Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

domenica 30 giugno 2013

Moltitudini per le strade: come interpretare?

         
                                 

                                               di Leonardo Boff

Uno spirito di insurrezione di masse umane sta spazzando il mondo intero. Occupano l’unico spazio loro rimasto: vie e piazze. Il movimento è soltanto agli inizi: prima nel Nordafrica, dopo in Spagna con gli «indignados», in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America con gli «occupies», e in Brasile con la gioventù e altri movimenti sociali. Nessuno fa riferimento alle classiche bandiere del socialismo, delle sinistre, di un qualche partito liberatore o della rivoluzione. Adesso ci sono temi legati alla vita concreta del cittadino: democrazia partecipativa, lavoro per tutti, diritti umani personali e sociali, presenza attiva delle donne, trasparenza nella cosa pubblica, chiaro rifiuto di qualsiasi tipo di corruzione, un nuovo mondo possibile e necessario. Nessuno si sente rappresentato dai poteri costituiti che hanno generato un mondo politico di palazzo, che lascia il popolo alle spalle o manipola direttamente i cittadini.
Rappresenta una sfida per qualsiasi analista l’interpretazione di questo fenomeno. Non è sufficiente la ragion pura; ci deve essere una ragione olistica che incorpora altre forme di intelligenza, dati arazionali, emozionali e archetipici e emergenze proprie del processo storico e perfino della cosmogenesi. Soltanto in questo modo avremo un quadro più o meno capiente che faccia giustizia alla singolarità del fenomeno.
Prima di tutto, è importante riconoscere che è il primo grande evento frutto di una nuova fase di comunicazione umana, questa totalmente aperta a una democrazia zero gradi, che si esprime attraverso le reti sociali. Ogni cittadino può uscire dall’anonimato, dire la sua, trovare i suoi interlocutori, organizzare gruppi e incontri, formulare un programma e uscire in strada. Improvvisamente, si formano reti di reti che movimentano migliaia di persone al di là dei limiti spaziotemporali. Questo fenomeno ha bisogno di essere analizzato accuratamente perché può rappresentare un salto di civiltà che definirà la nuova direzione della storia, non solo di un paese ma di tutta l’umanità.
Le manifestazioni in Brasile hanno provocato manifestazioni di solidarietà in decine e decine di altre città del mondo, specialmente in Europa. Improvvisamente il Brasile non è più solo dei brasiliani. È una porzione di umanità che si identifica come specie, nella stessa Casa Comune, intorno a cause collettive e universali.
Perché tali movimenti di massa hanno fatto irruzione in Brasile adesso? Molte sono le ragioni. Mi soffermo su una soltanto. Tornerò sulle altre in altra occasione.
Il mio modo di sentire il mondo mi dice che, in primo luogo, si tratta di un effetto di saturazione: il popolo è saturo del tipo di politica praticata in Brasile, anche quella dei vertici del PT, (salvo le politiche municipali del PT che ancora conservano l’antico fervore popolare). Il popolo ha beneficiato di programmi della “Bolsa Familia” , della “luce per tutti”, di “casa mia vita mia”, del “credito consignado”; è  entrato nella società dei consumi. E allora, che? Dice bene il poeta cubano Ricardo Retamar: «L’essere umano possiede due tipi di fame: una di pane, saziabile; l’altra di bellezza, insaziabile». Si scrive bellezza, ma si legge educazione, cultura, riconoscimento della dignità umana e dei diritti personali e sociali, salute con qualità minima, e mezzi di locomozione meno disumani.
 La seconda fame non è stata soddisfatta adeguatamente dal potere politico e nemmeno dal PT o da altri partiti. Chi ha soddisfatto la sua fame vuole che anche gli altri tipi di fame siano presi in considerazione; non in ultima istanza, la fame di cultura e di partecipazione. Rivolta la coscienza delle profonde diseguaglianze sociali, una grande piaga della società brasiliana. Questo fenomeno diventa sempre più intollerabile a misura che cresce la coscienza della cittadinanza e della democrazia reale. Una democrazia in società profondamente diseguali come la nostra, è meramente formale, praticata soltanto nell’atto di votare (che in fondo è il potere scegliere il proprio «dittatore» ogni quattro anni, perché il candidato una volta eletto, volta le spalle al popolo, in pratica la politica di palazzo dei partiti). Essa si mostra come una farsa collettiva. Questa farsa la stanno smascherando. Le masse vogliono essere presenti nelle decisioni dei grandi progetti di loro interesse,  mentre ora non sono consultate per nulla. Non parliamo degli indigeni le cui terre sono sequestrate per l’agroindustria, o per l’industria che produce energia elettrica.
Questo fatto delle moltitudini per le strade riporta alla mente l’opera teatrale di Chico Buarque de Hollanda e di Paulo Pontes  scritta nel 1975: «La goccia d’acqua». Abbiamo raggiunto adesso la goccia d’acqua che fa traboccare il vaso. Gli autori in qualche modo intuirono l’attuale fenomeno quando dicevano nella prefazione al testo presentato come un libro: “fondamentale è che la vita brasiliana possa nuovamente essere restituita nei palchi al pubblico brasiliano… La nostra tragedia è una tragedia di vita brasiliana». Ora questa tragedia viene denunciata dalle masse che gridano per le strade. Questo Brasile che abbiamo non è un Brasile per noi. Questo non ci include nel patto sociale che sempre garantisce la parte del leone alle elite. Vogliono un Brasile brasiliano dove il popolo conta e vuole contribuire per una rifondazione del paese, su altre basi più democratico-partecipative, più etiche e con forme meno malvage di relazione sociale.
Non possiamo permettere che questo grido passi senza essere ascoltato interpretato e seguito. La politica potrà essere “altra” da qui in avanti.


Traduzione di Romano Baraglia - 

giovedì 27 giugno 2013

L’arte di curare i malati

                                     


                                                  di Leonardo Boff

Negli ultimi anni ho lavorato in forma approfondita alla categoria della cura, specie nei libri Saber Cuidar e in Cuidado Necessário (Vozes). La cura più che una tecnica o una virtù tra le altre, rappresenta un’arte, un paradigma nuovo di relazione verso la natura e verso le relazioni umane, amoroso, diligente e partecipativo. Ho preso parte a molti incontri e congressi di operatori della sanità con i quali ho potuto dialogare e da loro imparare: la cura è l’etica naturale di questa attività così sacra.
Riprendo qui alcune idee collegate ad atteggiamenti che devono star presenti in chi ha cura d’infermi, sia in casa che in ospedale. Vediamone alcuni tra gli altri.

Compassione: la capacità di mettersi al posto dell’altro e provare le stesse emozioni. Non trasmettergli l’impressione che sta solo e abbandonato al suo dolore.

Toccare, come essenza della carezza: toccare l’altro è restituirgli la certezza che appartiene alla nostra umanità. Il tocco-carezza è una manifestazione di amore. Molte volte, la malattia è segno che il paziente vuole comunicare, parlare ed essere ascoltato. Vuole arrivare a identificare un senso nella malattia. L’infermiere o l’infermiera, il dottore o la dottoressa possono aiutarlo ad aprirsi e a parlare. Un’infermiera è testimone che «quando ti tocco, io ho cura di te; quando mi prendo cura di te, ti tocco; se sei una persona anziana ho cura di te quando sei stanco; ti tocco quando ti abbraccio; ti tocco se stai piangendo;  mi prendo cura di te, quando non hai più la forza di camminare».

Assistenza intelligente: il paziente ha bisogno di aiuto e l’infermiera o l’infermiere vuole prestare aiuto. La convergenza di questi due movimenti genera la reciprocità e il superamento del sentimento presente in una relazione diseguale. L’assistenza deve essere giudiziosa: tutto quello che il paziente può fare, incentivare a farlo e assisterlo soltanto quando ormai non può più fare da da solo.

Ridargli fiducia nella vita: ciò che il paziente desidera di più è ricuperare la salute. E allora appare decisivo restituirgli fiducia nella vita; nelle sue energie interiori, fisiche, psichiche e spirituali, perché esse attuano come una vera medicina. Incentivare i gesti simbolici, carichi di affetto. Non raramente i disegni che una bambina porta al padre malato, suscitano in lui tanta energia e commozione che equivale a un cocktail di vitamine.

