crasso, 34,1). Ed e difficile negare che tale condizione fosse di gran
lunga peggiore di quel la degli iloti, ai quali era pur sempre garantita
la fruizione di una parte dei frutti del loro lavoro.”
Aristotele svolge considerazioni che in parte divergono da quelle di
Platone che asserisce che “Ogni re deriva da una stirpe di schiavi ed
ogni schiavo ha dei re tra i suoi antenati.”
Platone parte dalla considerazione della schiavitù di ciò che esiste di
spirituale nell'uomo nei confronti della sua natura bestiale e arriva a
giustificare la schiavitù sul piano sociale ed etnico. Così come infatti è
necessario e giusto sottomettere la parte bestiale a quella divina che è in
ogni essere umano, allo stesso tempo, è giusto che colui che non riesce a
comandare a ciò che ha di bestiale in sé si sottometta a colui in cui
piuttosto prevale e domina la parte divina. Segno per Platone del
mancato assoggettamento interiore dell'animale all'uomo è il lavoro
manuale.
Non è dunque un danno per Platone se il servo viene soggiogato da suo
padrone, perché, in tal modo, si riflette, dall'interno all'esterno, un
ordine delle cose che è divino e che ha una finalità precisa: “Affinché fin
che è possibile, tutti in uguaglianza ed amicizia siamo governati dallo
stesso reggitore”, un concetto di “uguaglianza ed amicizia” questo che
evidentemente è vincolato anche alla sorte che a ciascuno capita in virtù
della metensomatosi (trasmigrazione delle anime in vari corpi) in cui
Platone crede fermamente e con cui si spiega la nostra citazione iniziale.
Teopompo, storico greco vissuto ai tempi di Filippo secondo di
Macedonia ci parla per la prima volta del commercio di schiavi praticato
a Chio. Non di rado capitava che i greci cadessero prigionieri degli
etruschi.
Nella civiltà etrusca i servi erano denominati lautni, ed erano spesso
importati come merce da paesi lontani o catturati durante le numerose
battaglie per il predominio sul commercio tirrenico: le notizie su di loro
ci sono pervenute soprattutto tramite i loro luoghi di sepoltura dove
vennero cremati e posti in recipienti di terracotta, o tumulati in piccole
nicchie scavate nelle strutture sepolcrali dei padroni.
Un illustre studioso della civiltà greca come Moses Finley precisa che
"uno degli aspetti della storia greca è, in breve, il progredire, mano nella
mano, di libertà e schiavitù".
In Grecia, in ogni caso, prevaleva di gran lunga la condizione sociale sul
tipo di mansioni svolte ed evidentemente un forte tratto distintivo tra
cittadini e servi era la possibilità di esercitare i diritti politici, dai quali,
comunque, restavano esclusi anche gli stranieri e le donne.
L'attività che di gran lunga richiedeva l'uso di manodopera servile era
l'agricoltura, anche se il suo utilizzo non era così esteso come accadrà poi
nei latifondi romani. L'Economico di Senofonte ci dà varie notizie nel
merito. Poteva anche capitare che il servo fosse dato in affitto, e in ogni
caso, esso veniva utilizzato specialmente quando le braccia dell'ambito
famigliare erano insufficienti per svolgere tutte le mansioni lavorative.
Anche un amministratore di terre da coltivare poteva appartenere al
rango servile.
Ricchi privati potevano arrivare ad affittare un grande numero di
schiavi da utilizzare nelle grandi miniere come quelle d'argento del
Laurion in Attica, in quel luogo di pena e di fatica lo stratego Nicia arrivò
ad affittarne circa un migliaio e questo era uno degli investimenti a cui si
dava maggior valore.
Anche l'artigianato faceva largo uso di manodopera servile, abbiamo
notizie in merito alla fabbrica di scudi di Lisia che impiegava 120 schiavi,
e sul padre di Demostene che utilizzava 32 coltellinai e 20 fabbricanti di
letti.
Infine quasi tutti coloro che non erano ridotti in una condizione di
povertà più accentuata, facevano uso di servi in ambito domestico,
sostituendo il padrone nei suoi vari mestieri oppure accompagnandolo
in viaggio.
Nel mondo greco inizia anche una riflessione sulla condizione dello
schiavo da ritenere un essere umano dotato delle stesse capacità e
possibilità rispetto a tutti gli altri. Plutarco ne “La Vita di Catone” così si
esprime nel merito:
Senonche il cacciar via e vendere gli schiavi a causa della loro
vecchiaia, dopo averli sfruttati come bestie da soma, io ritengo segno
di un animo meschino, di un uomo che non crede all'esistenza di altri
rapporti fra uomo e uomo al di fuori dell'utilita. [2] Eppure sappiamo
che la bonta occupa un campo piu vasto di quello della giustizia,
giacche noi siamo portati per natura a usare la legge e la giustizia
soltanto nei rapporti con gli uomini, mentre si da il caso che siamo
portati alla beneficenza e alla carita nei confronti degli animali, che
sono privi della ragione: e come un'acqua che sgorga dalla copiosa
fonte della bonta. All'uomo dall'animo gentile si addice dar nutrimento
ai cavalli fiaccati dall'eta e ai cani, non solo quando sono cuccioli, ma
anche quando in vecchiaia hanno bisogno di essere nutriti. [3] Allorche
il popolo ateniese costruiva l'Hecatompedon [il Partenone] mandava
libere e indipendenti al pascolo tutte quelle mule che vedeva
maggiormente impegnate nei lavori. Si racconta che una di esse di sua
iniziativa tornasse giu ai lavori e si mettesse a correre accanto ai
giumenti che tiravano su verso l'Acropoli i carri e li precedesse
guidandoli, come per esortarli e incitarli: gli Ateniesi decretarono che
la bestia fosse mantenuta a spese dello Stato per tutta la vita. [4]
Accanto al sepolcro di Cimone ci sono anche le tombe delle cavalle con
cui egli visse vinse tre volte a Olimpia. E molti altri hanno dato
sepoltura a cani allevati a casa loro e divenuti loro compagni. Tra
questi Santippo il Vecchio tributo onori funebri al cane che nuoto a
fianco della sua trireme fino a Salamina (quando gli Ateniesi
abbandonarono la loro citta) sull'altura che ancora oggi chiamano
"Tomba del Cane". [5] Non bisogna dunque far uso di esseri che
hanno un'anima come se fossero delle scarpe o dei recipienti
che una volta rotti o consumati per l'uso gettiamo via, ma
bisogna che ognuno abitui se stesso, se non altro per
l'esercizio di umanità, ad essere gentile e dolce nei loro
confronti. [6] Io neppure un bue lavoratore venderei quando fosse
divenuto vecchio; tanto meno un uomo vecchio, facendogli mutare la
terra in cui e cresciuto e la sua vita abituale col darlo in esilio per pochi
spiccioli, un uomo che sara inutile per chi lo compra, come lo e per chi
lo vende? [7] Catone, invece, come facendosi bello di queste cose,
racconta che per non mettere in conto allo Stato il prezzo del suo
trasporto, lascio in Spagna anche il cavallo di cui si era servito durante
le campagne militari quando era console. Se questo modo di
comportarsi sia da considerare segno di grandezza d'animo oppure di
grettezza e questione su cui e possibile usare argomenti in senso
opposto” ( PLUTARCO, Vita di Catone 5, in Vite parallele a cura (e
traduzione) di Antonio Traglia. Edizioni UTET 2005).
