Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

giovedì 2 agosto 2012

Sull'ecosocialismo: contributo al dibattito di Michael Löwy

Il progetto ecosocialista implica l’instaurazione di una pianificazione democratica dell’economia, che metta in conto la preservazione dell’ambiente e, in particolare impedisca uno sconvolgimento catastrofico del clima. Grazie a questa pianificazione si potrà operare una rivoluzione del sistema energetico, che porti alla sostituzione delle risorse attuali (soprattutto l’energia fossile), responsabili del cambiamento climatico e dell’avvelenamento dell’ambiente, con risorse energetiche rinnovabili: l’acqua, il vento e il sole.
La condizione necessaria per questa pianificazione democratica ed ecologica è il controllo pubblico sui mezzi di produzione: le decisioni di ordine pubblico sugli investimenti e i cambiamenti tecnologici devono essere tolti alle banche e alle imprese capitaliste se si vuole che servano il bene comune della società e la preservazione dell’ambiente. L’insieme della società sarà libero di scegliere democraticamente le linee produttive da privilegiare –in base a criteri sociali ed ecologici– e il livello delle risorse che devono essere investite nelle energie alternative, nell’istruzione, nella salute o nella cultura. Gli stessi prezzi dei beni non risponderanno più alle leggi della domanda e dell’offerta ma saranno determinati il più possibile secondo criteri sociali, politici ed ecologici. Questa pianificazione avrà tra i suoi obiettivi la garanzia del pieno impiego, grazie alla riduzione della giornata lavorativa. Questa condizione è indispensabile non solo per rispondere alle esigenze di giustizia sociale, ma anche per assicurarsi il sostegno della classe operaia, senza il quale il processo di trasformazione ecologica strutturale delle forze produttive non può essere effettuato.

