Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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sabato 11 agosto 2012

La fine della siderurgia come parabola della fine della nostra industria nazionale

  di Riccardo Achilli
Mentre l’intero interesse dell’opinione pubblica viene concentrato su fasulle politiche per una fasulla fuoriuscita dalla crisi del debito sovrano, in questi giorni, nella più totale indifferenza del peggior Governo della storia repubblicana (peggiore anche rispetto ai Governi Berlusconi, peggiore del Governo Tambroni-Scelba) si consuma forse l’atto finale della lunga crisi di un settore portante della nostra industria: la siderurgia.

 A Taranto una inutile bonifica ambientale, fatta perlopiù di interventi annunciati anni fa e mai realizzati quando era (forse) utile farlo, consente a vertici politici e sindacali, azienda, società civile di tornare a mettere la testa sotto la sabbia, evitando di sfruttare l’occasione per fare un revamping strutturale dell’impianto, che consenta di risolvere definitivamente il problema ambientale e collocare lo stabilimento alla frontiera tecnologica del settore, rendendolo competitivo con le realtà più avanzate. Mentre intanto il gruppo Riva accusa perdite di esercizio preoccupanti (con un risultato di esercizio negativo per 614 Meuro nel 2009-2010, solo in parte compensato da un utile di 327 Meuro nel 2011, mentre le previsioni per il 2012 appaiono nere, con una fermata di alcuni impianti, a Taranto, già effettuata per motivi di mercato a giugno, prima cioè del sequestro operato dalla magistratura) e scende costantemente nella graduatoria dei maggiori produttori mondiali di acciaio, in un settore in cui le dimensioni contano e le economie di scala sono un fattore competitivo strategico.

A Piombino l’acciaieria ex Lucchini, rilevata nel 2005 dalla russa Severstal, emette gli ultimi rantoli di una lunghissima agonia, rispetto alla quale la politica, nazionale e regionale, non ha trovato niente di meglio, per oltre 15 anni, che sedersi ed aspettare gli eventi. Il periodo concesso dal tribunale per il piano di ristrutturazione del debito aziendale si conclude questo mese, e non vi è stato alcun acquirente pronto a rilevare lo stabilimento, da cui l’azienda controllante si sta chiaramente disimpegnando. 2.000 operai hanno sfilato a fine luglio, per difendere il loro lavoro ed il futuro della siderurgia italiana in un comparto strategico come quello dei prodotti lunghi, nel più assordante silenzio degli organi di stampa e del Paese. Penso in queste ore con angoscia agli ex colleghi piombinesi con cui lavorai oltre 10 anni fa, che non sanno cosa ne sarà della loro vita. Stiamo per perdere un impianto che produceva prodotti ad alto contenuto di know how, rotaie speciali per treni TAV, vergella in acciaio speciale per usi particolari (ad esempio il wire rod for tyres) ecc.

Adesso i soliti, anche a sinistra, diranno che il ciclo produttivo siderurgico a ciclo integrale è obsoleto, che non può più reggere alla concorrenza cinese, indiana o russa, basata su costi di produzione più bassi, che l’aumento del prezzo delle materie prime associato al rallentamento della domanda globale è un mix fatale, che la siderurgia italiana è penalizzata dall’assenza di giacimenti di ferro e carbone, qualche sciocco forse tirerà fuori la vecchia e fasulla storiella che i nuovi materiali sostituiscono l’acciaio (ciò è vero grosso modo per il 10% delle applicazioni possibili dell’acciaio, in realtà).

Ebbene io sostengo che questo mix di argomenti è grosso modo erroneo. Non perché molte di queste cose non siano vere, ma perché non sono determinanti nel creare una crisi generalizzata come quella attuale. Perché l’acciaio a ciclo integrale tedesco, dove i costi del lavoro sono alti, e che affronta lo stesso scenario di mercato di quello italiano, non è così in crisi? Non può mica essere attribuito ai giacimenti di lignite, peraltro quasi esauriti, della ex DDR, o soltanto ad un costo dell’energia effettivamente più basso di quello italiano. Perché la siderurgia a ciclo integrale giapponese, altro Paese ad elevato costo del lavoro, non subisce la stessa crisi?