A misurare però la distanza tra il dire e il fare, non infrequente quando si
tratta di filosofia, abbiamo una curiosa testimonianza di Gellio che ci
racconta un episodio riguardante lo stesso Plutarco: “Poiche un suo
servo aveva commesso una volta un’azione molto grave, Plutarco
ordino di togliergli la tunica e di sferzarlo. Mentre il servo veniva
fustigato, emetteva lamenti e versava lacrime; infine ricorse a parole
di rimprovero e, rivolto al padrone, disse: “Sappi che e cosa
vergognosa che un filosofo si arrabbi: tu infatti, mentre io ero presente
e ascoltavo, spessissimo discutesti sui mali dell’ira. Non ti vergogni
dunque tu, che vuoi essere chiamato filosofo, di punirmi con moltissime
percosse, cedendo all’ira?”. Allora Plutarco con calma e tranquillita
rispose: “Ti sembro forse arrabbiato io? Pensi forse che io sia stato
travolto dall’ira? Non ho, come vedi, gli occhi torvi, ne faccio gesti
inconsulti, ne dico qualcosa di cui debba pentirmi o vergognarmi. Tutte
queste cose, se non lo sai, sono solitamente3 segni di ira”. E, rivolto il
discorso a colui che frustava il servo, disse: “Mentre io e costui
discutiamo sull’ira, porta a termine quello che ti ho ordinato”. (Aulo
Gellio, Noctes Atticae 1.26)
Ecco, questo ci fa ben capire come, in un' epoca in cui sicuramente il
dibattito sulla schiavitù, almeno fino all'Ellenismo, divenne sempre più
fervido e ricco di implicazioni, specialmente, come vedremo, nella
filosofia stoica, ci si guardò bene dallo smettere una pratica che era
fondamentale e di vitale importanza per il mantenimento di un intero
assetto, sociale, politico e soprattutto economico.
La presenza stessa di una ingente massa di schiavi a disposizione per i
più svariati lavori, influenzò la stesso sviluppo della scienza greca. Se
infatti in alcuni casi, come in quello di Archimede alla prese con gli
assedianti Romani, l’interesse per un’immediata applicazione pratica
della teoria è palese, rimane pur vero che l’amore della conoscenza
(philo-sophia), in quanto tale, come “invenzione” tipicamente greca, può
tranquillamente venire concepito come amore della conoscenza in se
stessa, senza con ciò escludere affatto che questo possa avere come
conseguenza, indiretta, una ricaduta pratica anche di vaste
proporzioni.
La scienza greca, grazie all'utilizzo di schiavi restò prevalentemente una
scienza speculativa, e le rare applicazioni pratiche che furono maggiori
in epoca ellenistica, proprio quando cominciò ed essere messa in
discussione la condizione della servitù come “necessaria secondo
natura”, furono volte a creare effetti sorprendenti, più che a modificare
concretamente determinati assetti pratici nel mondo del lavoro e della
produzione di beni, e l'energia prodotta in gran parte con l'utilizzo di
forza animale ed umana, non venne sostanzialmente sostituita.
Per capire come si associasse la condizione del servo ad uno “stato di
natura”, torniamo ad Aristotele e notiamo che nel suo primo libro de la
Politica, egli, esplicitamente si schiera contro coloro che ritenevano la
schiavitù ingiusta e ribadisce che essa non solo è necessaria a tutto il
contesto sociale ed economico, ma è per di più utile agli schiavi stessi.
Per Aristotele è schiavo colui in cui prevale la funzione del corpo, e che,
pur essendo anch'egli libero, ha una libertà assai limitata a cui conviene
essere guidata e comandata. La natura fa diversi i corpi degli schiavi da
quelli dei liberi, e come asseriva anche Platone, il barbaro è schiavo per
natura e ha bisogno di poca virtù, quella che è solo necessaria ad
adempiere ai suoi doveri.
La schiavitù fa parte quindi, secondo Aristotele, dello Stato perfetto, e
così come lo Stato si compone di case, la casa si compone di liberi e di
schiavi.
Pertanto esistendo la casa e lo Stato secondo natura, anche la schiavitù è
destinata ad esistere per il medesimo motivo.
Perché Aristotele ci tiene a ribadire questi concetti? Per il semplice
motivo che il concetto dell'uguaglianza per natura di tutti gli uomini si
era già fatto strada prima di lui, con i Sofisti, e tornerà a risvegliarsi in
epoca ellenistica.
Ricordiamo infatti le parole di Antifonte: “Per natura siamo tutti uguali e
pure noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobile origine, mentre,
comportandoci da barbari, disprezziamo chi è di oscuri natali”
La concezione di fondo della sofistica era infatti tesa a dimostrare
l'uguaglianza di tutti gli uomini come condizione di partenza, come pari
opportunità data “formalmente” a tutti gli individui, tra i quali dovranno
emergere coloro che saranno dotati di maggiori attitudini ad acquisire la
virtù, e non coloro che nascono privilegiati dalla nobiltà di sangue.
La concezione dei sofisti dell'uguaglianza naturale di tutti gli esseri
umani viene ripresa ne periodo ellenistico, in particolare dai filosofi
cinici e stoici, per i quali la virtù non è, come nella scuola socratica,
associata alla conoscenza, ma piuttosto all'autocontrollo,
all'affrancamento morale dalle passioni. La schiavitù o la libertà
rappresentano quindi, anche sulla scia di ciò che abbiamo già detto in
merito a Platone, non una questione etnica o sociale, ma
specificatamente morale. Ciò si deve in particolare alle conquiste di
Alessandro Magno e al superamento progressivo dell'opposizione tra
greco e barbaro.
Gli stessi fondatori della scuola stoica, Zenone e Cleante,
sperimentarono, in particolare il secondo, di persona, il lavoro manuale
e la povertà.
Tra gli stoici antichi Crisippo afferma che “nessun uomo è schiavo per
natura” e che “solo il saggio è libero, gli stolti sono servi”.
Nel mondo romano la condizione dello schiavo subì una notevole
evoluzione durante il corso dei secoli.
Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel
sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo
stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi
erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun
diritto.
All'inizio del II sec. a.C., quando iniziarono le grandi guerre di conquista
del Mediterraneo, raramente le famiglie romane avevano più di uno
schiavo, però intorno alla fine del medesimo secolo, in particolare al
termine delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era
enormemente aumentato al punto da alterare i rapporti tra schiavo e
padrone.
Il mercato degli schiavi divenne così una delle attività commerciali più
produttive del Mediterraneo, anche perché i ricchi proprietari terrieri
avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera nei loro
latifondi. Il più grande mercato venne organizzato nell’isola di Delo,
dove, in tempi favorevoli, si potevano vendere circa 10.000 schiavi al
giorno.
Le condizioni degli schiavi furono inizialmente pessime e sfociarono in
aperta rivolta con Spartacus, dimostrando che anche l'impero poteva
essere seriamente minacciato senza norme che garantissero ai servi un
minimo di integrità, solo ai tempi di Ottaviano Augusto vennero varate
delle leggi per garantire il servo da determinati abusi del suo padrone
L’estendersi dell’economia schiavistica ebbe in ogni caso conseguenze
disastrose per la popolazione italica, non solo perché ostacolava forme
più evolute di sviluppo della scienza e della tecnica, ma anche perché
incrementava la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano
era più emancipata la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco
rispetto a quella di un cittadino libero privo di proprietà.
Nel II sec. d.C. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non
se ne comprava alcuno, perché il loro mantenimento era troppo costoso,
oppure se ne possedevano moltissimi. Due era il numero minimo, ma
mediamente la proprietà era di otto.
Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e la
qualità dei servizi privati, domestica ed extra domestica, erano
indirettamente proporzionali alla quantità e qualità di schiavi posseduti.
Un avvocato, ad esempio, aveva come biglietto da visita presso il suo
cliente, la scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale.
Plinio il Giovane (età di Traiano), che dichiarava di possedere modeste
ricchezze, ne possedeva almeno 500, e di questi ne liberò almeno 100 nel
suo testamento.
Il massimo consentito dei riscatti in base alla legge Fufia Canina, dell'8
a.C., era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti.
Nell'età imperiale Flavia in cui gli imperatori furono inclini allo
stoicismo, Adriano sottrasse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di
morte, e Antonino Pio e Costantino arrivarono a considerare omicidio
l'assassinio del servo, punendo chi uccideva un figlio con le stesse pene
di chi uccideva il padre.