Lungi dall’essere «dispotica» in sé, la pianificazione democratica è l’esercizio della libertà di decisione dell’insieme della società. Un esercizio necessario per liberarsi delle «leggi economiche» e delle «gabbie di ferro» alienanti e reificate all’interno delle strutture capitaliste e burocratiche. La pianificazione democratica, associata alla riduzione del tempo di lavoro, sarebbe un progresso considerevole dell’umanità verso quello che Marx chiama «il regno della libertà»: l’aumento del tempo libero è infatti una condizione per la partecipazione dei lavoratori alla discussione democratica e alla gestione dell’economia e della società.
Il genere di sistema di pianificazione democratica prospettato dagli ecosocialisti riguarda le principali scelte economiche –in particolare quelle che hanno a che fare con i pericoli del riscaldamento globale– e non certo l’amministrazione dei ristoranti locali, delle drogherie, delle panetterie, dei piccoli negozi e delle imprese artigianali o dei servizi. Altrettanto importante è sottolineare che la pianificazione non è in contraddizione all’autogestione dei lavoratori nelle loro unità di produzione. Mentre, ad esempio, la decisione di trasformare una fabbrica di automobili in unità di produzione di motori per eoliche toccherebbe all’insieme della società, l’organizzazione e il funzionamento interni della fabbrica sarebbero gestiti democraticamente dagli stessi lavoratori.
Si è dibattuto a lungo sul carattere «centralizzato» o «decentralizzato» della pianificazione, ma l’elemento più importante resta il controllo democratico del piano a tutti i livelli, locale, regionale, nazionale, continentale e, speriamo, planetario, poiché temi dell’ecologia come il riscaldamento climatico sono mondiali e non possono essere trattati che a questo livello. Questa proposta si potrebbe chiamare «pianificazione democratica globale». Essa non ha niente a che vedere con quella che viene generalmente designata come «pianificazione centrale», in quanto le decisioni economiche e sociali non sono prese da un qualsivoglia «centro» ma determinate democraticamente dalle popolazioni interessate.
La pianificazione ecosocialista deve essere fondata su un dibattito democratico e pluralista a ciascun livello di decisione. Organizzati sotto forma di partiti, di piattaforme, o di qualsiasi altro movimento politico, i delegati degli organismi di pianificazione sono eletti, e le diverse proposte sono presentate a tutti quelli che ne sono oggetto. In altri termini, la democrazia rappresentativa deve essere arricchita –e migliorata– dalla democrazia diretta, che permette alle persone di scegliere direttamente –a livello locale, nazionale, e in ultima istanza internazionale– tra diverse proposte. Allora, l’insieme della popolazione si interrogherebbe sulla gratuità del trasporto pubblico, su una imposta speciale, pagata dai proprietari di automobili per sovvenzionare il trasporto pubblico, sul sovvenzionamento dell’energia solare, sulla riduzione del tempo di lavoro a 30, 25 ore settimanali o meno, anche se questo comporta una certa riduzione della produzione. Il carattere democratico della pianificazione non la rende incompatibile con la partecipazione degli esperti il cui ruolo non è di decidere ma di presentare i loro argomenti –spesso diversi o anche opposti– nel corso del processo democratico di presa delle decisioni.
Si pone una domanda: che garanzia abbiamo che le persone faranno le scelte giuste,quelle che proteggono l’ambiente, anche se il prezzo da pagare è di cambiare una parte delle loro abitudini di consumo? Una tale «garanzia» non esiste, [esiste] soltanto la ragionevole prospettiva che la razionalità delle decisioni democratiche trionferà una volta abolito il feticismo dei beni di consumo. È sicuro che il popolo farà degli errori, facendo scelte sbagliate, ma gli esperti non fanno anch’essi scelte sbagliate? È impossibile concepire la costruzione di una nuova società senza che la maggioranza del popolo abbia raggiunto una grande presa di coscienza socialista ed ecologica grazie alle sue lotte, alla sua autoeducazione e alla sua esperienza sociale.
Alcuni ecologisti valutano che la sola alternativa al produttivismo sia di arrestare la crescita nel suo insieme, o di sostituirla con una crescita negativa, chiamata in Francia «décroissance» [decrescita]. Per fare ciò occorrerebbe ridurre drasticamente il livello eccessivo di consumo della popolazione e rinunciare, tra l’altro, alle case individuali, al riscaldamento centrale e alle lavatrici, per ridurre di metà il consumo di energia.
I «décroissants» [decrescenti?] hanno il merito di avere avanzato una critica radicale del produttivismo e del consumismo. Ma il concetto di «decrescita» deriva da una concezione puramente quantitativa della «crescita» e dello sviluppo delle forze produttive. Occorrerebbe piuttosto riflettere su una trasformazione qualitativa dello sviluppo. Questo significa due impostazioni diverse ma complementari:
(1) Non solo la riduzione ma la soppressione di interi settori economici, per mettere fine al mostruoso spreco di risorse provocato dal capitalismo: un sistema fondato sulla produzione su grande scala di prodotti inutili e/o dannosi. Un buon esempio è l’industria degli armamenti, così come tutti quei «prodotti» fabbricati nel sistema capitalista (con la loro obsolescenza programmata) che non hanno alcun’altra utilità oltre a creare profitti per le grandi imprese. La questione non è il «consumo eccessivo» in astratto, ma piuttosto il tipo di consumo dominante le cui caratteristiche principali sono: la proprietà ostentativa, lo spreco di massa, l’accumulazione ossessiva di beni e l’acquisizione compulsiva di pseudo novità imposte dalla «moda». Una nuova società orienterebbe la produzione verso la soddisfazione dei bisogni autentici, a cominciare da quelli che si potrebbero qualificare come «biblici» –l’acqua, il cibo, i vestiti e la casa– ma includendo i servizi essenziali: la salute, l’istruzione, la cultura e il trasporto. Si potrebbe dunque parlare di «decrescita selettiva».
(2) Dall’altra parte, occorrerebbe assicurare la «crescita selettiva» di certe branche produttive o servizi trascurati dal capitalismo: l’energia solare, l’agricoltura biologica (familiare o cooperativa), i trasporti pubblici, ecc.
