Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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lunedì 17 giugno 2013

Ipse dixit: "non possiamo non dirci liberali"



                                                   di Diego Fusaro


La frase della settimana è indubbiamente quella pronunciata da Giorgio Napolitano: “non possiamo non dirci liberali”. Non è qui importante ragionare su chi l’ha pronunciata, su qual è il suo passato e quale la sua funzione presente. Occorre, invece, concentrarsi sulla cosa stessa. E la cosa stessa è presto identificata: nell’epoca schiusasi con la data-sineddoche del 1989 e con il trionfo della libertà pensata secondo il parametro aziendale libero-scambista, il pensiero liberale si è imposto come pensiero unico dominante.

Per questo, non passa giorno senza che esso accampi la sua arrogante pretesa di essere il solo modo legittimo di pensare, di esistere e di organizzare lo spazio sociale ridotto a teatro dell’economia divenuta il solo valore direttivo di riferimento. Oggi, in tutte le sue forme, in quelle più estremistiche come in quelle più temperate, il pensiero liberale che si autoproclama il solo giusto, valido e degno di essere praticato (“non possiamo non dirci liberali”) è sempre la funzione ideologica del capitale finanziario. Sbagliano quanti pensano che oggi “liberalismo” significhi ciò che significava ai tempi di Benedetto Croce: nel presente, esso è la pura e semplice sovrastruttura del nomos dell’economia, dello spread e della dittatura del mercato.

L’odierna epoca inauguratasi con l’inglorioso crollo dei comunismi storici assume come propria dimensione simbolica di riferimento il pensiero liberale e, insieme, si proclama come il tempo della fine delle ideologie. A uno sguardo attento ed ermeneuticamente non ingenuo, essa si rivela l’epoca che, a giusto titolo, può essere qualificata come la più ideologica dell’intera storia dell’umanità: è l’epoca in cui l’unica ideologia superstite – il pensiero neoliberale, che si autocelebra come non ideologico – può contrabbandarsi come un modo di pensare naturale e non storicamente determinato; di più, come quel modo di pensare e di esistere rispetto al quale tutti gli altri appaiono illegittimi, secondo l’esiziale asserto di Napolitano.

Il pensiero unico neoliberale – nuovo oppio del popolo – non cessa di celebrare, in stile panglossiano, le virtù di un mondo in cui la libertà e l’individualità sono ricavate per astrazione dalla compra-vendita liberoscambista, dall’illimitata circolazione delle merci sul piano liscio del mercato globale. E tutto questo mentre si consuma, nel silenzio generale, l’ennesima riscrittura ideologica della storia del Novecento, secondo l’ormai consueta dialettica di rimozioni e trasfigurazioni sempre orientate all’imposizione dell’oggi come destino irredimibile. Si tratta dell’oblio integrale, e tutto fuorché ideologicamente neutro, della ricca costellazione di pensatori marxisti (Karel Kosík, Ernst Bloch, György Lukács, per menzionare i più grandi) che contestarono fermamente il socialismo reale, nell’idea che occorresse riformarlo o trasformarlo in modo radicale, e, insieme, conservarono la passione durevole della critica anticapitalistica, rimanendo fedeli all’ideale del comunismo come ulteriorità nobilitante.

Deve, allora indurre a riflettere il fatto che, in parallelo con l’odierno oblio dei molteplici critici marxisti del socialismo, si assista all’ininterrotto encomio del coro dei virtuosi critici liberali del comunismo (da Bobbio ad Aron, da Kelsen a Berlin), che demonizzano il comunismo sia reale, sia ideale (contrabbandando il primo come necessario esito del secondo), e, insieme, accettano la civiltà dello spettacolo e dell’omologazione planetaria come intrascendibile, quando non direttamente come il migliore dei mondi possibili.

La logica ideologica dirotta senza tregua la critica del passato nel circuito della glorificazione del presente. Anche questa commedia degli equivoci si inscrive a pieno titolo in quelle che Merleau-Ponty chiamava “le avventure della dialettica”. Il sistema della manipolazione organizzata promuove l’esorcizzazione compulsiva di ogni pathos trasformativo presentando il gulag come sua ineludibile conseguenza e, per questa via, neutralizzando l’eventualità e il perseguimento di un futuro alternativo tramite l’impiego ideologico della memoria. Precisare che “non possiamo non dirci liberali” equivale a sostenere che non possiamo non essere altro rispetto a ciò che siamo: in una parola, che siamo condannati a riconciliarci con l’ordine del mondo trasfigurato in destino ingiusto ma irredimibile, osceno ma non rettificabile. È significativo, a questo proposito, il ben noto iter biografico di Napolitano.

Lo scrivente, non avendo mai giustificato i crimini stalinisti, non deve neppure pentirsene e rifluire nel main stream degli apologeti di Monsieur Le Capital: può, anzi, sostenere che non possiamo dirci liberali, per i motivi a cui si è, sia pure impressionisticamente, fatto cenno poc’anzi. Essere liberali significa, nell’odierno scenario, essere per i tagli ai salari e per l’innalzamento dell’età pensionabile, per la precarizzazione e la liberalizzazione di tutto, ossia per quel tragico movimento di distruzione del futuro delle generazioni più giovani e di quelle a venire che già Kant, nel suo splendido testo del 1784 sull’Illuminismo, aveva qualificato come un “crimine ai danni dell’umanità”.

Dietro l’ipocrisia dello “schermo uniforme e perfido di cortesia”, come lo chiamava Rousseau, la violenza esercitata dal potere sui corpi e sulle vite degli individui viene oggi ipocritamente presentata come conseguenza naturale e fisiologica di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari che viene pudicamente definita globalizzazione e che, nei suoi tratti essenziali, è autoritariamente governata dall’alto ad opera delle politiche neoliberali che si impongono come il solo modo consentito di pensare e di esistere.

Le prestazioni ideologiche del liberalismo appaiono oggi tanto più evidenti, se si considera che, di fronte agli orrori dei sistemi politici in cui esso senza posa trova espressione, il pensiero unico percorre immancabilmente la via dell’autoassoluzione ipocrita, ripetendo che tali orrori non rispecchiano la “vera” essenza del sistema che li ha prodotti.

Come se il liberalismo fosse sempre “altro” rispetto alle oscenità che vengono prodotte nel mondo in cui esso è dominante. Con uguale ipocrisia ideologica, si potrebbe allora sostenere che, come oggi non è il “vero” liberalismo a produrre Abu Ghraib e Guantanamo, la precarizzazione sempre più oscena e i differenziali di ricchezza sempre più indecenti, analogamente non era la “vera” Russia comunista quella che produsse l’orrore dei gulag o che non era la “vera” Germania nazista quella che diede vita alla realtà luciferina di Auschwitz.

Per tutte queste ragioni (a cui se ne potrebbero agevolmente affiancare non poche altre), il primo gesto della critica dell’ideologia dovrebbe consistere oggi nel liberare dal liberalismo, ossia nel destrutturare il dispositivo narrativo che lo presenta come un modo naturale di essere e di pensare.

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