Successivamente, con altri provvedimenti, si consentì allo schiavo di
mettere da parte, coi suoi risparmi, una somma che gli fosse utile per
qualche spesa a piacimento o gli consentisse di riscattarsi, quando non
era lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo. Già dal tempo di
Nerone si assistette a casi di servi divenuti lberti, che ereditando i beni
dei loro padroni erano immensamente più ricchi di molti cittadini
romaniil caso di Trimalcione narrato nel Satyricon di Petronio è
emblematico.
Tra gli autori latini che menzionano questioni relative alla schiavitù,
spicca Seneca ed in particolare la sua lettera XLVII a Lucillio in cui, tra
l'altro scrive: “Tu vuoi credere che costui, che tu chiami schiavo, e nato
dal medesimo elemento, gode dello stesso cielo, che respira, vive e
muore nel ( nostro ) medesimo modo! Tanto tu lo puoi vedere libero
quanto egli ti puo vedere schiavo. Il caso, durante le stragi imposte da
Mario, schiaccio molti nati da nobilissime famiglie e che, attraverso il
servizio militare, aspiravano al rango senatorio; uno lo rese pastore,
un altro guardiano di capanna: prova ora a disprezzare un uomo di
condizione tale che tu ci puoi finire mentre lo stai disprezzando”.
Nella concezione filosofica di Seneca tutta la vita, è da intendersi come
un lunga schiavitù e a tal fine, è necessario conoscere e vivere nella
propria condizione il più serenamente possibile, imparando a sopportare
le circostanze avverse che non dipendono da noi, mantenendo un animo
interiormente libero in cui si possa coltivare l'autentica virtù che non
non è preclusa a nessuno, nemmeno agli schiavi i quali, per questo, sono
anch'essi uomini.
Tuttavia Seneca non giunge alla conclusione che uno schiavo virtuoso
dovrebbe anche essere emancipato dalla schiavitù sul piano giuridico ,
poiché tale condizione riguarda solo il corpo dello schiavo, il quale,
consegnato dalla sorte ad un padrone, non può mutare il suo destino sul
quale non si può intervenire per mutarlo. Ecco dunque che sulla scia di
Platone e degli stoici antichi, anche Seneca ribadisce che vera schiavitù
non può essere che quella volontaria, l'essere servi del vizio.
In virtù di ciò, secondo il filosofo latino, il padrone deve vivere con il
suo servo " clementer et comiter", dandogli la possibilità di esprimersi,
di emergere per le sue qualità e anche di esercitare la giustizia, in quanto
ogni uomo deve considerare che l'unica differenza che può intercorrere
tra due uomini di diversa condizione è data dalla fortuna che assegna ad
ognuno la “fortuna” che in senso latino era da intendersi come destino.
Tutti gli uomini sono in realta degli schiavi e solo il saggio e libero”:
questo, in particolare, è anche il pensiero di Epitteto, vissuto al tempo
dell'imperatore Marco Aurelio, egli arriva persino a teorizzare
l'uguaglianza di tutti gli esseri umani affermando in particolare che:
"veniamo tutti da Dio" e che "Dio è padre degli uomini e degli dei"
(Diatribe, II, 8, II). . Per Filone Alessandrino, promotore della
conciliazione fra Ellenismo ed Ebraismo, inoltre, il figlio di uno schiavo è
a sua volta uno schiavo, tuttavia l'uomo non lo è per natura, ma si rende
tale in determinate circostanze.
La servitù dal Medioevo all'Età Moderna.
La servitù nel Medioevo assume forme assai diverse rispetto a quelle
messe in atto nella società antica.
In tale periodo la condizione del servo variava a seconda del sesso,
dell'età e dei compiti da svolgere. Alcuni vivevano in tale condizione solo
fino a che non erano in grado di fondare un loro nucleo famigliare, altri
invece lo restavano per tutta la vita o in determinati periodi. Lo erano i
figli di contadini privi di eredità, o nelle città le mogli degli artigiani e dei
lavoratori a giornata.
Nel tardo medioevo era usuale che la condizione del servo fosse riservata
alle persone non coniugate appartenenti alle classi popolari di città o di
campagna che non potevano sposarsi per questioni di successione o per
l'accesso restrittivo alle professioni artigiane. Solo il concubinato poteva
consentire queste proibizione.
In generale, il salario della servitù era vario e comprendeva vitto,
alloggio, indumenti (secondo la necessità e denaro) e sicuramente più
basso per le donne rispetto a quello degli uomini. Non era facile
risparmiare. I padroni istituivano talvolta nei loro testamenti delle
disposizioni per la propria servitù; le domestiche ricevevano, ad
esempio, alcune volte un corredo nuziale.
E' una condizione dunque che appare complessivamente più favorevole
rispetto a quella del mondo antico.
I servi della gleba inoltre, a differenza degli schiavi antichi, non venivano
considerati "cose" ma persone, avevano il diritto ad una loro proprietà
privata, che era però limitata ai beni mobili, potevano sposarsi, avere
figli che potevano ereditare i loro beni. Il feudatario non poteva
minacciare la vita del servo della gleba il quale però poteva essere
venduto insieme alla terra, su cui aveva il diritto-dovere di restare ma da
cui non poteva nemmeno essere cacciato. Dai doveri rurali, in molte
zone d'Europa, a poco a poco, molti servi infine si sottrassero con il loro
trasferimento in città.
La schiavitù nel Medioevo era praticata soprattutto dai Saraceni, nei vari
mercati allestiti in tutto il Mediterraneo e non era infrequente durante le
loro razzie finirne vittime, specialmente lungo le coste italiane.
Anche la repubblica di Venezia, specialmente nell'Alto Medioevo, fu
coinvolta nella tratta degli schiavi, in particolare con i Saraceni, tanto
che la parola “ciao” molto in uso nella lingua italiana, deriva proprio dal
veneziano “sciao”, a sua volta derivante da sclavus e slavus, l'abitante
della Slavonia che includeva la Dalmazia.
Tale termine, con forte accezione etnico-razziale, entrò in uso in
particolare dopo la guerra che Ottone il grande fece ai popoli slavi
riducendoli in servitù.
La Serenissima, in ogni caso, fu anche la prima Repubblica che abolì la
tratta degli schiavi infatti nell'anno 960 d.c. il ventiduesimo doge Pietro
IV° Candiano, con la sua solenne promissione, vietò il commercio di
schiavi a Venezia, che fu il primo Stato al mondo ad abolire questo
infame commercio, da allora in poi gli schiavi che arrivavano a Venezia
cominciarono ad essere liberati, anche se tale pratica non cessò
definitivamente con tale promissione, perché risulta che ancora in pieno
XIV secolo, Venezia partecipava alla tratta degli schiavi nel
Mediterraneo, da un editto del 1386 del Senato veneziano che vietava il
commercio degli schiavi nella pubblica piazza.
Spesso gli schiavi entravano a far parte della servitù dei Nobili
Veneziani, dimoravano così nei Palazzi o in alcune piccole case che
venivano costruite vicino agli edifici centrali dei ricchi e dei nobili, ed
erano remunerati mensilmente con un salario, il quale doveva bastare al
sostentamento delle loro famiglie.
La famiglia nobile spesso provvedeva ai pasti due volte al giorno per
tutta la servitù, anche quando una parte consistente della popolazione
veneziana si poteva permettere un solo pasto al giorno.
Non di rado, accadeva che qualche nobile scegliesse nella famiglia di un
servitore un figlio o una figlia a cui si forniva un'istruzione tale che
sapesse "leggere e scrivere" per rappresentare il casato da cui dipendeva
il servitore e dargli così maggior prestigio.
Anche se Venezia precorse di molto i tempi, con il suo declino, in epoca
moderna, la schiavitù divenne ancora una volta uno straordinario
strumento di sfruttamento e di produzione.
Furono le scoperte geografiche che fecero aumentare per altri tre secoli
in maniera vertiginosa l'uso della manodopera ridotta in schiavitù.
Milioni di indios nelle Americhe vennero ridotti in schiavitù per
praticare i lavori più diversificati e altrettanti ne morirono per le
malattie importate dagli europei o per gli stenti.