È evidente che i paesi o i bisogni essenziali sono lungi dall’essere soddisfatti, vale a dire che i paesi dell’emisfero sud dovranno «svilupparsi» –costruire ferrovie, ospedali, fognature e altre infrastrutture– molto di più che i paesi industrializzati, ma questo dovrebbe essere compatibile con un sistema di produzione basato sulle energie rinnovabili e dunque non nocive per l’ambiente. Questi paesi avranno bisogno di produrre grandi quantità di cibo per le loro popolazioni già colpite dalla fame. Ma, come sostengono da anni i movimenti contadini organizzati su scala internazionale dalla rete Via Campesina, si tratta di un obiettivo molto più facile da raggiungere per mezzo dell’agricoltura biologica contadina, organizzata in unità familiari, cooperative o fattorie collettive, che non con i metodi distruttivi e antisociali dell’agroindustria il cui principio è l’utilizzo intensivo dei pesticidi, di sostanze chimiche e degli OGM. L’odioso sistema attuale del debito e dello sfruttamento imperialista delle risorse del Sud da parte dei paesi capitalisti industrializzati lascerebbe il posto a uno slancio di sostegno tecnico ed economico del Nord verso il Sud.
Non ci sarebbe alcun bisogno –come sembrano credere certi ecologisti puritani ed ascetici– di ridurre in termini assoluti il livello di vita delle popolazioni europee o nordamericane. Occorre semplicemente che queste popolazioni si sbarazzino dei prodotti inutili, quelli che non soddisfano alcun bisogno reale, e il cui consumo ossessivo è sostenuto dal sistema capitalista. Riducendo il loro consumo, esse ridefinirebbero la nozione di livello di vita per far posto a un modo di vita che sarebbe in realtà molto più ricco.
Come distinguere i bisogni autentici dai bisogni artificiali, falsi o simulati? L’industria della pubblicità, –che esercita la sua influenza sui bisogni tramite la manipolazione mentale– è penetrata in tutte le sfere della vita umana delle società capitaliste moderne. Tutto è modellato secondo le sue regole, non solo il cibo e l’abbigliamento, ma anche ambiti così diversi come lo sport, la cultura, la religione e la politica. La pubblicità ha invaso le nostre strade, le nostre cassette da lettere, i nostri schermi televisivi, i nostri giornali e i nostri paesaggi in modo insidioso, permanente ed aggressivo. Questo settore contribuisce direttamente alle abitudini di consumo ostentativo e compulsivo.  Per di più comporta uno spreco fenomenale di petrolio, di elettricità, di tempo di lavoro, di carta e di sostanze chimiche tra altre materie prime – il tutto pagato dai consumatori. Si tratta di una branca di «produzione» non solo inutile dal punto di vista umano, ma anche in contraddizione con i bisogni sociali reali. La pubblicità è una dimensione indispensabile in una economia di mercato capitalista, ma non avrebbe posto in una società in transizione verso il socialismo. Sarebbe sostituita da informazioni sui prodotti e servizi fornite da associazioni di consumatori. Il criterio per distinguere un bisogno autentico da un bisogno artificiale sarebbe la sua permanenza dopo la soppressione della pubblicità. È chiaro che le vecchie abitudini di consumo persisteranno per un certo tempo, dato che nessuno ha il diritto di dire alle persone di che cosa hanno bisogno. Il cambiamento dei modelli di consumo è un processo storico e una sfida educativa.
Certi prodotti, come l’auto individuale, sollevano problemi più complessi. Le auto individuali sono una calamità pubblica. Su scala planetaria uccidono o mutilano centinaia di migliaia di persone ogni anno. Inquinano l’aria delle grandi città –con conseguenze nefaste sulla salute dei bambini e delle persone anziane– e contribuiscono in misura considerevole al cambiamento climatico. D’altra parte l’auto soddisfa bisogni reali nelle condizioni attuali del capitalismo. In un processo di transizione verso l’ecosocialismo, il trasporto pubblico sarebbe largamente diffuso e gratuito –in superficie come sotterraneo– mentre ci sarebbero percorsi protetti per i ciclisti e i pedoni. Di conseguenza l’auto individuale avrebbe una funzione molto meno importante che nella società borghese, dove è diventata un prodotto feticcio, promosso da una pubblicità insistente e aggressiva. In questa transizione verso una nuova società, sarebbe molto più facile ridurre drasticamente il trasporto su strada delle merci –responsabile di tragici incidenti e del livello troppo elevato di inquinamento– per sostirtuirlo con il trasporto ferroviario o il ferroutage [trasporto dei TIR su treno = autostrada ferroviaria /viaggiante]: solo la logica assurda della «competitività» capitalista spiega lo sviluppo del trasporto su camion / gomma.
A queste proposte, i pessimisti risponderanno: sì, ma gli individui sono motivati da aspirazioni e desideri infiniti, che devono essere controllati, analizzati, rimossi ed anche repressi se necessario. La democrazia potrebbe allora subire alcune restrizioni. Ora, l’ecosocialismo si basa su una ipotesi ragionevole, già sostenuta da Marx: la predominanza dell’«essere» sull’«avere», in una società senza classi sociali né alienazione capitalista, vale a dire il prevalere del tempo libero sul desiderio di possedere innumerevoli oggetti: la realizzazione personale tramite vere attività, culturali, sportive, ludiche, scientifiche, erotiche, artistiche e politiche. Il feticismo della merce incita all’acquisto compulsivo attraverso l’ideologia e la pubblicità proprie del sistema capitalista. Niente prova che questo faccia parte della «eterna natura umana».
Ciò non significa, soprattutto nel periodo di transizione, che i conflitti saranno inesistenti: tra i bisogni di protezione dell’ambiente e i bisogni sociali, tra gli obblighi in materia di ecologia e la necessità di sviluppare le infrastrutture di base, in particolare nei paesi poveri, tra abitudini popolari di consumo e la scarsità di risorse. Una società senza classi sociali non è una società senza contraddizioni né conflitti. Questi ultimi sono inevitabili: sarà la funzione della pianificazione democratica, in una prospettiva ecosocialista liberata dai vincoli del capitale e del profitto, di risolverli grazie a discussioni aperte e pluraliste che portino la società stessa a prendere le decisioni. Una tale democrazia, comune e partecipata, è il solo mezzo, non di evitare gli errori, ma di correggerli da parte della stessa collettività sociale.
*  Michael Löwy, filosofo e sociologo di origine brasiliana, è militante del Nuovo Partito Anticapitalista francese e della IV Internazionale. Coautore (con Joel Kovel) del Manifesto ecosocialista internazionale è stato anche uno degli organizzatori del primo Incontro Ecosocialista Internazionale di Parigi (2007). Autore di numerosissimi libri, ha pubblicato recentemente. Sociologies et religion – Approches dissidents (con Erwan Diantelli), PUF, Paris 2006; Messagers de la tempête – André Breton et la révolution de janvier 1946 en Haiti (con Gerald Bloncourt), Le Temps des Cerises, Paris 2007; Che Guevara, une braise qui brûle encore (avec Olivier Besancenot), Mille et une nuit, Paris 2007; Sociologies et religion – Approches insolites (con Erwan Diantelli), PUF, Paris 2009.»
Michael Löwy

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