Fargli accettare la condizione umana. Normalmente il paziente si interroga perplesso: «Perché tutto questo è capitato a me, esattamente adesso che tutto nella vita stava andando per il verso giusto? Perché, quand’ero giovane, mi sono ammalato di una malattia grave»? Tali domande rimandano a una riflessione umile sulla condizione umana, a qualsiasi momento, esposta a rischi a vulnerabilità insperate. Chi è sano sempre può diventare malato. E tutte le malattie rimandano alla salute che è il maggiore valore di riferimento. Ma non riusciamo a saltare sulla nostra ombra e non c’è nient’altro da fare che accogliere la vita così com’è: sana e malata, riuscita o andata a monte, ardente di vita e con disposizione ad accettare eventuali malattie e al limite la stessa morte. E’ in questi momenti che i pazienti fanno profonde revisioni della vita. Non si accontentano soltanto di spiegazioni scientifiche (sempre necessarie), date dal corpo medico ma desiderano dare un senso che sorge a partire di un dialogo profondo con il suo sé o dalla parola saggia di un parente, di un sacerdote, di un pastore di una persona spirituale. Riscattano allora, valori quotidiani che prima nemmeno percepivano, ridefiniscono il loro disegno di vita e maturano. Finiscono per avere pace.

Accompagnarli nella grande traversata. C’è un momento inevitabile in cui anche la persona più vecchia del mondo e noi tutti dobbiamo morire. E’ la legge della vita, soggetta alla morte: una traversata decisiva. Essa deve essere preparata per tutta una vita guidata da valori morali generosi responsabili e benefici. Ma per la gran maggioranza, la morte è sentita come un assalto o un sequestro generando così sentimenti di impotenza. E allora si rende conto che, finalmente, deve abbandonarsi.  

La presenza discreta, rispettosa dell’infermiera o dell’infermiere o di un parente prossimo o di un’amica che gli prende la mano, sussurrandogli parole di conforto e di coraggio, lo invitano ad andare incontro alla luce e al seno di Dio che è padre e madre di bontà e possono fare sì che il moribondo esca dalla vita sereno, ringraziando per l’esistenza che ha ricevuto. Sussurrargli all’orecchio, se possiede un referente religioso, le parole consolatrici di Giovanni: “se il tuo cuore ti accusa, sappi che Dio è più grande del tuo cuore (1ªGv 3,20)”. Può abbandonarsi tranquillamente a Dio, il cui cuore è di puro amore e misericordia. Morire è cadere nelle braccia di Dio.

Qui la cura si rivela molto più come arte che come tecnica e suppone nell’operatore sanitario densità di vita, sentiré spirituale e uno sguardo che va oltre la morte.

Raggiungere questo stadio è una missione che l’infermiere o l’infermiera e anche i medici e le dottoresse devono cercare per essere pienamente servitori della vita. Per tutti valgono le parole sagge: «La tragedia della vita non è la morte, ma quello che  lasciamo morire dentro di noi quando viviamo».