Dopo che queste popolazioni furono sterminate ci si rivolse di nuovo
all'Europa con la deportazione di "schiavi bianchi": ex galeotti,
condannati ai lavori forzati o in vari casi semplicemente persone
disperate che, per sfuggire alla povertà, si lasciavano soggiogare da
lunghi contratti che li rendevano pressoché schiavi. Quando anche
questo sistema di approvvigionamento si rivelò insufficiente, i
conquistatori si rivolsero all’Africa e qui trovarono la soluzione al loro
problema.
A partire dal 1510, questa importazione di manodopera da utilizzare
come fonte di schiavitù divenne sempre più frequente e i sovrani davano
in appalto ai mercanti o a ricchi marinai la possibilità di commerciare
all'ingrosso grandi quantità di schiavi provenienti dall'Africa. Questo
metodo si chiamava asiento, ed era un contratto tra il re e un contraente
(un privato o una compagnia) che comportava il rispetto di precise
condizioni di tempo di consegna e di prezzo.
Progressivamente questi contratti passarono da licenze per un numero
limitato di schiavi, fino ad asientos che potevano comportare la
consegna di decine di migliaia di essi in pochi anni si calcola che il
portoghese Gomes Reynal, in particolare, comprò nel 1592 un asiento
per trasportare 38.250 schiavi durante nove anni ad un ritmo di 4.250
l’anno. Vi era poi un diffuso commercio clandestino e di contrabbando
praticato da olandesi, francesi e inglesi che erano rimasti esclusi da
quello che all'epoca appariva come un vero e proprio monopolio della
tratta degli schiavi.
Il paradosso è che il secolo dei lumi, quello che si concluse con la
Rivoluzione francese e con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che
ebbe come protagonista il teorico della tolleranza Voltaire e culminò con
la pubblicazione dell’Enciclopedia, fu anche quello in cui aumentò più
che in ogni altra epoca il commercio di centinaia di migliaia di schiavi,
provenienti dalle coste africane e deportati verso quelle americane. Dagli
inizi del Settecento secolo infatti, fino all’abolizione del traffico legale
degli schiavi nei primi anni del’ 800, la tratta degli schiavi assunse
proporzioni spaventose con circa 6.051.000 uomini, donne e bambini
africani che vennero condotti a forza e in condizioni disumane nelle
Americhe, tra i quali 578.000 nelle colonie spagnole, 1.749.300 in quelle
inglesi del nord America e delle Antille (Giamaica, Isole Sottovento,
Barbados, Trinità, Grenada), 1.348.400 nelle le colonie francesi (Santo
Domingo, Martinica, Guadalupa, Guyana, Louisiana), 460.000 in quelle
olandesi, 24.000 nelle Antille danesi, 1.891.400 nel Brasile portoghese;
la media annua raggiunse i 55.000 uomini, con punte di 65.000 fra il
1751 e il 1800.
L'abolizione della schiavitù e la nascita della servitù salariale
con la Rivoluzione Industriale.
Le tappe che portarono alla abolizione della schiavitù furono varie e
dilazionate nel tempo, in ogni caso, bisogna rilevare che l'incremento di
tale pratica, verificatosi nel XVIII secolo, fu la premessa per
quell'accumulo di capitali che rese possibile l'avvento della rivoluzione
industriale, con ciò si passa da una servitù completa ad una servitù
salariale, non meno utile ma meno dispendiosa, come fa notare lo stesso
teorico dell'economia liberista: Adam Smith nella sua opera La
Ricchezza delle Nazioni: “Benche il mantenimento ed il logorio di un
servo libero siano ugualmente a spese di uno schiavo..l'opera fatta
dagli uomini liberi alla fine risulta piu a buon mercato che non quella
fatta dagli schiavi...L'esperienza di tutti i tempi e di tutte le nazioni
dimostra che l'opera fatta dagli schiavi benche appaia costare
unicamente il loro mantenimento, e, in fin dei conti la piu cara di tutte.
Un uomo che non puo acquistare alcuna proprieta, non puo avere altro
interesse se non quello di mangiare quanto piu e possibile e di lavorare
quanto meno e possibile. Qualunque opera faccia, al di la di cio che e
sufficiente per ottenere il suo proprio mantenimento puo essergli
spremuta solo per violenza e non per alcun suo proprio interesse”
Smith aggiunge inoltre che il lavoratore libero è dotato di inventiva e può
mettere in atto migliorie, che, se per caso uno schiavo fosse in grado di
attuare, lo farebbe più per pigrizia e per faticare meno, piuttosto che per
ricavare vantaggi dalla produzione.
Fu soprattutto la diffusione dell'opera di Rousseau e la teorizzazione del
buon selvaggio”, cioè la tesi secondo cui l'uomo nello stato di natura è
fondamentalmente buono ed amichevole, a mettere in crisi fortemente
l'uso della manodopera indigena. Così infatti esordisce Rousseau nell'
Emilio: “ogni cosa e buona mentre lascia le mani del Creatore delle
cose; ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo”
In ogni caso, solo alla fine del XVII secolo nacque in Europa un
movimento di protesta contro la tratta degli schiavi che cominciò ad
essere considerata moralmente inaccettabile e che trovò terreno fertile
nei movimenti dei millenaristi, dei perfezionisti e dei quaccheri, oltre
che una certa eco nello Spirito delle Leggi di Montesquieu, nella
pubblicazione dell'Enciclopedia di D'alembert e Diderot e nella Storie
delle indie dell'abate Raynal.
Fu inoltre la Rivoluzione Americana, con le sue conseguenze nel traffico
e nell'incremento di una produzione rivale di canna da zucchero, che
fece crollare i prezzi e salire i costi di produzione, causando un forte
declino nel sistema coloniale il quale ebbe forti ripercussioni
nell'incremento della causa abolizionista.
Fu in Francia e in Gran Bretagna che ebbe luogo maggiormente la
campagna per l'abolizione della schiavitù. Nel 1793 la Convenzione abolì
la schiavitù ma Napoleone la ristabilì dopo pochi anni, mentre nel 1807
Wilberforce ottenne che fosse votata una legge che dichiarava illegale
per ogni suddito britannico la tratta degli schiavi, e tale istituzione venne
abolita poi nel 1833 anche nelle colonie inglesi, mentre solo nel 1848 in
quelle francesi. In precedenza, al Congresso di Vienna, all'allegato 15
dell'Atto finale (8 febbraio 1815), venne sottoscritta una Dichiarazione
contro la tratta dei negri.
Le navi inglesi pattugliavano le rotte dei commercianti di schiavi, ma,
nonostante ciò, tale pratica continuò in vascelli clandestini, in
particolare per la continua richiesta di manodopera nelle piantagioni di
canna da zucchero a Cuba e in Brasile.
Solo dopo la guerra di Secessione negli Stati Uniti nel 1865 e dopo
l'abolizione della schiavitù che avvenne anche in Brasile, nel 1888, la
tratta poté dirsi definitivamente sconfitta. L'ultimo carico di schiavi fu
però scoperto e liberato solo nel 1902, anche se tale pratica, sparita nel
commercio delle rotte atlantiche perdurò nell'Africa sottoposta a
dominio coloniale europeo in varie altre forme, sarebbe però alquanto
complesso prenderla in esame.
Nel XIX secolo, con l'avvento della Rivoluzione Industriale, si passa ad
una nuova forma di servitù: quella “salariale”, essendosi fatto
indispensabile ed interdipendente il lavoro degli operai nelle fabbriche,
rispetto all'accumulazione di capitale degli imprenditori che ne erano
proprietari.
L'interdipendenza tra servo e padrone è ben teorizzata da Hegel, la cui
filosofia fu criticata ma ampiamente ripresa nello sviluppo metodologico
da Marx.
Nella Fenomenologia dello Spirito, Hegel afferma che il padrone non
lavorando, costringe il servo a lavorare per lui. Il servo, però prestando
la sua opera, trasforma la natura e la rende disponibile all'uomo, quindi
la umanizza, ed si oggettivizza in essa.
