In
questi ultimi tempi, nei quali la Lega dei Socialisti sta cercando –
non senza qualche difficoltà - di definire la sua identità politica ed
il suo ruolo strategico per l’avvenire, sento molti compagni esprimere
delle riflessioni inquiete che investono alcuni concetti-chiave
dell’agire politico.
Ma siamo diventati un soggetto della “sinistra radicale” o vogliamo puntare ad essere “sinistra di governo”?
Che ci facciamo con le nostre insegne alla manifestazione del NO MONTI DAY del 27 ottobre?
Ma non è che ci stiamo trasformando in un luogo di “gruppettari” e
che ci stiamo “isolando” dagli altri soggetti della sinistra (PD, SEL,
ecc.)?
La risposta a simili interrogativi richiede un esame che vada alla
radice semantica delle parole, intese nel loro corretto significato.
Che vuol dire oggi essere “socialisti”?
Che significa essere “sinistra di governo”?
Rispetto a chi ed a che cosa occorre evitare di “isolarsi”?
Un detto antico recita: HISTORIA MAGISTRA VITAE.
Basterebbe studiare a fondo la storia del socialismo italiano sin
dalle sue origini per trovare una bussola che permetta di dare risposte
credibili ad interrogativi importanti come quelli a cui si è fatto cenno
sopra.
Una prima cosa decisiva da capire è che, se la costruzione di una
nuova società giusta costituisce (o dovrebbe costituire) da sempre
l’orizzonte strategico di tutti i socialisti (ossia il famoso “sol
dell’avvenire” a cui alludeva Giuseppe Garibaldi in una celebre lettera
all’amico Celso Ceretti), la tattica del breve-medio periodo che i
socialisti hanno perseguito nel corso della loro storia è sempre mutata,
risentendo inevitabilmente del preciso momento storico in cui essi si
sono concretamente trovati ad operare.
Come ho ricordato nel corso del mio intervento all’assemblea romana
della Lega dei Socialisti del 14 ottobre scorso, quando i pionieri del
socialismo italiano (tra gli altri, Andrea Costa, Filippo Turati e
Antonio Labriola) misero mano alla fondazione del socialismo italiano,
il primo obiettivo che essi si posero davanti non fu
quello di conquistare il potere mediante la partecipazione alla
competizione elettorale interna alle istituzioni dello Stato liberale
ottocentesco; né per loro ebbe ad acquisire un valore affatto decisivo
il rapportarsi con il tradizionale quadro politico che, all’epoca
dell’Italia post-unitaria, occupava la scena, allora dominata dal
confronto tra Destra e Sinistra storica.
Al contrario, per i pionieri del socialismo italiano, l’obiettivo
prioritario in quella precisa fase storica fu quello di costruire una
chiara e netta identità politica, mediante l’adattamento al contesto
nazionale delle idee del socialismo scientifico loro consegnate da Marx
ed Engels.
E quelle nuove idee erano talmente forti e dirompenti che essi
compresero benissimo che la loro efficace diffusione tra i lavoratori
italiani non sarebbe potuta mai avvenire se i socialisti non si fossero
presentati come qualcosa di nettamente distinto e di diverso rispetto a tutto il panorama che fino a quel momento aveva occupato lo scenario politico dello Stato liberale.
Per comprendere a fondo la questione in parola, è emblematico
analizzare la fase embrionale delle più significative esperienze
organizzative del socialismo italiano (anteriori alla fondazione del PSI
a Genova nel 1892).
Ad esempio, Andrea Costa, dopo avere in un primo
momento diffuso idee anarchiche sul solco della Prima Internazionale dei
Lavoratori, si decise a costituire il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna:
tale soggetto politico per diverso tempo si mosse unicamente nelle
campagne e nei borghi della Romagna, organizzando una fitta rete di
leghe, cooperative e associazioni solidaristiche (prototipo degli
odierni sindacati), il cui spirito unitario fu cementato dai fogli della
propaganda socialista, che plasmavano una nuova coscienza di classe
nelle genti che da tempo immemore erano state solamente abituate ad
obbedire a soggetti che al giorno d’oggi definiremmo come “poteri
forti”.