Traduzione di Romano Baraglia – romanobaraglia@gmail.com

sabato 22 giugno 2013

In lotta contro la barbarie del nulla



La crisi in Italia sta completamente ridisegnando gli assetti politici e il quadro di riferimento dell'elettorato.
Una intera classe politica, pur perdente, non si sta affatto rassegnando a dover cambiare profondamente se stessa ed il proprio modo di rapportasi con i cittadini, prova né è il fatto che non ha alcuna intenzione di restituire la sovranità elettorale al popolo, cambiando una legge “porcata” che tutti sanno essere un colpo mortale alla democrazia, prova ne sono i numerosi provvedimenti che non incidono affatto nel tessuto sociale e mantengono sostanzialmente inalterato un regime di privilegi che appare tuttora inossidabile.
Nessuna iniziativa sostanziale per i disoccupati, nessuna per le famiglie povere che oltre allo sfratto rischiano anche il sequestro dei loro figli, niente di sostanziale per ridurre la pressione fiscale e rilanciare la produttività, nulla che rilanci il ruolo della scuola pubblica, niente contro il conflitto di interessi e tanto meno nulla di veramente incisivo contro la corruzione, non parliamo poi di ridurre lo stipendio dei parlamentari e dei dirigenti pubblici, un nulla che più nulla non si può, nemmeno con il nichilismo più spinto.
Se tutto questo accade è perché, evidentemente, ciò che moltissimi elettori hanno percepito come una realtà concretamente innovativa e quasi rivoluzionaria, il movimento di Grillo, ha aggiunto ad un nulla sostanziale anche un altro nulla virtuale e parlamentare. Abbiamo un nulla al quadrato?
Purtroppo no, ne abbiamo uno al cubo, se aggiungiamo a questi nulla anche il nulla di un popolo che, unico in Europa e nel Mediterraneo, ancora non riesce non dico a sollevarsi e ad insorgere, ma almeno a risvegliarsi da un demenziale torpore, l'unico serio fattore di rivolta organizzata si è avuto in Val di Susa, dove, nonostante le strumentalizzazioni dei media asserviti ad un regime fallimentare, una intera popolazione continua a lottare con tutti i mezzi che ha, rischiando: galera, botte e repressioni di ogni tipo. Eppur si muove..direbbe qualcuno, ma può bastare? Evidentemente no, qui pare che la terra stessa abbia sussulti maggiori degli italiani..purtroppo, con ciò che ne deriva.
C'è evidentemente chi teme anche nella cosiddetta sinistra una sorta di insurrezionalismo fine a se stesso, non pilotato, non guidato ed afferma che solo una forza orientata verso la socialdemocrazia e tale da mettere in atto provvedimenti analoghi a quelli presi dopo la crisi del '29, potrebbe ridurre il rischio di una rivolta su larga scala che potrebbe essere pilotata da gruppi populisti o di destra.
Ora, a parte il fatto che la crisi del '29 non fu certo stoppata dalla democrazia e tanto meno dal new deal, ma da una catastrofica guerra mondiale e che tale scenario non è del tutto remoto in queste circostanze odierne, anche se ovviamente, tutti noi cerchiamo di scongiurarlo, oggi, c'è qualcosa di profondamente nuovo rispetto al passato: una rivoluzione nelle strutture di comunicazione che è già avvenuta e si sta strutturando come permanente, e globale. Essa rappresenta un enorme salto di qualità rispetto al passato nel raggiungimento di una coscienza critica non eterodiretta, da parte del singolo cittadino. Però non in tutti i casi essa, da sola, può costituire un serio terreno di aggregazione e di mobilitazione per cambiare radicalmente uno stato di cose.
Il recente connubbio parlamentare tra forze che fino a poco tempo fa si facevano l'occhiolino, giocando ogni tanto ad insultarsi, salvo poi votare spesso e volentieri provvedimenti cruciali insieme: il PD e il PdL, ha definitivamente scardinato le categorie già ampiamente scricchiolanti di “destra e sinistra” e solo un gonzo della politica, un illusionista fallito o un “capetto” in cerca di vecchie truppe cammellate può ancora usarle.
Ma guardiamole queste riunioni di partito, questi congressi, queste assemblee associative che sembrano uscite da un circolo di bocciofili di una casa di riposo, dove si continua a dire come si potrebbe, come ci si dovrebbe agganciare a questo o a quel vecchio rottame della politica per restare ancora a galla, guardiamoli poi questi “capetti”, quelli che vorrebbero, in queste circostanze, apparire come i maghi della strategia politica dell'ultimo corso, candidarsi e scavare profondamente nell'acqua!
Oggi, non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo la dicotomia destra-sinistra non dice più assolutamente nulla e quindi addirittura chiamare di destra o di sinistra un soggetto politico, vuol dire prendere in giro se stessi, prima ancora che l'elettorato.
Oggi, la vera discriminante resta quella del XX e del XIX secolo e solo chi vorrebbe che questo XXI secolo annullasse definitivamente il passato, con tutta la sua storia dei conflitti sociali, può presentarsi, a seconda dei casi, come chirichetto, sacerdote, vescovo, cardinale o addirittura papa del nulla, e cioè di quel che lo stesso Gesù definiva Mammona, il dio mercato, il vero Anticristo.
Oggi, l'autentico AUT AUT è ancora tra Socialismo o barbarie, tra una società in cui regnano la libertà e la giustizia sociale, organizzate e governate secondo modelli concretamente e non virtualmente democratici e partecipativi, oppure il caos speculativo, le mille bolle finanziarie, l'usa e getta in cui l'essere umano, per fini di profitto, è ridotto a merce e alla schiavitù salariale.
Questo è l'unico paese d'Europa e uno dei pochi al mondo in cui le colonizzazioni culturali e politiche messe in atto hanno desertificato la cultura socialista, e sebbene essa abbia segnato le tappe più significative del progresso democratico, civile e sociale dell'Italia.
Per rimettere in moto un processo virtuoso di educazione ai valori sociali più significativi ed elevati, bisogna ripartire dalle scuole medie, nemmeno dai licei.
Cosa fare dunque in un momento così difficile e cruciale?
La soluzione concreta non ci appare poi così difficile: non possiamo certo copiare gli altri, specialmente quando abbiamo già dato ampie prove di non saperlo fare. Una aggregazione di più partiti di sinistra è del tutto fallimentare, che la si chiami Syriza oppure “maccheroni al sugo” non importa, essa reca già con sé il virus e il difetto di origine che non può che portarla ad ammalarsi e a morire: “la sinistra” Lo abbiamo visto con la lista “Arcobaleno”, lo abbiamo riscontrato con Sinistra e Libertà, lo abbiamo recentemente osservato con “Rivoluzione civile” e continueremo a farlo con tutte queste toppe messe su un vestito nuovo, tutto questo vino nuovo messo in vecchi otri, alquanto sfondati.
Per costruire una seria alternativa al blocco di potere bipolare che oggi tiene l'Italia sotto una cappa di piombo più pesante di quella degli stessi anni storici “di piombo” e che potrebbe improvvisamente sviluppare una ferocia repressiva, finora messa in atto solo in situazioni sporadiche come a Genova o contro singole persone e gruppi, è necessario costruire un blocco sociale con una seria coscienza delle condizioni delle classi attualmente subalterne, che coinvolga tutti coloro che sono seriamente minacciati dalla crisi, includendo persino quelli che potrebbero essere utilizzati per una repressione su vasta scala.
Per questo il Socialismo che in Italia deve essere destinato a contrastare la barbarie nullificante del capitalismo cainamente speculatore deve essere costruito pazientemente, in primis, su base nazionale, ecologica e patriottica, e coinvolgere conseguentemente tutti coloro che, su tale base, sono pronti ad agire mobilitandosi a tutti i livelli, a partire non solo dalle piazze, ma anche dai loro posti di lavoro, dai presidi dei territori minacciati dalla devastazione ambientale e delle fabbriche dismesse ed occupate, e anche da quelle rimesse in moto con nuovi sistemi autogestiti e cooperativistici
Il Socialismo ecologico e patriottico che può rivoluzionare questo paese non deve essere basato su assetti corporativi, ma organizzato in maniera cooperativistica e fondato sulla autogestione delle risorse produttive. Già molti esempi virtuosi di questo tipo sono sorti e stanno nascendo, persino nel mondo anglosassone, mentre qui si stanno affacciando prepotentemente, non lasciamoli cadere nel nulla.
Questo modello di Socialismo, evidentemente, non può restare avulso dalle realtà socialmente innovative e rivoluzionarie che sono in atto nel mondo, dal Sudamerica all'Europa, e anche in altri paesi del mondo. Si può e si deve costruire una rete di rapporti solidali ed internazionalisti tra forze già in lotta su base nazionale, per costruire Stati più forti, in grado di resistere meglio e di respingere le politiche speculative messe in atto su vasta scala.
Se in Germania vincerà di nuovo la Merkel, e proseguirà con essa la politica del rigore che sta massacrando i popoli, specialmente dell'Europa meridionale, non un singolo Stato dovrà reagire, ma tutta un'area nevralgica dovrà mostrare una adeguata capacità di coordinarsi e combattere le politiche assassine che le vengono imposte.
Non è dunque teorizzabile e tanto meno ipotizzabile una uscita da parte di un singolo Stato europeo dall'euro, perché, in tal modo esso scapperebbe da una servitù: quella verso la Germania, per andare incontro ad un'altra. Verso quella del dollaro e degli USA, e probabilmente proprio a questo mira il paese che ha maggiori  interessi imperialistici nel Mediterraneo e nel Medio Oriente.
Si dovrà piuttosto costruire, anche rimettendo seriamente in discussione quegli accordi economici che hanno procurato a molti popoli solo povertà, disoccupazione e rovina economica, una nuova sinergia monetaria ed economica e sociale tra paesi mediterranei, non solo della sponda nord, ma anche di quella sud di questo mare, da sempre strategicamente cruciale per gli equilibri mondiali.
Il ruolo dell'associazionismo socialista o comunista deve essere oggi quello di costruire un soggetto politico svincolato completamente dall'orbita più o meno instabile di un PD abbarbicato strettamente ad un PdL che è in declino inarrestabile, perché tenuto in piedi ed insieme solo da un leader ormai fortemente compromesso nella sua credibilità.
Sono forze politiche arroccate tra di loro in un abbraccio mortale, proprio perché in regresso, che, anche quando cantano vittoria, come nelle recenti elezioni amministrative, perdono la metà dei consensi, ignorando del tutto l'astensionismo.
La realtà del panorama politico italiano oramai ci dimostra che dal nulla può emergere qualcosa che può strutturarsi velocemente come forza politica, e questo proprio grazie alle nuove possibilità di comunicazione, così come tale soggetto può sprofondare di nuovo nel nulla. E' accaduto con la Lega Nord, con L'Italia dei Valori, potrà accadere con Grillo e persino con il PD o con il PdL che sono e restano espressione di movimenti peculiari di realtà singole, non progetti e partiti di grande respiro europeo o globale. Essi sono piccoli o medi contenitori di interessi comuni, non grandi forze propulsive su scala continentale, agganciate a movimenti della società civile e del tessuto sociale di vari paesi, come in America Latina.
Questo progetto di rinnovamento radicale ha però un grosso ostacolo lungo il suo straordinario ma pur difficile cammino, rappresentato dai capi, capetti e capettini che tuttora fanno la guardia al “bidone” della destra e della sinistra, che hanno fatto carriere e sono ben “mantenuti” per rendere impossibile ogni autentico rinnovamento, in quanto il loro principale obiettivo è rendere ogni movimento o associazione nascente compatibile con il “divide et impera” che è alla base della fittizia strutturazione tra destra e sinistra di un sistema che usa questa dialettica per sopravvivere.
Questi vassalli, valvassori e valvassini della politica “imperiale”, espressione di un totalitarismo gerontocratico (facendo però più riferimento all'età politica che a quella anagrafica) che nel nostro paese tocca ormai i massimi vertici delle istituzioni, sono sparsi a destra e a sinistra, il loro compito è quello di sorvegliare e incanalare, la loro missione è quella di disunire, di restare alfieri inamovibili di una polverizzazione dell'antagonismo sociale e politico, affinché esso non trovi mai una via efficace di sbocco. Oppure son specialisti nel fare, come nel caso di Grillo, la guardia al cancello d'entrata nella stanza dei bottoni, impedendo da una parte che la protesta si incammini verso vie più efficaci e concrete, e dall'altra che “tutto cambi affinché nulla, sostanzialmente, vi sia di diverso” E se qualcuno non è d'accordo, che gli si sbatta pure il cancello in faccia.
E' quindi necessario per costruire qualcosa di seriamente credibile e concreto, spazzare via tutta questa nomenklatura di vecchie ciabatte e ciabattini della politica di infimo cabotaggio.
Non è una questione di età anagrafica ma di ruoli, si può infatti essere anziani ma del tutto estranei a tale logica, così come giovanissimi e già con la vocazione del chirichetto politico. E soprattutto si deve diffidare enormemente di chi, tra costoro, ti dice che non sei adatto al lavoro di gruppo, il "suo gruppo".
Non si può, in definitiva, pretendere di costruire un nuovo movimento o un nuovo e più credibile soggetto politico, consentendo doppie adesioni, tenendo i piedi in realtà sciancatamente sparse. Questa non può che essere l'ennesima falsificazione del perdurante vassallaggio politico e direi anche esistenziale.
Un tempo la Rivoluzione d'Ottobre si prefisse il compito di dare l'assalto al cielo, e si illuse di esserci riuscita, finché il cielo di Berlino le crollò addosso seppellendo con le macerie del suo muro anche un mondo intero.
Questo accadde perché quella rivoluzione aveva rinnegato i principi dell'altra che l'aveva ispirata: la Comune di Parigi: Socialismo Comunitario ed Autogestione, quelli che avrebbero dovuto animare i Soviet, ma che finirono nei Gulag.
Oggi non si tratta più di dare l'assalto al cielo, ma anche e soprattutto di lottare per la Terra, per liberarla da un mostro alieno capitalista che le sta succhiando persino la sua linfa vitale, desertificando al tempo stesso le culture autoctone e la biodiversità, per far trionfare un dio mercato che può ridurre un intero pianeta ad un deserto disabitato.
Questa nuova epica missione attende i compagni cavalieri del Socialismo contro la barbarie: liberare la Terra dall'oppressione, liberarla dalla destra e dalla sinistra..del nulla.