Però con tale relazione necessaria il padrone non può che diventare
dipendente dal servo. Il servo, d'altra parte, mediante il suo lavoro, non
solo riconosce la sua identità nel prodotto del suo lavoro, ma diventa
anche consapevole della dipendenza del padrone da lui, e con questo
diventa, a livello di autocoscienza, libero nei confronti del padrone.
Questa analisi è sicuramente alla base della elaborazione successiva
messa in atto da Marx, però resta fondamentalmente intellettuale ed
astratta.
La coscienza interiore del servo richiama la filosofia stoica, che
riconosceva al servo la possibilità di prendere coscienza del proprio
valore e della propria responsabilità.
Ma mentre lo stoicismo, portando al ritiro dal mondo, dette origine allo
scetticismo, in Hegel si ha un vero e proprio conflitto con il mondo che
genera una rottura dell'autocoscienza, fino a causare la coscienza
infelice.
Tale coscienza infelice portò il cristianesimo a sostituirsi allo
scetticismo, protraendosi nel periodo medioevale.
La coscienza infelice non risulta altro che dal contrasto tra la coscienza
divina, che è immutabile, e quella umana, che è mutevole e soggetta al
peccato. Questa forma di coscienza quindi, più che ad una coscienza vera
e propria e ad una consapevolezza, porta alla devozione, e di
conseguenza, alla dipendenza totale della coscienza del singolo rispetto a
quella divina.
Marx critica il concetto hegeliano di lavoro nei suoi “Manoscritti
economico filosofici del 1844” con le seguenti parole:
Hegel resta al punto di vista dell'economia politica moderna. Egli
intende il lavoro come l'essenza, l'essenza che si avvera dell'uomo: vede
soltanto l'aspetto positivo del lavoro, non quello negativo. Il lavoro e il
divenir per se dell'uomo nell'alienazione o in quanto uomo alienato. Il
lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce e il lavoro spirituale
astratto. Questo, che costituisce dunque in genere la essenza della
filosofia, l’alienazione dell'uomo che conosce se stesso o la alienata
scienza autocosciente, questo intende Hegel come l’essenza di essa
filosofia e puo quindi rispetto alla filosofia anteriore ricapitolarne i
diversi momenti e presentare la sua filosofia come la filosofia.”
Ma, dato che nella concezione marxiana la filosofia è prassi e concreta
trasformazione del mondo, non astratta spiritualità, l'analisi della
alienazione dovrà essere concretamente relazionata con i rapporti di
produzione e con il sistema salariale.
Quello che nella concezione hegeliana restava un “regno della libertà”,
relativo allo sviluppo dialettico dello Spirito assoluto, in Marx diventa un
percorso concreto di liberazione da un mondo in cui permane una
condizione particolare di schiavitù che è quella “salariale” da parte di
una classe sociale: il proletariato.
Scrive Marx nel terzo libro del Capitale: "Di fatto, il regno della liberta
comincia soltanto la dove cessa il lavoro determinato dalla necessita e
dalla finalita esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della
produzione materiale vera e propria.[...] La liberta in questo campo
puo consistere soltanto in cio, che l'uomo socializzato, cioe i produttori
associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la
natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da
esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro
compito con minore possibile impiego di energia e nelle condizioni piu
adeguate alla loro natura umana e piu degne di essa. Ma questo
rimane sempre il regno della necessita. Al di la di esso comincia lo
sviluppo delle capacita umane, che e fine a se stesso, il vero regno della
liberta, che tuttavia puo fiorire soltanto sulle basi di quel regno della
necessita".
La libertà è quindi frutto di una coscienza dello sfruttamento, maturata
in quanto classe sociale e non più solo come singola persona, essendo
per questo “coscienza di classe”, e dà origine, conseguentemente, ad una
lotta di classe” per appropriarsi dei mezzi di produzione e non essere
più dominati dalla “forza cieca” dei capitalisti..
Marx infatti afferma che anche nel mondo moderno permane una
particolare forma di schiavitù che spesso non è facilmente identificabile:
la «schiavitù salariata» da parte di una classe sociale la quale, in una
condizione di totale privazione della libertà di usare i propri mezzi, è
costretta ad alienare la sua forza lavoro e a vendersi ogni giorno.
La libertà di cui dispongono i lavoratori salariati risulta quindi essere
solo formale, perché essi sono sostanzialmente asservimenti ad un
meccanismo economico che è solo mascherato con una «finzione
giuridica» rappresentata dal contratto di lavoro e che risulta
concretamente simile a quello dell'antico schiavo.
Marx, mediante un accorto studio della storia e della filosofia, mette in
risalto che nonostante l'apparente differenza di condizione formale,
l'antico schiavo e l'operaio si trovano in una condizione sostanzialmente
analoga, in quanto ad entrambi viene estorto “pluslavoro”, quel lavoro
cioè necessario alla produzione del “plusvalore”, nella quantità di lavoro
cioè corrispondente al valore non corrisposto.
C'è dunque una corrispondenza diretta tra lo schiavo antico e quello
moderno che abbiamo già visto prefigurarsi nelle parole di Smith, lo
schiavo moderno è solo incentivato a produrre dalla necessità di
riprodurre la sua “forza lavoro” nell'illusione che gli resti qualcosa oltre a
ciò, mentre in realtà, il padrone dei mezzi che egli è costretto ad usare
risparmia la necessità di farsi carico della sua sopravvivenza, potendo in
ogni momento sostituirlo con altri disposti a svolgere le sue stesse
mansioni e ad “alienarsi” al meccanismo fabbrica.
Antico schiavo, servo della gleba e schiavo salariato sono tre figure del
processo del materialismo storico con cui Marx interpreta la storia come
lotta e contrapposizione di classi sociali. Tre stadi di un medesimo
processo che è evolutivo solo in quanto, nel terzo stadio della schiavitù
salariale, l'operaio ha la possibilità, mediante la “coscienza di classe”, del
suo sfruttamento, di mettere in atto un processo rivoluzionario, per
spezzare le catene dell'alienazione, ponendo così fine al conflitto di
classe e conquistando la possibilità di vivere in una società in cui “il
libero sviluppo di ciascuno e la condizione per il libero sviluppo di
tutti.”
Così è infatti scritto nel Manifesto del Partito Comunista del 1848:
Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno
sparite e tutta la produzione sara concentrata nelle mani degli
individui associati, il potere pubblico perdera il carattere politico. Il
potere politico, nel senso proprio della parola, e il potere organizzato di
una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta
contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per
mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come
tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso
abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni
d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi
anche il suo proprio dominio di classe. Al posto della vecchia societa
borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra
un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno e la condizione
per il libero sviluppo di tutti.”
Per concludere questa rassegna sulle condizioni della servitù nell'età
moderna e passare alla conclusione, analizzando quelle che tuttora
persistono in quella contemporanea, faremo un breve riferimento alle
condizioni in cui vennero ridotte le masse popolari nel Meridione d'Italia
dopo l'unificazione avvenuta nel 1861, ed osserveremo la
rappresentazione del “buon selvaggio” nella pittura di Gauguin.
Il Risorgimento e in particolare l'Unità d'Italia di cui abbiamo appena
celebrato il 150° anniversario, per i popoli del Sud della nostra penisola,
corrispose ad un evento luttuoso e carico di implicazioni negative,
purtroppo tuttora non sanate.