Anche l’azione politica di un altro pioniere del socialismo italiano, Camillo Prampolini,
originario di Reggio Emilia, fu avviata in un primo momento solo sul
terreno squisitamente sociale e non certo su quello
politico-istituzionale (il socialista reggiano è passato alla storia
principalmente quale antesignano del movimento cooperativo emiliano e
nazionale).
L’insegnamento che deve essere tratto dalla rilettura di queste
vicende storiche è che il socialismo italiano giunse a rivestire un
ruolo politico incisivo all’interno delle istituzioni parlamentari soltanto dopo anni di lenta incubazione delle proprie idee all’interno della società e
dopo che i primi socialisti ebbero a discutere a lungo tra di loro
sulla stessa opportunità di partecipare alle competizioni elettorali,
cosa che molti di loro – a cominciare proprio da Andrea Costa e da
Antonio Labriola (il cui contributo di pensiero per la fondazione del
PSI fu assai importante) – non davano affatto per scontata!
Soltanto dopo avere organizzato efficacemente le
classi lavoratrici all’interno della società italiana, partendo dalle
campagne e dalle officine, i primi socialisti poterono fare eleggere
Andrea Costa alla Camera dei Deputati, in una posizione di assoluta
indipendenza ed autonomia dalla “Sinistra” storica di Agostino De Pretis
- cosa che gli consentì, tra le altre cose, di condannare
autorevolmente il nascente imperialismo coloniale inaugurato dal Governo
Crispi con la spedizione di Adua del 1896 - ma assumendo al contempo
una grande incisività e azione politica autonoma presso le classi
lavoratrici italiane.
E fu soltanto al passaggio del secolo, e cioè dopo
che i socialisti si erano messi a capo di vasti moti popolari
para-insurrezionali tra il 1893 (Fasci siciliani) e il 1898 (i moti del
pane di Milano), e dopo che Filippo Turati ebbe provato perfino a
respirare l’aria delle patrie galere, che i socialisti poterono
contribuire a sbloccare il sistema politico bipolare e classista
dell’età liberale e trovarono per la prima volta uno sbocco
partecipativo al governo Giolitti-Zanardelli e, in tale quadro politico
inedito, fecero approvare le prime radicali riforme del sistema sociale e
del lavoro.
Ponendoci una domanda paradossale, cosa sarebbe accaduto se il PSI,
sin dalla sua fondazione, avesse puntato da subito ad andare al Governo
del Paese se prima non si fosse forgiato in anni ed anni di generose
lotte dal basso, grazie alle quali conquistò la fiducia di milioni di
lavoratori italiani, condotti per la prima volta ad assumere un ruolo di
soggettività politica nel Paese?
E comunque la si pensi sul senso della collaborazione turatiana ai
governi dell’età giolittiana, resta chiaro un concetto: la
partecipazione dei socialisti italiani a quelle esperienze di Governo
restò sempre legata a precisi punti qualificanti dell’azione governativa
e portò all’approvazione di riforme vere (tra cui la
prima forma di tutela del lavoro femminile e minorile), che migliorarono
non di poco le condizioni materiali delle plebi italiane.
E dunque, se per i socialisti, a prescindere dal mutare delle
condizioni storiche, la bussola dell’agire politico deve restare sempre
l’obiettivo di trasformare la società e favorire l’elevazione sociale e
culturale delle classi lavoratrici, si comprende bene che la loro
partecipazione al Governo del Paese ed alla vita delle istituzioni non
può rappresentare un fine in sé e per sé dell’attività politica ma può
tutt’al più costituire un mero strumento di lotta politica, praticabile
in alcuni contesti storici ma non certo in tutte le fasi.