La verità è che questa situazione discende dalle sciagurate privatizzazioni dell’ILVA effettuate nel 1993-95 dai Governi Ciampi, Berlusconi e Dini, con l’attiva collaborazione dei Presidenti dell’IRI, di allora, ovvero Romano Prodi e Michele Tedeschi, sotto l’ombrello del cosiddetto “patto Andreatta-Van Miert”, che fu una vera e propria cessione di sovranità nazionale nelle politiche industriali italiane a favore della tecnocrazia liberista comunitaria, legata ad interessi economici del capitalismo internazionale, voglioso di papparsi i pregiati bocconi industriali delle partecipazioni statali italiane, cui ovviamente la borghesia italiana di piccolo cabotaggio si precipitò immediatamente, per raccogliere le briciole.

Così, senza alcuna logica economica ed industriale, ed esclusivamente per accontentare pro quota tutti gli interessi privati in gioco, l’ILVA, che unitariamente era il settimo produttore mondiale di acciaio, e godeva delle economie di scala e delle sinergie produttive e commerciali derivanti dalla sua unitarietà, venne spezzettata in tre tronconi, corrispondenti alle sue tre divisioni industriali (prodotti piani, prodotti lunghi, acciai speciali). Quest’ultima divisione, la più avanzata tecnologicamente e la più interessante in termini di mercato ed economici, venne ovviamente ceduta agli interessi capitalistici esterni al Paese, vendendo l’acciaieria di Terni ai tedeschi della Thyssen Krupp. Le altre due divisioni, quasi interamente imperniate su stabilimenti a ciclo integrale (Taranto, Piombino, Servola, Cornigliano, ecc.) vennero vendute, per un piatto di lenticchie (si stima che l’acquisizione della divisione prodotti piani, per 1.740 miliardi di lire, costò a Riva un decimo del suo effettivo valore economico, posto che tale divisione fatturava circa 13.000 miliardi di lire all’anno, e quest’ultimo si rifiutò anche di pagare il prezzo concordato, avviando un lungo processo giudiziario) a due imprenditori lombardi del settore dell’acciaio elettrico (un settore che presenta problematiche impiantistiche, produttive, organizzative e commerciali completamente diverse da quelle del ciclo integrale).

In questo modo, una realtà produttiva che, unitariamente e sotto il controllo dello Stato, aveva chiuso il suo ultimo bilancio di esercizio in utile (487 miliardi di lire distribuite all’azionista-Stato nel 1995, al netto di un accantonamento enorme al fondo rischi, effettuato esclusivamente in vista della privatizzazione, di 453 miliardi) venne trasformata in uno spezzatino, perdendo, come si è detto, le economie di scala e le sinergie di cui il gruppo aveva goduto, e le ex divisioni prodotti piani e prodotti lunghi vennero messe in mano ad imprenditori privi di esperienza nella gestione di stabilimenti a ciclo integrale. Nel periodo in cui lavorai nello stabilimento di Piombino ricordo bene la girandola di direttori della produzione nominati da Brescia e subito bruciati, l’arroganza e la supponenza con cui i bresciani trattavano i lavoratori piombinesi ex ILVA, gli unici che avrebbero potuto insegnare loro come gestire una realtà complessa come Piombino, la sconfitta storica nella gara delle forniture di rotaie per treni ad alta velocità di Trenitalia nel 1997, vinta dall’austriaca Voest Alpine, nonostante i contatti politici di Lucchini, e così via.

Questo capolavoro di privatizzazioni che ha contribuito ad estinguere la siderurgia nazionale è costato allo Stato 1.700 miliardi di lire di svalutazioni “ad hoc” degli impianti dell’ILVA pubblica, effettuate ad arte dall’advisor dell’IRI, l’IMI, per venire incontro agli acquirenti privati; 10.000 miliardi di lire di costi legati ad operazioni di scissione e di messa in liquidazione delle attività non-core dell’ILVA, una ulteriore favolosa cifra per il prepensionamento di circa 14.000 lavoratori siderurgici espulsi all’atto della privatizzazione, a fronte di ricavi da privatizzazione ridicoli (600 miliardi per Terni, 1.460 miliardi per Taranto, una cifra analoga per Piombino).

Di fatto, la imminente chiusura dello stabilimento di Piombino, e le difficoltà economiche di Taranto, sono principalmente il frutto di quella privatizzazione, che consegnò un’azienda artificiosamente spezzettata in tre tronconi in mani sbagliate. Piombino, in particolare, paga l’impossibilità, da parte di Severstal, che lo rilevò dopo il sostanziale fallimento di Lucchini, di raddrizzare una situazione finanziaria e di mercato oramai largamente compromessa dalla catastrofica gestione dei bresciani e di porre rimedio all’esigenza di ammodernare un impianto obsoleto con ingenti investimenti di revamping che i bresciani non avevano fatto. Riva finora è riuscito a galleggiare solo perché sfrutta le economie di scala dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa e anche grazie a pingui vendite di pezzi del patrimonio immobiliare dell’ILVA, degne più di un immobiliarista che di un imprenditore dell’acciaio.