Il Regno delle Due Sicilie, prima di quella che si rivelò essere una vera e
propria conquista ed annessione da parte del Piemonte, con le sue
truppe, i suoi notabili ed i suoi prefetti territoriali, era uno dei regni più
ricchi dell'Italia preunitaria. Ci dilungheremmo troppo se
confrontassimo nel dettaglio la sua condizione socioeconomica con
quella di altri stati fortemente più indebitati, basteranno solo alcuni dati
significativi: i settori del tessile e quello metalmeccanico contavano
1.600.000 addetti contro il 1.100.000 del resto d'Italia. Vi nacquero
industrie tecnologicamente avanzate, ci furono ferrovie e battelli a
vapore e vi furono costruiti i primi ponti in ferro in Italia, opere d'alta
ingegneria in parte ancora visibili sul fiume Calore e sul Garigliano. Le
industrie tessili, navali, metalmeccaniche pullulavano in tutto il regno:
quella di Pietrarsa, con mille operai e settemila d'indotto, ne era la punta
di diamante.
Gli operai lavoravano otto ore al giorno e guadagnavano abbastanza per
sostentare le loro famiglie e per primi, in Italia, poterono usufruire di
una pensione statale in quanto vi fu istituito un sistema pensionistico
con ritenuta del 2% sugli stipendi che per allora era uno dei più avanzati.
Nel Regno la disoccupazione era praticamente inesistente e così
l'emigrazione.
Nel 1860 il debito pubblico del Piemonte era corrispondente alla cifra
astronomica di oltre un miliardo di lire di allora (1.159.970.595.43)
accumulatosi in seguito alle guerre risorgimentali, e doveva pagare £
57.561.532.18 di interessi annui alle banche inglesi, era una montagna
di debiti, che 4 milioni di abitanti non sarebbero mai riusciti a pagare.
Tale debito però fu caricato con con la forza delle armi su tutte le
popolazioni, specialmente le più povere, annesse con l'Unità d'Italia.
Ferdinando Ritter ha scritto che: "... il Regno delle Due Sicilie contribui
alla formazione dell' erario nazionale, dopo l'unificazione d'Italia, nella
misura di ben 443 milioni di lire in oro, mentre il Piemonte, la Liguria e
la Sardegna ne corrisposero 27, la Lombardia 8,1, il Veneto 12,7, il
Ducato di Modena 0,4, Parma e Piacenza 1,2, la Romagna, le Marche e
l'Umbria 55,3; la Toscana 84,2; Roma 35,3...".
Immediatamente dopo l'impresa dei Mille e la consegna del Meridione
d'Italia da parte di Garibaldi a Vittorio Emanuele II, si scatenò una
repressione feroce contro tutti coloro che cercarono di ribellarsi al
regime di occupazione piemontese, con numero di morti da guerra civile.
Solo nel primo anno, dal settembre del 1860 all'agosto del 1861 vi furono
ben 8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22 frati,
60 ragazzi e 50 donne uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6
paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate,
1.428 comuni sollevati.
La Questione Meridionale di cui parlarono Salvemini, illustre esponente
socialista e Gramsci, autorevole scrittore comunista, si aprì come una
voragine che inghiottì milioni di persone, costrette ad emigrare per
riuscire a sopravvivere ad un durissimo regime repressivo di
occupazione che trovò solo nel brigantaggio una disperata quanto vana
resistenza durata circa dieci anni, sino al 1871.
Le condizioni, non a caso definite dei “vinti” dai maggiori autori del
verismo” come Verga, si manifestano, anche nella rappresentazione
letteraria, con un misto di sconforto e di miseria, per un destino che
appare ai più insormontabile.
Tra le novelle di Verga che illustrano meglio la condizione della schiavitù
salariale a cui furono sottoposti i lavoratori del Sud, fin dalla tenera
infanzia, vi è Rosso Malpelo che è un ragazzo costretto a lavorare in una
cava, e che molti prendono in giro a causa dei suoi capelli rossi. L'unico
suo affetto è rappresentato dal padre, che però muore nella miniera,
lasciandolo solo con la madre e la sorella che lo lo trattano male e sono
diffidenti verso di lui. Dopo la morte del suo unico amico amico
Ranocchio, consapevole di non contare più nulla per nessuno, Malpelo si
decide di offrirsi volontario per scavare un cunicolo pericoloso dentro la
cava. Dopo essere entrato nel cunicolo però sparisce nel nulla, e per gli
altri lavoratori della miniera assume quasi le sembianze di un demone e
di un fantasma terrorizzando il loro animo con la paura che possa
tornare da un momento all'altro.
Verga descrive la condizione del protagonista di questa novella come una
sorta di riduzione ad una condizione “animale”, gli stessi sentimenti
umani di Malpelo sono grottescamente destinati a mutare assumendo
comportamenti sempre più duri. Sviluppa un rapporto di amore-odio
per un ragazzetto arrivato da poco alla cava: Ranocchio, al quale una
lussazione del femore impedisce di lavorare come manovale,
obbligandolo, invece, a lavorare sottoterra.
Malpelo lo picchia, però gli insegna nello stesso tempo, con rabbia mista
ad affetto, le dure e feroci leggi della vita, le uniche che egli conosce e in
cui si è abituato a credere: la continua lotta di tutti contro tutti e la
sopravvivenza del più forte. Ranocchio, già malato e menomato, un
giorno muore e Malpelo resta solo ad imboccare il cunicolo in cui
sparirà, quasi fosse l'unica via d'uscita alla sua disperazione.
La condizione della “schiavitù” di Malpelo è descritta in maniera
mirabile in questo passaggio della novella di Verga:
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di
manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato
da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da
quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorche il
padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la
razione di busse non gliela aveva levata mai, il padrone; ma le busse
non costavano nulla. Non si lamentava pero, e si vendicava di
soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci
avesse messo la coda il diavolo: percio ei si pigliava sempre i castighi
anche quando il colpevole non era stato lui. Gia se non era stato lui
sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro
sarebbe stato inutile.”
Nel racconto di Verga anche la natura o persino gli oggetti sembrano
assumere sembianze ostili ed il lavoro rappresenta per chi è sottomesso
e sfruttato una vera e propria maledizione da tramandare da padre in
figlio. In queste condizioni subumane prevalgono gli istinti elementari e
semi bestiali , i soli che mantengono in vita gli esseri viventi e si
impongono nei rapporti ispirati alla pura legge della convenienza e della
sopravvivenza mediante il mors tua vita mea.
Le condizioni di Malpelo sono anche quelle a cui milioni di indigeni in
molti dei continenti colonizzati dagli europei, sono sottoposti per
l'estrazione e lo sfruttamento delle materie prime con cui il capitalismo
industriale si avvia a potenziare la seconda fase espansiva della
Rivoluzione Industriale.
Solo in alcuni “paradisi” il mito del “buon selvaggio” sopravvive
alimentato anche dalla fuga verso di essi da parte di artisti come
Gauguin, consapevoli di appartenere ad una civiltà disumana in piena
decadenza morale e civile.
Come ha scritto Ren´ Huyghe, Gauguin fu il primo artista ≪a prendere
coscienza della necessita di una rottura perche potesse nascere un
mondo moderno, il primo a sfuggire alla tradizione latina, disseccata,
ossificata, moribonda, per ritrovare tra le leggende barbare e le
divinita primitive, l'impeto originario, ed e stato anche il primo a osare
lucidamente di trasgredire e anche di respingere la realta esterna
insieme al razionalismo. Mentre l'arte occidentale aveva come proprio
perno il noto, egli vi ha sostituito l'ignoto. Al di la delle costruzioni
plastiche, di cui pure ha insegnato all'arte moderna la libera creazione,
ha intuito le terre sommerse dell'anima, le loro intatte potenze in cui la
civilta decrepita e raffinata potrebbe ritemprarsi≫.
Gauguin muta radicalmente il mondo che gli è proprio. E lo fa
scappando lontano, salendo su un battello, in cerca di luoghi in cui non
vi sia più alcuna traccia della cultura occidentale e del mondo classico,
verso un mondo altro e “dell'altro”, di altri personaggi e altre culture. La
sua è la premessa della ricerca che continuerà Picasso con le maschere
primitive, per affermare con forza la rottura netta con la civiltà
occidentale.