C.F. 



venerdì 21 giugno 2013

L’essere umano come snodo di relazioni totali


  



                          di Leonardo Boff

Nel 1845, Karl Marx scrisse le sue famose 11 tesi su Feurbach, pubblicate soltanto nel 1888 da Engels. Nella sesta tesi, Marx afferma qualcosa di vero ma riduttivo: «L’essenza umana è l’insieme delle relazioni sociali». Effettivamente non si può pensare l’essenza umana fuori dalle relazioni sociali. Ma essa è molto di più che questo, visto che risulta dall’insieme delle sue relazioni totali.
Descrittivamente, senza volere definire l’essenza umana, essa emerge come un nodo di relazioni orientate verso tutte le direzioni: verso il basso, verso l’alto, verso il centro e all’infuori. È come un rizoma, quel bulbo con radici in tutte le direzioni. L’essere umano si costruisce nella misura in cui attiva questo complesso di relazioni, non soltanto quelle sociali.
In altri termini, l’essere umano si caratterizza per il suo presentarsi come apertura illimitata: rivolta a se stesso, al mondo, all’altro e alla totalità. Sente in sé una pulsione infinita, anche se poi incontra soltanto oggetti finiti. Da questo le sue permanenti insazietà e insoddisfazioni. Non si tratta di un problema psicologico che uno psicanalista o uno psichiatra possano curare. È il suo marchio distintivo, ontologico, non un difetto.
Ma accettando l’indicazione di Marx, buona parte della costruzione dell’ umano si realizza effettivamente nella società. Da ciò l’importanza di osservare qual è la formazione sociale che crea le condizioni migliori perché questa possa sbocciare pienamente nelle più svariate relazioni.
Dando per scontate le debite mediazioni, direi che la migliore formazione sociale è la democrazia: comunitaria, sociale, rappresentativa, partecipativa, dal basso verso l’alto e che include tutti senza eccezione. Nella formulazione di Boaventura de Souza Santos, la democrazia deve essere una realtà senza fine. Dobbiamo vederla come un progetto aperto, sempre in costruzione che comincia nelle relazioni in famiglia, a scuola, in comunità, nelle associazioni, nei movimenti, nelle chiese e culmina nell’organizzazione dello Stato.
Come per un tavolo, vedo quattro gambe che reggono una democrazia minima vera, come tanto accentuava nella sua vita Herbert de Souza (Betinho) e che insieme, in conferenze e dibattiti, cercavamo di diffondere tra i Prefetti e le leadership popolari.
La prima gamba risiede nella partecipazione: l’essere umano, intelligente e libero, non vuole essere soltanto beneficiario di un processo ma attore e partecipante. Solo così diventa soggetto e cittadino. Questa partecipazione deve venire dal basso per non escludere nessuno.
La seconda gamba consiste nell’uguaglianza. Viviamo in un mondo di diseguaglianze di ogni ordine. Ognuno è unico e differente. Ma la partecipazione crescente in tutto impedisce che la differenza si trasformi in diseguaglianza e permette al’uguaglianza di crescere. Uguaglianza nel riconoscimento della dignità di ogni persona e nel rispetto dei suoi diritti che reggono la giustizia sociale. Insieme alla uguaglianza viene l’equità: il corrispettivo adeguato che ognuno riceve per la sua collaborazione nella costruzione del ‘tutto’ sociale.
La terza gamba è la differenza. Essa è data dalla natura. Ogni essere, specialmente l’essere umano, uomo o donna, è differente. Essa deve essere accolta e rispettata come manifestazione delle potenzialità proprie delle persone, dei gruppi e delle culture. Sono le differenze che ci rivelano che possiamo essere umani in molte forme, tutte queste umane e per questo meritevoli di rispetto e di accoglienza.
La quarta gamba avviene nella comunione: l’essere umano possiede soggettività, capacità di comunicazione con la sua interiorità e con la soggettività degli altri. È un portatore di valori come solidarietà, compassione, difesa dei più vulnerabili e di dialogo con la natura e con la divinità. Qui appare la spiritualità come quella dimensione della coscienza che ci fa sentire parte di un Tutto come quell’insieme di valori intoccabili che danno senso alla nostra vita personale sociale e anche a tutto l’universo.
Queste quattro gambe vanno sempre insieme e danno stabilità al tavolo, vale a dire sostengono una democrazia reale. Essa ci insegna ad essere coautori della costruzione del bene comune; in nome suo, impariamo a limitare i nostri desideri per amore della soddisfazione dei desideri collettivi.
Questo tavolo di quattro gambe non esisterebbe se non fosse appoggiato al suolo o sul pavimento. Così la democrazia non sarebbe completa se non includesse la natura che tutto rende possibile. Essa ci fornisce una base fisico-chimica-ecologica che sostiene la vita e ciascuno di noi. Il fatto che ha valore in se stessa, indipendentemente dall’uso che ne facciamo, tutti gli esseri infatti sono portatori di diritti. Meritano di continuare ad  esistere, e a noi tocca rispettarli e considerarli come concittadini. Saranno inclusi in una democrazia senza fine, socio-cosmica. Esplicandosi in tutte queste direzioni, si realizza l’essere umano nella storia, in un processo illimitato e infinito.

Boff è autore di Il destino dell’uomo e del mondo, Vozes, 2000.