Anche i socialisti di seconda generazione, come Pietro Nenni,
dovettero vivere una prima lunga fase di battaglie nella società, in
momenti storici in cui era diventato necessario fare perfino le
barricate in piazza per poter conquistare un minimo di agibilità
politica (come Nenni fece, giovanissimo, nella sua Faenza), prima di
potere arrivare a porsi la concreta possibilità di entrare nella “stanza
dei bottoni”, cosa che lo stesso Nenni accettò di fare solo nel 1963
con la nascita del primo governo di centro-sinistra dell’età
repubblicana[1].
Pertanto, se per i socialisti la conquista del governo nelle istituzioni non può che costituire soltanto un mezzo
per trasformare la società (nel senso, ovviamente, di favorire un
miglioramento delle condizioni sociali e materiali delle classi
lavoratrici) e non può essere un fine immanente dell’agire politico,
allora si comprende quanto sia riduttivo e fuorviante – per tornare ai
giorni nostri – ragionare in termini in cui molti compagni sono oggi
soliti ragionare: “Ma ci alleiamo o no con S.E.L.”?; “Ma siamo o no
sinistra di governo”?; “Ma vogliamo consegnare il Paese alla Destra?” e
così via dicendo.
Quel che prima di tutto occorre capire è la particolare congiuntura
storica in cui ci troviamo oggi a vivere e ad operare, in Italia come in
Europa.
Siamo all’interno della più grave crisi che il capitalismo
occidentale abbia mai affrontato da prima della seconda guerra mondiale
ad oggi.
In questa fase, dovrebbe risultare evidente a chiunque abbia spirito
libero e non sia condizionato da “secondi fini” di carattere
opportunistico, che le forze del capitalismo finanziario stanno portando
a compimento un lungo programma di “lotta di classe”, messo in atto da
almeno un ventennio a questa parte.
Tale programma mira essenzialmente a due obiettivi: realizzare
un colossale spostamento di ricchezze dai ceti medio-bassi a quelli
alti della nostra piramide sociale e, in secondo luogo, attuare una
ristrutturazione oligarchica della nostra società, con una progressiva e
inarrestabile azione di svuotamento di tutti i poteri delle istituzioni
democratiche e con un progressivo azzeramento della sovranità popolare.
Tutto ciò avviene in un contesto di istituzioni sovra-nazionali (l’Unione Europea dei Trattati di Maastricht e di Lisbona) che non consente ai Parlamenti nazionali di adottare alcun tipo di politica redistributiva e di rilancio dell’occupazione.
E quel che è più grave è che nel nostro panorama politico nazionale,
il quadro realistico sopra descritto (di sostanziale “sabotaggio” della
democrazia rappresentativa) viene sottaciuto da tutte le principali
forze politiche della “Sinistra” italiana, da quelle più imponenti, come
il P.D. (che di popolare non ha più nulla ma che è anzi il primo referente delle oligarchie oggi al comando,
come dimostrano le amicizie non nascoste del “rottamatore” Renzi) a
quelle minori, come S.E.L. e il piccolo P.S.I. di Nencini le quali – in
buona o cattiva fede, sarà la storia a rivelarcelo – non muovono di
fatto alcuna critica pregnante verso i principi fondativi dell’Unione
Europea ultra-liberista di Maastricht e di Lisbona, accettando così di
risultare del tutto subordinati alle relative logiche.
E a tutto ciò si aggiunga che ormai una buona metà dell’elettorato
italiano – soprattutto quello afferente alle classi popolari ed ai ceti
medi – sembra ormai avere bene compreso la natura sostanzialmente
omogenea dei due principali schieramenti del circo politico-mediatico
nazionale (centro-sinistra e centro-destra) di fronte a tutti i punti
nodali dell’economia e della società, a partire dalla conclamata
incapacità di entrambe le coalizioni di dare una risposta seria al
bisogno di lavoro, casa e diritti promanante da milioni di cittadini in
estrema difficoltà, che vedono di giorno in giorno peggiorare le proprie
condizioni di vita.