A proposito di uno dei soggetti dei suoi famosi ritratti: un'indigena nuda,
così si esprime l'artista: ≪immobile, nuda, supina sul letto, gli occhi
enormemente sbarrati dalla paura, Tehura mi guardava e sembrava
non riconoscermi [...] Mi sembrava che una luce fosforescente uscisse
dai suoi occhi dallo sguardo sbarrato. Non l'avevo mai vista cosi bella,
soprattutto mai di una bellezza cosi commovente≫.
Gauguin rimane quasi rapito dalla bellezza dei suoi personaggi che
traspare dalle sue opere incantevoli che creò durante il suo soggiorno
thaitiano ma la vita in quel paradiso tanto agognato nell'Oceania per lui
non fu pienamente felice. La sua esistenza infatti fu devastata dalle
malattie, dall'alcolismo, dalla sifilide e persino da un tentativo di
suicidio. Durante il suo secondo soggiorno nelle Isole Marchesi, dove si
trasferì nel 1901, passò dalla contemplazione della bellezza degli indigeni
all'abbracciare la causa della loro liberazione, pagando il suo impegno
con un periodo di detenzione per aver istigato gli indigeni alla ribellione.
L'originalità di Gauguin è talmente profonda ed autentica che ancora
oggi ne avvertiamo quella straordinaria potenza che è dovuta proprio ad
una sorta di sradicamento culturale. I suoi capolavori sono dipinti in una
totale immersione non solo nelle forme ma anche nei contenuti del
mondo primitivo. Nella sua visione l'Occidente è ormai tramontato non
soltanto nelle sue immagini, ma anche nel suo significato e nel suo
valore storico. Gauguin, come ogni grande artista, è già oltre la storia.
La Schiavitù nel mondo contemporaneo
Il mondo contemporaneo, sviluppatosi successivamente alla prima
guerra mondiale e dalla crisi del Positivismo, e con la fine dell'illusione
che il progresso scientifico avrebbe aperto all'umanità le porte del
paradiso sulla terra, in particolar modo, è caratterizzato, durante il
Novecento dall'avvento di sistemi totalitari, come il fascismo, il nazismo
e il comunismo stalinista, che hanno sostanzialmente ridotto l'essere
umano alla condizione di servo di un sistema basato sulla statolatria, sul
culto cioè dello Stato e dei suoi rappresentanti-padroni.
Tali sistemi, in particolare quello nazista e quello stalinista, hanno
prodotto i campi di lavoro e di sterminio come il lager e il gulag in cui
milioni di esseri umani sono stati ridotti a pure “macchine da lavoro” e
trattati peggio degli animali.
La schiavitù, in tale versione “tecnocratica” poiché progettata e gestita,
in particolare nei campi nazisti, con l'ausilio di macchine e con i primi
elaboratori elettronici, forniti anche da industrie americane come l'IBM,
ha raggiunto la sua versione più aberrante e distruttiva, perché ha prima
ridotto l'essere umano ad oggetto privo di identità, ad un numero di
matricola, e poi lo ha annientato sino alla morte, non curandosi, come
accadeva con lo schiavo antico, nemmeno di mantenerlo in salute per
poterlo sfruttare nel tempo.
Nei lager finirono sei milioni di ebrei, più gli oppositori politici,
principalmente comunisti, socialisti, socialdemocratici e leader
sindacali. Tra coloro presi di mira dai Nazisti vi furono anche scrittori e
artisti, i Rom. Tra il 1939 e il 1945, almeno un milione e mezzo di
cittadini polacchi furono deportati in Germania e destinati ai lavori
forzati. Centinaia di migliaia di loro vennero anche imprigionati nei
campi di concentramento nazisti. Durante l'occupazione dell'Unione
Sovietica occupata, le autorità tedesche condussero una vera e propria
politica di sterminio dei soldati sovietici presi prigionieri, le persone dai
tratti asiatici” e i leader politici e militari venivano prima selezionati e
poi fucilati. Altri tre milioni circa furono eliminati a causa della
mancanza di alloggiamenti adeguati, di cibo e di medicine. In Germania,
i Nazisti misero in prigione anche i leader delle chiese cristiane che si
opponevano al Nazismo, così come migliaia di Testimoni di Geova che si
rifiutavano di usare il saluto nazista a Hitler o di arruolarsi nell’esercito.
Inoltre, attraverso il cosiddetto “Programma Eutanasia”, si calcola che i
Nazisti assassinarono 200.000 persone affette da disabilità fisiche o
mentali. Infine, i Nazisti perseguitarono anche gli omosessuali
(soprattutto gli uomini) il cui comportamento era considerato pericoloso
per la tutela della razza germanica.
Gulag in russo ha lo stesso significato ed etimologia di lager: "Glavnoe
upravlenie ispravitelno-trudovykh lagerej", "Direzione principale dei
campi di lavoro correttivi"
La sola contabilità delle vittime di questo durissimo e spietato regime di
repressione sovietico è terrificante, anche perché esso durò di più nel
tempo rispetto a quello nazista.
Vi furono rispettivamente:
- 80.000 fucilati senza essere stati sottoposti a giudizio e massacro di
centinaia di migliaia di contadini e operai insorti tra il 1918 e il 1922;
- 5.000.000 di morti a causa della carestia indotta alla popolazione
rurale agli inizi degli anni '20;
- deportazione ed eliminazione dei Cosacchi del Don;
- assassinio programmato di 10.000.000 di persone nei gulag fra il 1918
e il 1930;
- eliminazione di quasi 1.000.000 di persone durante la "Grande Purga"
del 1937-1938;
- deportazione ed eliminazione di di 2.000.000 di kulak (contadini
piccoli proprietari di terra) o presunti tali nel 1930-1932;
- sterminio programmato di 6.000.000 di ukraini nel 1933 per carestia
indotta e non soccorsa;
- deportazione e sterminio dei tedeschi del Volga nel 1941;
- deportazione e sterminio dei tatari della Crimea nel 1943;
- deportazione e sterminio dei ceceni nel 1944;
Addirittura un “direttore” di un gulag è stato decorato per essere riuscito
a far morire (di stenti e torture) il 90% degli “ospiti” in un solo mese.
Dai dati recentemente usciti dall’archivio del KGB risulterebbe che i
GULAG hanno avuto circa 29.000.000 di “ospiti” di cui 13.000.000
sono morti.
La dichiarazione dei Diritti dell'Uomo sottoscritta dopo la fine della
seconda guerra mondiale dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948,
avrebbe dovuto porre fine, una volta per tutte, ad un destino di
oppressione e di schiavitù per gran parte del genere umano, ricordiamo i
suoi primi cinque articoli:
Articolo 1. Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e
diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni
verso gli altri in spirito di fratellanza.
Articolo 2. 1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà
enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per
ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione
politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di
nascita o di altra condizione 2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita
sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del
territorio cui un persona appartiene, sia che tale territorio sia
indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non
autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
Articolo 3. Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza
della propria persona.
Articolo 4. Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di
servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto
qualsiasi forma.
Articolo 5. Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a
trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti.
Se però osserviamo le condizioni in cui si trova oggi il mondo, ci
accorgiamo che essi sono ben lungi dall'essere applicati concretamente.
Nel 2008 si è celebrato il 200° anniversario della abolizione della tratta
degli schiavi in America, ma se leggiamo i rapporti di una associazione
umanitaria e no profit come Free the Slaves, ci rendiamo conto che ci
sono tuttora ridotte in schiavitù più persone che ogni altra epoca.
Nei 400 anni in cui è stata legale, la tratta trans-atlantica degli schiavi ha
spostato più di 12 milioni di africani verso svariate colonie degli Stati
Uniti. Secondo Free the Slaves gli schiavi oggi sono 27 milioni.
La National Underground Railroad Freedom Center ci illustra inoltre il
fatto che oggi 3 moderni schiavi su 4 sono donne e che la metà del totale
è costituita da bambini.
Vari altri milioni di individui sono sottoposti tuttora a diverse forme di
riduzione della libertà, come il lavoro in schiavitù nei paesi del sudest
asiatico.
Il costo degli schiavi oggi, inoltre, è notevolmente calato rispetto a due
secoli fa.