giovedì 20 giugno 2013

LA " MATURITA' " DELL'OMICIDIO POLITICO




Tra le tracce dei temi proposti ai maturandi ieri, forse la più intrigante è quella sugli omicidi politici.
A guardarla così, dopo una breve scorsa, sembra più che altro un esorcismo, il ministro infatti ha messo insieme omicidi politici di vario genere, di varie epoche e del tutto scollegati tra loro, con un unico filo conduttore che sembra sotteso ai brani presentati: l'omicidio politico è sbagliato comunque, in tutte le epoche.
La prima cosa che colpisce innanzitutto è il taglio prettamente manualistico e cronachistico dell'antologia offerta allo studente.
Abbiamo su Francesco Ferdinando alcune righe che ci descrivono i fatti ma che non lasciano minimamente presagire il clima in cui quell'attentato maturò, e cioè, tra l'altro, che l'erede al trono era uno dei principali sostenitori della pace e voleva scongiurare la guerra con la Serbia a tutti i costi.
Il secondo brano su Matteotti non menziona minimamente il fatto che il coraggioso deputato Socialista stava indagando e soprattutto stava per denunciare pubblicamente i loschi affari che legavano strettamente il nascente regime fascista a quegli speculatori che, senza scrupolo alcuno, lo finanziavano e traevano ancora profitto da affari illeciti.
Il terzo, su Kennedy, lascia completamente in ombra il fatto che il Presidente americano avesse negato l'appoggio aereo ai controrivoluzionari cubani sbaragliati nella baia dei Porci e stesse, con il provvedimento del 4 giugno 1963, sottraendo alla Federal Reserve il suo potere di affittare la moneta al governo, in cambio del pagamento di interessi. Questo sicuramente avrebbe impedito al debito di crescere e avrebbe colpito gli interessi di un gigante finanziario come la FED, restituendo sovranità monetaria allo Stato. Nulla nella traccia è menzionato in merito all'impegno preso dal presidente di uscire dal Vietnam entro il 1965, e cioè entro il suo secondo eventuale mandato. Kennedy si trovò così a sfidare il governo monetario attaccando al cuore i due sistemi nevralgici da sempre usati per indebitare gli stati: la guerra ed il controllo della moneta da parte di una banca privata. Praticamente ciò che accade oggi all'Italia e ad altri paesi europei con la BCE e con le missioni internazionali.
Infine su Moro cosa abbiamo? Alcune righe di cronaca che nulla ci dicono del fatto che egli stesse cercando nuovi equilibri politici, accelerando con gli accordi con il PCI, il passaggio di quel partito ad una area socialdemocratica, e soprattutto il fatto che anche lui, come Kennedy, si stava battendo per restituire sovranità monetaria al nostro Paese.
Egli ebbe infatti l'idea di emettere biglietti di Stato a corso legale senza chiedere in prestito banconote a Bankitalia, ciò per consentire l'emissione Sovrana, senza debito, di cartamoneta a corso legale. Pochi sanno che in tal modo le spese dello Stato furono finanziate per circa 500 miliardi tra il '60 e il '70 e senza ricorrere a tagli, ma semplicemente emettendo una cartamoneta di 500 lire a corso legale.
Gli ulteriori indizi della trama di omicidi illustri che qui ci viene offerta dal ministro come uno spezzatino ridotto all'osso, sarebbero tanti e notevoli, ma evitiamo di dilungarci perché non vogliamo certo svolgere il tema al posto degli studenti.
Quello che ci preme osservare piuttosto è la liceità o meno del cosiddetto “omicidio politico” che, evidentemente, nei casi menzionati appare non solo illecito, ma del tutto immorale, quasi una sorta di "martirio".
Eppure non siamo affatto convinti che sia così. Specialmente considerando l'omicidio politico più importante perpetrato agli inizi del XX secolo, quello di Umberto I, ad opera di Gaetano Bresci, inquadrabile perfettamente nella categoria del “tirannicidio”, speriamo sia superfluo infatti ricordare che quel re fece cannoneggiare la folla decorando l'artefice della strage che ne seguì, e che Bresci disse a chiare lettere che lui aveva “attentato al Capo dello Stato perché responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta”, mettiamoci tra di esse anche un intero popolo meridionale costretto alla rivolta, alla fame o all'emigrazione, e massacrato senza pietà.
Vari attentati per ucciderli vennero messi in atto anche contro Mussolini, contro Hitler e contro Stalin anche se non ebbero esito positivo.
E' quindi del tutto evidente che la questione “omicidio politico” deve comportare una efficace riflessione su quanto e quando esso rientri nella categoria del "martirio" o del “tirannicidio”
Una scelta, quest'ultima, che viene definita fin dall'antichità, non solo come lecita, ma persino moralmente necessaria, e se lo studente liceale forse ricorda bene Armodio e Aristogitone oppure Bruto e Cassio, magari gli è più difficile menzionare Giovanni di Salisbury che per la prima volta nel Medioevo considerò legittima l'uccisione di un tiranno che avesse violato non solo le leggi divine, ma anche il suo patto con il popolo dei suoi sudditi.
E che dire poi di Vittorio Alfieri? (questo almeno nei programmi liceali ci dovrebbe essere) Egli nel suo trattato Della Tirannide afferma che colui che non vuole diventare complice di un tiranno, rendendosi partecipe della vita servile e corrotta della sua corte, e soprattutto volendo salvaguardare e difendere la libertà morale a cui non vuole in alcun modo rinunciare, ha solo due possibilità, altrettanto lecite, sebbene estreme: il tirannicidio o il suicidio.
Alfieri però è ben consapevole che il tirannicidio è molto rischioso e può solo essere messo in atto in condizioni particolari e rare, e che è più frequente, per altro, che si ricorra al suicidio per sfuggire allo spregevole dominio di un governo tirannico e totalitario.
A questo punto temiamo però che il non sappiamo se chiamare incauto o troppo avveduto studente avrebbe seriamente rischiato di fermarsi a riflettere sui fin troppo numerosi suicidi in corso in Italia e nei paesi più poveri di una Europa che va configurandosi come un assetto monetaristico e finanziario capitalistico e totalitario. Sulle sempre più numerose persone che, per non essere umiliate dalla precarietà endemica, dalla questua del lavoro nero rivolta a clientele o ad organizzazioni malavitose, dopo essere state licenziate a causa di leggi che hanno reso sempre più facile il truce compito dei buttafuori aziendali, di fronte alla palese immoralità di questo sistema che pretende di avere la nomea dell'unico mondo necessario e possibile, non potendo fare più altro per se stessi e per la propria famiglia, per mantenere quella sacrosanta dignità morale personale che dovrebbe essere assicurata non solo dalla Costituzione, ma anche dalla religione maggiormente praticata in Italia e in Europa, non vedendosi “rimettere i loro debiti” e non potendo rovesciare gli artefici di tale infame e tirannico assetto criminale, ammazzano irrimediabilmente loro stesse.
E' assai pericoloso che uno studente arrivi a pensare tutto ciò, specialmente se vi si aggiunge il fatto che il suo futuro è destinato ad essere desertificato nella penosa trafila in una università squalificata, nella permanenza nel limbo bamboccionesco dei falliti in partenza, soprattutto perché poco o per niente figli di papà, e infine in una penosissima età adulta destinata a restare senza casa, senza famiglia e senza figli (perché senza un lavoro che possa degnamente garantirli) indotta per giunta a concludersi nella discarica di una vecchiaia senza pensione.
Meglio dunque che il giovane studente non pensi al “tirannicidio” e che consideri l'omicidio politico sempre e comunque un fatto aberrante, anche se per far questo si arriva all'astrusità di mettere sullo stesso piano un erede ad un trono imperiale come Francesco Ferdinando con un socialista nemico di tutti i troni come Matteotti, o il capo di una repubblica presidenziale-imperiale come Kennedy con un politico di un partito “vassallo” di un paese-provincia di un impero economico, finanziario, militare e politico come Moro.
Meglio che il "maturando" ci parli di un mosaico di storie, al meglio delle sue possibilità, ricordando il suo manualetto di storia e magari cercando il più possibile di rendere il quadro unitario non troppo “astratto” o “cubista”.
E soprattutto molto meglio se non legge Alfieri o se lo considera solo un letterato di altri tempi, uno che era tanto “fuori di testa” da legarsi alla sedia, per consentirsi di attuare il suo “volli, fortissimamente volli”
E' meglio così in un mondo ed in una società in cui è già tutto “voluto” in partenza.


C.F.  

mercoledì 19 giugno 2013

I FILOSOFI E IL METEREOLOGO


                                                        di Carlo Felici
 
Domenica 6 giugno il mentore del quotidiano che maggiormente in Italia risalta per la sua “metereologia" del turbocapitalismo: Scalfari, che in quel settore è ormai più noto del mitico colonnello Bernacca, nel suo editoriale, tra l'altro scrive:
Il Movimento 5Stelle sta vivendo una fase di ricerca di libertà. Non sappiamo quanto sia estesa tra i cittadini entrati in Parlamento. È comunque giusto dire che Grillo e il suo iniziale successo sono stati utili al risveglio della democrazia italiana così come è utile oggi che gli eletti delle 5Stelle rivendichino la loro dignità di teste pensanti e scoprano la politica.

La politica - lo dice la parola stessa - è una visione del bene comune, la visione di una società al cui servizio la politica si pone. Attenzione: il "demos" cioè il popolo, esprime una società, cioè un insieme di comportamenti che spesso non collimano con la visione del bene comune di una parte politica. Questa distinzione non va dimenticata da quanti riflettono su ciò che avviene intorno a loro.

Tra il "demos" e le diverse parti politiche che competono c'è sempre un rapporto interrelazionale: il "demos" modifica le parti politiche e queste a loro volta modificano il "demos", ciascuna a proprio modo. Questa è l'etica della politica: quella di Aristotele, non quella di Platone. Il resto è futile chiacchiera o esperta demagogia.”