Ma il canto del cigno della siderurgia a ciclo integrale italiana deriva altresì dalla totale assenza di una politica industriale da parte del ragionier Monti, incapace di rimettere urgentemente mano al settore in caduta verticale, rinazionalizzando gli impianti o quantomeno predisponendo una programmazione pubblica a sostegno della siderurgia nazionale. Il nuovo decreto  sulla “golden power”, che peraltro, rispetto alla precedente normativa della golden share, non a caso contestata dai liberisti di Bruxelles al servizio dei liquidatori dell’industria nazionale, prevede poteri di intervento pubblici molto più limitati, non contempla nel suo perimetro di azione settori di base portanti per la stessa sopravvivenza di un’industria nazionale, come la siderurgia e la chimica di base. Nessuno si chiede come mai tutti i Paesi manifatturieri del mondo mantengano e difendano una importante presenza nazionale nei due citati settori (USA, Giappone, Cina, Germania, Francia, Corea del Sud, persino l’India e l’emergente Brasile) mentre da noi il rag. Monti non sente la necessità di proteggere tali settori. Nessuno si chiede quanto importanti possano essere esigenze di prossimità geografica delle produzioni industriali di base rispetto ai settori industriali utilizzatori, come sia importante garantirsi la sicurezza della produzione e degli approvvigionamenti nazionali in tali settori, da cui dipende l’attività produttiva dell’intera industria manifatturiera, di quella delle costruzioni, e di numerosi settori del terziario (i trasporti navali ed il settore portuale, ad esempio). Quando i sindacati sono andati a discutere con il governo del dossier-Piombino, si sono ritrovati a dover discutere con un sottosegretario! Un sottosegretario? Nessun Ministro si è sentito in dovere di discutere della vicenda che rischia di lasciare il Paese senza più una produzione siderurgica importante nei prodotti lunghi, con un intero sottosettore produttivo che scompare? Nessuno capisce che questa vicenda segna un passaggio determinante verso la stessa cessazione della vocazione manifatturiera del nostro Paese?

L’unica soluzione oggi sarebbe quella di una rinazionalizzazione di quel poco che resta della gloriosa storia dell’acciaio nazionale, vero fulcro del miracolo economico italiano, o quantomeno di una ripresa di programmazione pubblica di settore. Ma oggi, persino una parte cospicua della sinistra appare rassegnata, per non dire quasi felice, della fine di questa storia, ansiosa di potersi liberare, in nome di una modernità idiota, degli ultimi segmenti di proletariato industriale (gli unici ad avere un potenziale di lotta sociale propulsivo)cui non ha più niente da proporre, e nei confronti dei quali si è sputtanata, proponendo economicamente improbabili (ed ambientalmente impossibili) riconversioni delle aree ex siderurgiche, verso i servizi (soprattutto il turismo, ma non manca chi, cavalcando la moda, propone di riconvertirle verso la produzione di energia rinnovabile o di servizi Ict, spuntano poi le consuete proposte di costruire centri commerciali laddove c’erano gli altiforni) o verso l’artigianato, legato ai servizi turistici e commerciali.

Occorrerebbe insegnare Marx ai bambini della prima elementare, per spiegare a questo popolo rincoglionito da un mito di modernità e di progresso nell’alveo del capitalismo terziarizzato, di economisti raffazzonati e venduti,  a questa sinistra post moderna e post ideologica (che finisce spesso per diventare anche post-sinistra) il ruolo fondamentale dell’industria per lo sviluppo economico (che non a caso spiega i  miracoli della Cina, di Taiwan, del Brasile, e di altre economie emergenti anche in passato) ed il ruolo sostanzialmente improduttivo e redistributivo  di gran parte delle attività terziarie. Pensiamo ad un futuro in cui avremo solo camerieri, commesse di negozio, viticoltori e produttori di formaggio, ed in cui lasceremo ad altri la produzione di ricchezza reale? Non c’è futuro per i parassiti, nel capitalismo. Per costoro, c’è solo il declino verso una povertà sempre maggiore. Ognuno merita la nemesi che si è guadagnato.

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