Nel 1850 uno schiavo veniva infatti venduto, nel sud degli Stati Uniti, a
ciò che equivale oggi a 40.000 dollari. E in base alle stime di Free the
Slaves, il costo di uno schiavo attuale si aggira sui 90 dollari, in base al
lavoro che deve svolgere.
Un giovane maschio adulto in Mali viene venduto per 40 dollari e il
prezzo di una donna non sieropositiva può arrivare anche 1000 $,
quando indirizzata nel mercato internazionale della prostituzione.
Un esperto: Kevin Bales sostiene che proprio il basso costo della nuova
tratta degli schiavi è destinato a renderla peggiore di quella antica. Gli
esseri umani dei paesi poveri sono infatti, nell'economia capitalistica
globalizzata, considerati essenzialmente come merci di basso costo e le
loro condizioni sono quindi enormemente peggiorate.
Persino negli Stati Uniti la schiavitù non è affatto terminata, è la stessa
CIA, il servizio segreto più efficiente al mondo, a rilevare che ogni anno
vengono “importati” negli Stati Uniti fino a 17.500 moderni schiavi.
Attualmente oltre 50.000 individui sono impiegati nella prostituzione,
nel lavoro in fattoria o come servitù domestica. Stando ai dati di tale
servizio di intelligence, oltre 1.000.000 di persone si trova oggi in
condizione di schiavitù negli USA.
La forma di schiavitù attualmente più diffusa nel mondo è rappresentata
dal lavoro forzato che si verifica quando un individuo deve lavorare
forzatamente per ripagare il suo debito. Così, sovente capita che molte
donne africane o dell'Europa orientale si indebitano con una
organizzazione criminale anche per arrivare nel nostro paese ed i
criminali le costringono poi a prostituirsi per ripagare il “debito”
contratto, a tempo indeterminato.
In Brasile vi sono tuttora persone costrette al lavoro forzato che vengono
scortate da guardie armate, assoldate per tale scopo, da gruppi potenti di
criminali.
Sono tuttora circa 20 milioni coloro che sono oggi costretti nel mondo a
lavorare forzatamente.
Le Nazioni Unite stimano che i profitti derivanti dal traffico di esseri
umani si attestano attualmente sui 7 miliardi di dollari all’anno.
Eppure si calcola che per liberare definitivamente il mondo dalla
schiavitù basterebbe appena la somma di 40 dollari a famiglia, secondo
il Center for Global Education di New York una cifra che globalmente
equivale al budget di una settimana di guerra in Iraq.
Purtroppo anche molti prodotti che entrano quotidianamente nelle
nostre case sono il frutto di un lavoro condotto in condizioni di schiavitù,
come, ad esempio cioccolata e cacao, cotone, acciaio, tappeti e tessuti
orientali, diamanti e seta. Solo il marchio “Fair Trade” assicura che un
prodotto non sia il risultato di tale sfruttamento e la sua diffusione
andrebbe quindi incrementata.
E' quindi anche responsabilità di ciascuno di noi controllare che le
attività economiche da cui deriva la vasta gamma di beni di consumo che
utilizziamo tutti i giorni, non provenga dallo sfruttamento di persone di
vario genere ed in particolare dalla schiavitù dei bambini.
La schiavitù, come ogni fenomeno umano, può essere debellata, se
sconfiggeremo il perverso sistema economico e politico in cui essa
prolifera, in particolare se sapremo liberare dalla schiavitù del debito
monetario i vari stati più poveri del mondo che sono tuttora asserviti a
quelli più ricchi in cui vive la minoranza privilegiata delle persone di
questo unico pianeta in cui tutti siamo destinati a vivere.
Purtroppo i recenti segnali di un'economia che procede tuttora a senso
unico neoliberista globalizzato, vanno in direzione opposta e persino
Stati fino a qualche tempo fa inclusi nell'alveo dell'emisfero di quelli più
ricchi, stanno lentamente scivolando, a causa dei loro debiti, in
condizioni di maggiore dipendenza, povertà e riduzione delle risorse per
i servizi pubblici, tra questi, anche l'Italia, recentemente, ha subito un
notevole regresso sociale ed economico che ha generato nuove forme di
dipendenza e di schiavitù anche nel mondo minorile, in particolare tra i
numerosi immigrati provenienti da varie parti del mondo ed immessi
clandestinamente nel nostro paese.
La condizione stessa della società dei consumi è tale da generare forme
sempre più consistenti e sofisticate di schiavitù e di dipendenza,
pensiamo all'uso delle droghe, all'alcoolismo, al gioco d'azzardo e, negli
ultimi tempi, anche alla dipendenza mediatica, con l'uso continuo di
apparecchi telematici ed una continua connessione nella rete Internet.
Nella società dei consumi attuale esiste non solo colui che è
materialmente povero, ma anche una massa sterminata di persone
spiritualmente misere, facilmente manipolabili da coloro che hanno il
monopolio della gestione dei mass media e che li usano per costruire
consenso per il potere politico ed economico che essi vogliono esercitare
sui popoli ridotti in gran parte al ruolo di consumatori passivi.
Lo schiavo moderno non è solo condizionato dai ritmi della produzione,
del lavoro e dell'accumulazione di profitto, ma, dato che il sistema di
produzione tende ad organizzate tutti i settori ed i momenti della sua
vita, egli, in veste di lavoratore-consumatore, si viene a trovare nella
condizione di colui che è dominato inconsapevolmente. Trascorre così
vanamente il proprio tempo in distrazioni, divertimenti e vacanze
organizzate e gestite sempre da altri e su cui egli non agisce in altra
forma che come spettatore passivo pagante. Tutti i momenti della sua
vita, di fatto, sono inquadrati in un sistema che resta alieno rispetto alle
sue capacità attive di analisi, di critica e di cambiamento. E la
conseguenza è che la totalità della sua vita risulta completamente
sequestrata. Ed egli si ritrova ad essere, sostanzialmente, uno schiavo a
tempo pieno.
Solo una adeguata diffusione della cultura e della formazione di una
forte coscienza basata sul rispetto della legalità, sulla responsabilità e
sull'impegno civile, potrà invertire una tendenza rovinosa che mina le
basi stesse della convivenza umana e logora il tessuto morale e sociale
della società del XXI secolo, portando l'umanità, con il rischio di
devastazioni ambientali su larga scala e con guerre mediante l'utilizzo di
armi di sterminio di massa, sull'orlo dell'autodistruzione.
Purtroppo i segnali che osserviamo provenire dal mondo odierno non
sono incoraggianti, ciò nonostante, è nostro preciso dovere resistere e
diffondere una cultura della consapevolezza, della giustizia, della
solidarietà e del risveglio affinché ciascuno di noi sia concretamente
artefice non solo del proprio destino, ma anche di quello di tutti coloro
che, in un mondo sempre più a corto di risorse e sempre più affollato,
hanno la necessità vitale di incontrarsi e di vivere liberamente gli uni
accanto agli altri.
La consapevolezza di un dramma è anche la luce che illumina la via
d'uscita da esso, con questo flash sulla condizione dello schiavo nel
mondo contemporaneo, espresso efficacemente in una poesia di
Panagoulis, un uomo che fu impegnato politicamente e lottò per liberare
la Grecia da una dittatura militare, concludiamo questa breve rassegna
con la coscienza di dovere allo stesso tempo, conoscere, sperare e lottare,
affinché il progresso non sia solo una parola vana.
Il progresso
C’erano schiavi un tempo
Oggetti di carne
Animali con due piedi
che nascevano e morivano
servendo bestie con due piedi
c’erano schiavi un tempo
che in vita
li teneva la speranza
della Libertà
Anni e anni sono passati
e adesso
quegli schiavi non esistono più
Ma è nato
un nuovo genere di schiavi
Schiavi pagati
Schiavi saziati
Schiavi che ridono
Schiavi che vogliono
Rimanere schiavi
Questo è il Progresso!
Leonardo Felici
Roma, Maturità Classica 2012