Ora sappiamo molto bene che, indipendentemente dal suo “bollettino del tempo contingente”, la politica oggi non è la visione del bene comune, ma il giudizio di dio, nelle vesti un po' Mammoniche del Sig. Mercato. E guai a sfuggire al suo sermone! Perché egli è più spietato e vendicativo dello Zeus che lanciava saette, il dio mammonico, infatti, lancia piuttosto spread che fanno molto più male di un fulmine il quale, al massimo, fa una vittima alla volta. Una botta di spread invece ti fa fuori una nazione in men che non si dica.
E veniamo al “demos che esprime una società”..altra castroneria megagalattica..o forse un semplice arcaicismo per gonzi domenicali. Il popolo che modifica le parti politiche nell'era del “pacco elettorale” fa ridere non solo i polli ma anche le uova. Che invece le parti politiche modifichino il “demos” è purtroppo vero a tal punto, che tale modifica sta portando alla sparizione degli stessi connotati del “demos” oltre che del suo concetto, con il “cratos” (potere) che ne consegue.
Il finale è poi da apoteosi della millantatura “Questa è l'etica della politica...” maddeché? Oggi etica e politica sono in collisione frontale, come una 500 (ma di quelle vecchio tipo) che va a sbattere contro un carro armato. Prova ne è il fatto che la politica spreme e spende di più per carri armati e affini piuttosto che per operai e famiglie che producono 500..e non solo.
Ma tornando ai due giganti del pensiero tirati in ballo dal “metereologo delle tempeste monetarie”, temo che oggi non sia possibile stare dalla parte di Platone e tanto meno da quella di Aristotele, in quanto la Weltanschauung odierna è del tutto opposta alla loro, che ragionavano ed agivano in un contesto in cui il mètron: l’equilibrio e la giusta misura erano innanzitutto rifiuto della crematistica, e cioè della accumulazione di una ricchezza fine a se stessa.

Nel quarto libro della Repubblica, Adimanto obietta a Socrate che i governanti potrebbero non essere “felici” a rinunciare al possesso delle ricchezze e dei beni (dato che proprio questo prevedeva il progetto politico platonico) e Socrate risponde in modo oggi completamente spaesante ma assai acuto che possono, proprio perché alcuni trovano la propria realizzazione non nella ricchezza, ma in altre cose. Diremmo noi che uno così, in politica, oggi non sarebbe entrato mai, giacché attualmente chiunque mette piede in un Parlamento di privilegiati l’ultima cosa a cui pensa e che fa, è proprio quella di andarsene o dimettersi.

Ma veniamo anche ad un passaggio aristotelico, anch’esso piuttosto stupefacente per noi: Politica VII, 12, 1332: “La vita felice richiede un certo sostegno di beni materiali, ma in misura minore per quegli individui che hanno le migliori disposizioni morali, ed in più grande quantità per coloro le cui disposizioni, sul piano etico, sono meno buone”. Oggi, con una lettura superficiale, potremmo dire che “non possiamo non essere aristotelici”, e ti credo!..con quello che abbiamo, specialmente in Italia, sotto gli occhi…

Però, attenzione, Aristotele dice che la ricchezza è solo un dato compensativo per risarcire dei “poveretti”, quelli che intellettualmente e umanamente (cioè moralmente) sono alquanto carenti. Essi infatti cercano la ricchezza perché “si impegnano unicamente a vivere e non a vivere secondo il bene. Ora, proprio perché la fame di vivere è illimitata, essi sono egualmente portati a desiderare mezzi illimitati per soddisfarla” In pratica, questo ci dimostra che oggi viviamo dominati da “morti di fame” che però affamano la gente pur di arricchirsi e soddisfare la loro bulimia..

Allora, tenendo conto che Rousseau dice chiaramente che “La ricchezza dei poveri è rappresentata dai loro figli; quella dei ricchi dai loro genitori.”, in un’epoca in cui il demos non è più quello di una polis, ma più concretamente quello di una cosmopolis, i cui figli ormai vagano sparsi per il mondo, superando anche piuttosto agevolmente le frontiere, forse sarebbe il caso di dire che tra Platone, Aristotele e Rousseau, ha ancora ragione Marx, specialmente quando ci ricorda che: “L’esercizio della dittatura democratica popolare implica due metodi. Nei confronti dei nemici, noi applichiamo quello della dittatura; in altri termini: per tutto il tempo che sarà necessario, noi non permetteremo loro di partecipare all’attività politica, li obbligheremo a sottomettersi alle leggi del governo popolare, li costringeremo a lavorare con le loro mani affinché si trasformino in uomini nuovi. Per contro, nei confronti del popolo, non il metodo della coercizione, bensì il metodo democratico viene applicato; in altri termini: il popolo deve poter partecipare all’attività politica; occorre applicare, nei suoi confronti, i metodi democratici di educazione e di persuasione, invece che obbligarlo a fare questa o quest’altra cosa.”

In poche parole: costringere ad una seria dieta i bulimici del profitto (delle regole ferree e condivise possono essere altrettanto efficaci di una cosiddetta "dittatura", specialmente se sono l'effetto di una "volontà generale"), ed educare il popolo a nutrirsi e a nutrire, secondo giusta misura. Sono due passaggi indispensabili, se vogliamo tornare a parlare di "partecipazione politica"

La salute dell’umanità e della Terra sicuramente, in tal modo, ne trarrebbe un gran beneficio.


lunedì 17 giugno 2013

Ipse dixit: "non possiamo non dirci liberali"



                                                   di Diego Fusaro


La frase della settimana è indubbiamente quella pronunciata da Giorgio Napolitano: “non possiamo non dirci liberali”. Non è qui importante ragionare su chi l’ha pronunciata, su qual è il suo passato e quale la sua funzione presente. Occorre, invece, concentrarsi sulla cosa stessa. E la cosa stessa è presto identificata: nell’epoca schiusasi con la data-sineddoche del 1989 e con il trionfo della libertà pensata secondo il parametro aziendale libero-scambista, il pensiero liberale si è imposto come pensiero unico dominante.

Per questo, non passa giorno senza che esso accampi la sua arrogante pretesa di essere il solo modo legittimo di pensare, di esistere e di organizzare lo spazio sociale ridotto a teatro dell’economia divenuta il solo valore direttivo di riferimento. Oggi, in tutte le sue forme, in quelle più estremistiche come in quelle più temperate, il pensiero liberale che si autoproclama il solo giusto, valido e degno di essere praticato (“non possiamo non dirci liberali”) è sempre la funzione ideologica del capitale finanziario. Sbagliano quanti pensano che oggi “liberalismo” significhi ciò che significava ai tempi di Benedetto Croce: nel presente, esso è la pura e semplice sovrastruttura del nomos dell’economia, dello spread e della dittatura del mercato.

L’odierna epoca inauguratasi con l’inglorioso crollo dei comunismi storici assume come propria dimensione simbolica di riferimento il pensiero liberale e, insieme, si proclama come il tempo della fine delle ideologie. A uno sguardo attento ed ermeneuticamente non ingenuo, essa si rivela l’epoca che, a giusto titolo, può essere qualificata come la più ideologica dell’intera storia dell’umanità: è l’epoca in cui l’unica ideologia superstite – il pensiero neoliberale, che si autocelebra come non ideologico – può contrabbandarsi come un modo di pensare naturale e non storicamente determinato; di più, come quel modo di pensare e di esistere rispetto al quale tutti gli altri appaiono illegittimi, secondo l’esiziale asserto di Napolitano.

Il pensiero unico neoliberale – nuovo oppio del popolo – non cessa di celebrare, in stile panglossiano, le virtù di un mondo in cui la libertà e l’individualità sono ricavate per astrazione dalla compra-vendita liberoscambista, dall’illimitata circolazione delle merci sul piano liscio del mercato globale. E tutto questo mentre si consuma, nel silenzio generale, l’ennesima riscrittura ideologica della storia del Novecento, secondo l’ormai consueta dialettica di rimozioni e trasfigurazioni sempre orientate all’imposizione dell’oggi come destino irredimibile. Si tratta dell’oblio integrale, e tutto fuorché ideologicamente neutro, della ricca costellazione di pensatori marxisti (Karel Kosík, Ernst Bloch, György Lukács, per menzionare i più grandi) che contestarono fermamente il socialismo reale, nell’idea che occorresse riformarlo o trasformarlo in modo radicale, e, insieme, conservarono la passione durevole della critica anticapitalistica, rimanendo fedeli all’ideale del comunismo come ulteriorità nobilitante.

Deve, allora indurre a riflettere il fatto che, in parallelo con l’odierno oblio dei molteplici critici marxisti del socialismo, si assista all’ininterrotto encomio del coro dei virtuosi critici liberali del comunismo (da Bobbio ad Aron, da Kelsen a Berlin), che demonizzano il comunismo sia reale, sia ideale (contrabbandando il primo come necessario esito del secondo), e, insieme, accettano la civiltà dello spettacolo e dell’omologazione planetaria come intrascendibile, quando non direttamente come il migliore dei mondi possibili.