E allora, se il quadro è quello appena descritto, ragionando in
un’ottica storica ma guardando all’autunno del 2012, coloro i quali
intendono assumere su di sé l’onerosissimo incarico di ricostruire una
cultura del socialismo italiano, rispetto a quali soggettività devono
preoccuparsi di non “isolarsi”?
Diventa più essenziale, per loro, intavolare oggi trattative con
Bersani, Renzi o Vendola oppure interagire con milioni di lavoratori
italiani che, non solo non sanno che farsene delle primarie interne al
centro-sinistra ma che non hanno alcuna intenzione nemmeno di andare a
votare alle prossime elezioni politiche, di cui percepiscono fin da ora
la sostanziale inutilità?
E’ più importante oggi per i socialisti essere presenti alle primarie
del centro-sinistra (ossia partecipare ad un gioco farsesco in cui si
sa fin da ora quale futuro reciproco ruolo toccherà a ciascuna di esse) o
è più importante porsi alla guida dei movimenti sociali di lavoratori
ventenni e trentenni disoccupati o precari che rischiano di non avere
più nella loro vita un lavoro stabile, una casa di proprietà e una
posizione pensionistica?
E’ da “gruppettari” partecipare al NO MONTI DAY il prossimo 27
ottobre, vale a dire ad una delle pochissime situazioni in cui ai veri
socialisti può toccare il compito che nella loro storia essi hanno
spesso saputo assumere, cioè quello di porsi alla guida dei movimenti,
per offrire loro uno sbocco politico realistico ed adeguato ai tempi?
Al giorno d’oggi è “anti-politico” appassionarsi agli squallidi talk-show tra Renzi e Bersani o provare a ridare una rappresentanza politica a milioni di persone che se ne sentono prive?
E può essere mai così decisivo per i socialisti, nel contesto
odierno, porsi come obiettivo tattico prioritario quello di come
raggiungere nel modo più facile l’occupazione di scranni parlamentari
dal cui conseguimento potrà ricavarsi, nella migliore delle ipotesi,
soltanto il ruolo di passacarte e di ratificatori di un impianto
legislativo ultra-liberista che, ormai da un ventennio, viene concepito
non più a Montecitorio ma nei freddi uffici della B.C.E. e della
Commissione Europea?
Quale margine di visibilità atta a rilanciare la loro gloriosa storia
potrebbero mai ricavarsi, al giorno d’oggi, i socialisti, all’interno
di uno schieramento di centro-sinistra “di governo” il cui programma
appare già cristallizzato sulla carta e non è passibile di alcuna
sostanziosa modifica che metta in discussione quanto meno il fiscal compact e lo scellerato principio del pareggio di bilancio inserito addirittura nella nostra carta costituzionale?
Quali “riforme” migliorative delle condizioni delle classi
lavoratrici italiane potrebbero mai ottenere i socialisti dalla
partecipazione ad un futuro Governo di “centro-sinistra” quando è da 20
anni che i ceti medio-bassi italiani al solo sentire nominare la parola
“riforma” hanno solo da tremare?
E allora, se siamo onesti fino in fondo, dobbiamo rispondere nel modo
seguente al più importante dei quesiti amletici da cui ha mosso i suoi
passi il presente scritto.
Se la Lega dei Socialisti si sta trasformando in una banda di
“gruppettari”, come insinuato da diversi compagni scettici rispetto alla
linea decisa a maggioranza all’assemblea del 14 ottobre, vuol dire che
anche Andrea Costa, Filippo Turati, Antonio Labriola e Camillo
Prampolini erano dei “gruppettari” ante litteram.
21 ottobre 2012.
Giuseppe Angiuli
[1] E non si dimentichi che il PSI di Nenni, prima di imbarcarsi
nella sua prima esperienza al Governo del paese, ottenne delle
importanti rassicurazioni dalla D.C., che poi trovarono effettiva
attuazione, tra le quali la nazionalizzazione dell’ENEL, la riforma
agraria e la riforma scolastica curata da Tristano Codignola.
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