Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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lunedì 11 dicembre 2017

Nè pater né Patria.. (i racconti del partigiano G.)

                                        



                                                            di Giorgio Giannelli

La Patria. Tornato da Roma nel maggio 1943 con le pive nel sacco, il solito italiano e greco a settembre, mio padre andò fuori dai gangheri. Non mi voleva più a tavola. Di me non sapeva che farsene e mia madre mi dovette passare il cibo dalla finestra di cucina e io dovevo mangiare da solo sul deposito dell'acqua in giardino. Come il cane di Pinocchio, Melampo. Pranzo e cena. Una mattina mi venne a trovare di corsa il mio amico Gianfranco Tonini. Aveva il fiatone, mi abbracciò gridando "Hanno fatto fuori Mussolini!". Uscimmo e andammo a solito caffè Grand'Italia dove c'era un gruppetto di persone che commentava. Niente di eccezionale. Poi udiimmo uno che gridava da un terrazzo di via Barsanti, una traversa secondaria, rispetto a quella principale del paese, dove abitavo, la via Mazzini. Era Poldino Vanni che improvvisava un comizio antifascista davanti a una ventina di persone. Tutto lì. 

 Alla sera passò il solito maresciallo dei carabinieri, avvertendo che dovevamo ritirarci in casa. "C'è ancora il coprifuoco, la guerra continua". Ripeteva quanto aveva affermato alla radio il nuovo capo del governo del re, Pietro Badoglo, nel corso della giornata. Non successe nulla anche nei gorni sucessivi, i partiti non c'erano ancora. E io a fare il cane Melampo. M'incazzai con mia madre e le dissi quanto doveva durare questa buffonata. Ne parlerò con tuo padre, fu la risposta. "Vada a fare il militare, così gli insegneranno a fare qualcosa, il meccanico, l'elettricista, il fabbro, so' una sega io. Tanto Mussolini non c'è più, la guerra é finita e il fare il militare non comporta più nessun pericolo. Dato che di studiare non ha voglia, tornerà a casa con un mestiere in mano". Sua moglie gli fece osservare che ero minorenne, avevo 17 anni e non ero ancora richiamato. "Gli firmerò la domanda di volontario io. Se ne vada al diavolo, io non lo voglio più tra i piedi". Questa la condanna. Scisse lui stesso la domanda, la firmò, la dovetti firmare anch'io, mia madre mise il francobollo sulla busta e la impostò. Ero certo che non mi avrebbero chiamato, il re stava trattando l'armistizio con gli Alleati, figuriamoci se la Patria avrebbe pensato a un minorenne come me. La guerra era perduta. E invece quella lettera arrivò. Era un giorno di un agosto caldissimo. Presi il treno e mi recai a Lucca.
 Per arrivare dalla stazione al distretto militare mi ci volle un'ora. Il caldo mi opprimva forse più dello stato d'animo che mi deprimeva. La città era vuota, ma ancor più deserto era il comando miltare dove persino la bandiera non si spostava di un milimetro. Immobile lungo l'asta. I colori della Patria li trovai stinti, il bianco era ingiallito, il rossso era divenato rosa e il verde color pisello. All'ingresso non c'era nemmeno la guardia armata con il solito picchetto di controllo. Entrai. Il grande cortile era una specie di polverone. Non un uomo, non un soldato. In fondo, davanti al cancello c'era una specie di chiostro. Almeno lì c'era un po' d'ombra. Feci un centinaio di metri, vidi una panca e mi sdraiai. Mi prese il sonno. Non so quanto dormii. Erano le prime ore del pomeriggio.
 A un certo punto mi sentii battere su una spalla. Mi scossi e mi trovai davanti un sergente, con la divisa estiva tutta scollacciata, senza armi e cravatta. Lo guardai negli occhi. Era un bel ragazzo, assomigliava a Raf Vallone, uno che aveva giocato nel Torino e faceva l'attore del cinema. Mi disse subito: "Che ci fai qui?". Mi avete chamato voi, gli risposi mostrandogli la cartolina rosa. Mi fece enrare nella sua stanza, guardò l'avviso di chiamata ed esclamò: "Ma sei matto? Ma lo sai che questi ti mettono un fucile in mano e ti spediscono in Sicilia?" Gli feci capire che il matto non ero io, ma i miei genitori che mi avevano spinto a essere lì, adesso, davanti a lui. "Ma allora non sei tu che vuoi andare a fare la guerra, ma i pazzi di casa tua?". Risposi quello che gà sapevo da anni, che la guerra era perduta e che non l'avrei certo salvata io la Patria, con il mio sacrificio. Si mise a ridere. Si alzò, andò dal tenente medico in una stanza vicina, parlottò con lui e mi chiamò. La visita fu breve. Fui ascoltato al petto e ai polmoni e poi udii: "Ma se non fai neppure il torace, come ti posso mandare al fronte?".
 Mi sentii risollevare,il tenente mi strinse la mano e il sergente che assomigliava a Raf Vallone mi riportò nella sua stanza. Prese la cartolina rosa, la strappò e mi disse: "Nella vita ti ricorderai di me". Avevo conoscuto la Patria. Tornai a casa. Quando mio padre mi vide esclamò: "A questo non lo vogliono neppure quelli del governo!"

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