La logica ideologica dirotta senza tregua la critica del passato nel circuito della glorificazione del presente. Anche questa commedia degli equivoci si inscrive a pieno titolo in quelle che Merleau-Ponty chiamava “le avventure della dialettica”. Il sistema della manipolazione organizzata promuove l’esorcizzazione compulsiva di ogni pathos trasformativo presentando il gulag come sua ineludibile conseguenza e, per questa via, neutralizzando l’eventualità e il perseguimento di un futuro alternativo tramite l’impiego ideologico della memoria. Precisare che “non possiamo non dirci liberali” equivale a sostenere che non possiamo non essere altro rispetto a ciò che siamo: in una parola, che siamo condannati a riconciliarci con l’ordine del mondo trasfigurato in destino ingiusto ma irredimibile, osceno ma non rettificabile. È significativo, a questo proposito, il ben noto iter biografico di Napolitano.

Lo scrivente, non avendo mai giustificato i crimini stalinisti, non deve neppure pentirsene e rifluire nel main stream degli apologeti di Monsieur Le Capital: può, anzi, sostenere che non possiamo dirci liberali, per i motivi a cui si è, sia pure impressionisticamente, fatto cenno poc’anzi. Essere liberali significa, nell’odierno scenario, essere per i tagli ai salari e per l’innalzamento dell’età pensionabile, per la precarizzazione e la liberalizzazione di tutto, ossia per quel tragico movimento di distruzione del futuro delle generazioni più giovani e di quelle a venire che già Kant, nel suo splendido testo del 1784 sull’Illuminismo, aveva qualificato come un “crimine ai danni dell’umanità”.

Dietro l’ipocrisia dello “schermo uniforme e perfido di cortesia”, come lo chiamava Rousseau, la violenza esercitata dal potere sui corpi e sulle vite degli individui viene oggi ipocritamente presentata come conseguenza naturale e fisiologica di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari che viene pudicamente definita globalizzazione e che, nei suoi tratti essenziali, è autoritariamente governata dall’alto ad opera delle politiche neoliberali che si impongono come il solo modo consentito di pensare e di esistere.

Le prestazioni ideologiche del liberalismo appaiono oggi tanto più evidenti, se si considera che, di fronte agli orrori dei sistemi politici in cui esso senza posa trova espressione, il pensiero unico percorre immancabilmente la via dell’autoassoluzione ipocrita, ripetendo che tali orrori non rispecchiano la “vera” essenza del sistema che li ha prodotti.

Come se il liberalismo fosse sempre “altro” rispetto alle oscenità che vengono prodotte nel mondo in cui esso è dominante. Con uguale ipocrisia ideologica, si potrebbe allora sostenere che, come oggi non è il “vero” liberalismo a produrre Abu Ghraib e Guantanamo, la precarizzazione sempre più oscena e i differenziali di ricchezza sempre più indecenti, analogamente non era la “vera” Russia comunista quella che produsse l’orrore dei gulag o che non era la “vera” Germania nazista quella che diede vita alla realtà luciferina di Auschwitz.

Per tutte queste ragioni (a cui se ne potrebbero agevolmente affiancare non poche altre), il primo gesto della critica dell’ideologia dovrebbe consistere oggi nel liberare dal liberalismo, ossia nel destrutturare il dispositivo narrativo che lo presenta come un modo naturale di essere e di pensare.

venerdì 14 giugno 2013

LA PATRIA LO STATO LA SIRIA




 di Alfredo Mazzucchelli:   Come anarchico la mia patria è il mondo intero sebbene la consideri anche quella una circostanza nella quale sono nato, sono cresciuto, mi sono fatto amicizie ed una famiglia, ed ho conosciuto tanti miei compagni di fede. 

Lo Stato è il mio nemico in quanto sovrastruttura autoritaria e con qualsiasi colore tenti di camuffarsi, quindi i nostri rapporti non possono essere che conflittuali e di reciproca non riconoscenza.
  
La Siria è uno Stato come tutti gli altri, quindi è oppressivo, generatore di classi egemoni e privilegiate, con l'aggravante di subire una contaminazione fondamentalista religiosa detta islamica.
  
Oggi gli imperialismi dominanti (USA-Cina-Russia e compagnie aggiunte e solidali) tentano ancora una volta di controllare quella zona mediorientale, ovviamente senza mezzi termini e colpi bassi, e tutto questo a discapito di popoli coinvolti, loro malgrado, in questo disegno assassino  che non esclude bassezze vergognose e crimini contro l'umanità. Il balletto indegno circa l'uso di gas venefici vede gli uni con le prove in mano che l'uso c'è stato, e gli altri che esibiscono le stesse prove comprovanti che l'uso non c'è stato. 

In mezzo a questo ciarlare, ci sono le vittime degli Stati e delle relative religioni, vittime alle quali va tutta la mia solidarietà, e solo a queste.

Essere radicalmente povero per essere pienamente fratello



DI LEONARDO BOFF

Una delle prime parole del Papa Francesco è stata: «Mi piacerebbe una chiesa povera per i poveri». Questo desiderio è in linea con lo spirito di San Francesco, chiamato “poverello” o “poverello d’Assisi”. Lui non ebbe la pretesa di gestire una chiesa povera per i poveri, perché questo sarebbe stato irrealizzabile all’interno del regime di “cristianità”, quando la Chiesa deteneva la totalità dei poteri. Creò tuttavia intorno a sé un movimento per una comunità di poveri con i poveri e come i poveri.
In termini di analisi di classe, Francesco apparteneva all’affluente borghesia locale. Suo padre era un ricco mercante di tessuti. Come giovane stava a capo di un gruppo di amici spensierati – giovinezza dorata – che  trascorrevano il tempo in feste e cantando i sirventesi del sud della Francia. Ormai adulto ebbe ad affrontare una forte crisi esistenziale. All’interno di questa crisi irruppe in lui una inesplicabile compassione e amore per il poveri, specialmente per i lebbrosi, isolati completamente, fuori città. Abbandonò famiglia  e  affari, scelse la povertà evangelica radicale e andò ad abitare con i lebbrosi. Gesù povero e crocifisso e i poveri in carne e ossa furono le pedine mobili del suo cambiamento di vita. Trascorse due anni in preghiere e penitenze, fino a quando non udì interiormente la chiamata del crocifisso: «Francesco, va e ricostruisci la mia Chiesa che è caduta in rovina». 
Fatica a capire che non si tratta di qualcosa di materiale, ma di una missione spirituale. Batte tutti i sentieri, predicando nei borghi il Vangelo in lingua volgare. Ma lo fa con tanta giovialità, «grazia» e forza di convinzione che affascina alcuni dei suoi antichi compagni. Nel 1209 ottenne dal papa Innocenzo 3° l’approvazione della sua «pazzia» evangelica. Comincia il movimento francescano che in meno di 20 anni arriva a più di 5000 seguaci.
 Quattro assi strutturano il movimento: l’amore appassionato al Cristo crocifisso, l’amore tenero e fraterno verso i poveri, Madonna povertà, genuina semplicità e grande umiltà.
Lasciando di lato altri punti di vista, tentiamo di capire come Francesco vedeva e conviveva con i poveri. Per i poveri non ha fatto niente (qualche lazzaretto o opera assistenziale); molto ha fatto con i poveri, perché li includeva nella predicazione del Vangelo e dove poteva stava insieme con loro; ma ha fatto anche di più: visse come i poveri. Adottò la loro vita, i loro costumi, li baciava, puliva le loro ferite e mangiava con loro. Si fece povero tra i poveri. E se gli capitava di incrociare qualcuno più povero di lui, gli dava parte della sua roba fino ad  essere realmente più povero dei poveri.
La povertà non consiste nel non avere, ma nella capacità di dare e dare ancora, sino a privarsi  di tutto. Non è un cammino ascetico. Ma  mediazione per un’ eccellenza incomparabile: l’identificazione con Cristo povero e con i poveri con i quali stabilire una relazione di fraternità. Francesco aveva intuito che le ricchezze si piazzano tra le persone, impedendo il confronto di occhio con occhio e cuore con cuore. Sono gli interessi che si mettono tra le persone e creano ostacoli alla fraternità. La povertà è lo sforzo permanente di rimuovere ricchezze e interessi di qualsiasi tipo  perché da lì risulti l’autentica fraternità. Essere radicalmente povero per poter essere pienamente fratello: questo è il progetto di Francesco; da qui l’importanza della povertà radicale.
Dobbiamo ammettere che una povertà così estrema era pesante e dura. Nessuno vive esclusivamente di esperienze mistiche. L’esistenza nel corpo e nel mondo presenta esigenze che non possono essere contraffatte. Come umanizzare questa disumanizzazione reale che comporta questo tipo di povertà? Le fonti dell’epoca testimoniano che i frati parevano «silvestres homines» (gente selvatica) che mangiano pochissimo, vanno in giro scalzi e si vestono di stracci. Ma – eccesso di meraviglia -  mai perdono l’allegria e il buonumore.
È in questo contesto di estrema povertà che Francesco  valorizza la fraternità. La povertà di uno è una sfida perché un altro si curi di lui per fornirgli - attraverso le elemosine o i attraverso il lavoro  -  il minimo necessario per dargli alloggio e sicurezza. Con questo «l’avere» è detronizzato nella sua pretesa di conferire sicurezza e umanizzazione. Francesco vuole che ogni frate compia la missione di madre verso l’altro, perché le madri sanno come aver cura degli altri,  specialmente dei malati. Soltanto la cura reciproca umanizza l’esistenza come bene ha dimostrato M. Heidegger nel suo «Essere e tempo».
Per chi viveva totalmente sprotetto, la fraternità significava effettivamente tutto. Il biografo Tommaso da Celano descrive la giovialità e l’allegria in mezzo a severa povertà. Osserva: “Pieni di nostalgia, cercavano di incontrarsi; felici erano quando potevano stare insieme; la separazione era dolorosa, amara la partenza, triste la separazione”. Lo spogliarsi  totale li preparava a sfruttare la bellezza del mondo perché non volevano possedere ma soltanto gustare.
Sono molte le lezioni che si possono trarre da questa avventura spirituale. Soffermiamoci su una soltanto: per Francesco le relazioni umane si devono costruire sempre partire da quelli che non sono e non hanno, secondo il metro dei potenti. Devono essere abbracciati come fratelli. Solo una fraternità che viene dal basso e che a partire da lì ingloba tutti gli altri, è veramente umana e sostenibile. La chiesa che abbiamo oggi mai sarà come i poveri,  ma può essere ‘per’ e ‘con’ con i poveri come sogna il Papa Francesco.
Traduzione di Romano Baraglia – romanobaraglia@gmail.com


martedì 11 giugno 2013

La «tentazione» di Francesco di Assisi e la possibile «tentazione» di Francesco di Roma

                              



               Leonardo Boff, teologo e filosofo.
Non dobbiamo immaginare che santi e sante siano liberi da ingiunzioni della comune condizione umana che conosce momenti di esaltazione e di frustrazione, tentazioni pericolose e riuscite coraggiose. Non è stato differente con San Francesco, presentato come «il fratello sempre allegro», cortese e che viveva una fusione mistica con tutte le creature stimate come fratelli e sorelle. Ma al tempo stesso, era il tipo  preso da grandi passioni e ire profonde quando vedeva i suoi ideali traditi dai fratelli. Il suo migliore biografo Tommaso da Celano con crudele realismo ha testimoniato che Francesco soffriva tentazioni di «violenta lussuria», che sapeva simbolicamente sublimare.
C’è però un fatto che la storiografia pietosa dei francescani praticamente nasconde ma che è molto studiato dalla critica storica. Viene chiamato «La grande tentazione». Gli ultimi cinque anni di vita di Francesco (morì nel 1226), sono segnati da profonde angustie, quasi disperazione, oltre alle gravi malattie che lo affliggevano come la malaria e la cecità. Il problema era oggettivo: il suo ideale di vita consisteva nel  vivere in estrema povertà, radicale semplicità e spoglio di ogni potere, soltanto appoggiato al Vangelo letto senza glosse che generalmente ne annacquano il senso rivoluzionario. Accadde che in pochi anni, il suo stile di vita stimolò migliaia di seguaci, più di 5000. Come dar loro alloggio? Come dar loro da mangiare? Molti erano sacerdoti e teologi come Sant’Antonio. Il suo movimento non aveva nessuna struttura né riconoscimenti legali. Era un puro sogno preso sul serio. Lo stesso Francesco si vede come un «novellus pazzus» come un nuovo pazzo che Dio volle nella chiesa ricchissima, governata da Innocenzo III, il più potente tra i papi della storia. A partire dall’estate 1220 scrisse la regola in varie versioni che furono tutte rifiutate dall’insieme della fraternità. Erano troppo utopistiche. Frustrato e sentendosi inutile, decide di rinunziare alla direzione del movimento. Pieno di angustie senza sapere più che fare, si rifugia per due anni nei boschi, visitato soltanto dall’amico intimo fra Leone. Aspetta una illuminazione divina che non viene. In questo frattempo, viene redatta una regola segnata dall’influenza della Curia Romana e dal Papa che trasforma il movimento in ordine religioso: l’Ordine dei Frati Minori con struttura e propositi definiti. Francesco, con dolore, umilmente, l’accetta. Ma lascia chiaro che non ne avrebbe mai più discusso se non prendendo esempi del primitivo sogno. La legge trionfa sulla vita, il potere ha circoscrive il carisma. Ma rimane lo spirito di Francesco:  povertà, semplicità e fraternità universale che ci ispira fino al giorno d’oggi. Morì all’interno di una grande frustrazione personale ma senza perdere la giovialità. Morì cantando salmi e cantilene di amore della Provenza.
Francesco di Roma sicuramente starà affrontando la sua «grande tentazione», non più piccola di quella di Francesco di Assisi. Dovrà riformare la Curia Romana, una istituzione che conta circa 1000 anni. Lì sta cristallizzato il potere sacro (sacra potestas) in forma amministrativa. Insomma si tratta di amministrare una istituzione con una popolazione come la Cina: 1 miliardo e duecento milioni di cattolici. Ma è necessario avvertire subito: dove c’è potere difficilmente comandano l’amore e la misericordia. È l’impero della dottrina, dell’ordine e della legge che per loro natura includono o escludono, approvano o condannano. Dove esiste potere, specialmente in una monarchia assoluta come lo Stato del Vaticano, sempre troviamo un anti-potere, intrighi, carceri, carrierismo e dispute per avere più potere ancora. Thomas Hobbes nel suo Leviatã (1651) ha visto chiaro: «Non si può garantire il potere se non cercando potere e sempre più potere».
Il Francesco di Roma, l’attuale vescovo locale e papa dovrà interagire con questo potere, segnato da mille astuzie e, a volte, dalla corruzione. Sappiamo di papi anteriori che si erano proposti di riformare la Curia, sappiamo di resistenze, di frustrazioni che hanno dovuto tollerare e sappiamo perfino di sospetti di eliminazione fisica di papi, fatte da persone dell’amministrazione ecclesiastica. Francesco di Roma possiede lo spirito di Francesco di Assisi: la povertà, la semplicità e lo spoliazione del potere. Ma per nostra felicità è gesuita,  con un’altra formazione dotato del famoso «discernimento degli spiriti», proprio dell’Ordine. Una tenerezza esplicita in tutto quello che fa ma può mostrare anche vigore  inusuale come succede a un Papa che ha la missione di restaurare la chiesa moralmente in rovina.
Francesco di Assisi aveva pochi consiglieri, sognatori come lui che praticamente non sapevano come aiutarlo. Francesco di Roma si è circondato da consiglieri scelti da tutti i continenti, in maggioranza anziani vale a dire, che hanno avuto esperienze nell’esercizio del potere sacro. Francesco di Roma dovrà darsi un altro profilo: più servizio che comando; più spoliazione che fronzoli e simboli del potere di palazzo; più con “odore di pecore» che di profumi di fiori da altare. Il portatore di potere sacro deve essere anzitutto pastore prima che autorità ecclesiastica; presiedere più nella carità e meno con il diritto canonico; deve essere fratello tra altri fratelli anche se con responsabilità differenziate.
Francesco di Roma riuscirà ad affrontare la sua «grande tentazione» ispirato dal suo omonimo di Assisi? Credo che saprà avere la mano ferma e non gli mancherà il coraggio per servire quello che il suo «discernimento degli spiriti» gli detta per restaurare di fatto la credibilità della Chiesa e restituire fascino alla figura di Gesù.
Traduzione di Romano Baraglia – romanobaraglia@gmail.