di Giorgio Giannelli
La Patria. Tornato da Roma nel maggio 1943 con le pive nel sacco, il
solito italiano e greco a settembre, mio padre andò fuori dai gangheri.
Non mi voleva più a tavola. Di me non sapeva che farsene e mia madre mi
dovette passare il cibo dalla finestra di cucina e io dovevo mangiare da
solo sul deposito dell'acqua in giardino. Come il cane di Pinocchio,
Melampo. Pranzo e cena. Una mattina mi venne a trovare di corsa il mio
amico Gianfranco Tonini. Aveva il fiatone, mi abbracciò gridando
"Hanno fatto fuori Mussolini!". Uscimmo e andammo a solito caffè
Grand'Italia dove c'era un gruppetto di persone che commentava. Niente
di eccezionale. Poi udiimmo uno che gridava da un terrazzo di via
Barsanti, una traversa secondaria, rispetto a quella principale del
paese, dove abitavo, la via Mazzini. Era Poldino Vanni che improvvisava
un comizio antifascista davanti a una ventina di persone. Tutto lì.
Alla sera passò il solito maresciallo dei carabinieri, avvertendo che
dovevamo ritirarci in casa. "C'è ancora il coprifuoco, la guerra
continua". Ripeteva quanto aveva affermato alla radio il nuovo capo del
governo del re, Pietro Badoglo, nel corso della giornata. Non successe
nulla anche nei gorni sucessivi, i partiti non c'erano ancora. E io a
fare il cane Melampo. M'incazzai con mia madre e le dissi quanto doveva
durare questa buffonata. Ne parlerò con tuo padre, fu la risposta. "Vada
a fare il militare, così gli insegneranno a fare qualcosa, il
meccanico, l'elettricista, il fabbro, so' una sega io. Tanto Mussolini
non c'è più, la guerra é finita e il fare il militare non comporta più
nessun pericolo. Dato che di studiare non ha voglia, tornerà a casa con
un mestiere in mano". Sua moglie gli fece osservare che ero minorenne,
avevo 17 anni e non ero ancora richiamato. "Gli firmerò la domanda di
volontario io. Se ne vada al diavolo, io non lo voglio più tra i piedi".
Questa la condanna. Scisse lui stesso la domanda, la firmò, la dovetti
firmare anch'io, mia madre mise il francobollo sulla busta e la
impostò. Ero certo che non mi avrebbero chiamato, il re stava trattando
l'armistizio con gli Alleati, figuriamoci se la Patria avrebbe pensato a
un minorenne come me. La guerra era perduta. E invece quella lettera
arrivò. Era un giorno di un agosto caldissimo. Presi il treno e mi recai
a Lucca.
Per arrivare dalla stazione al distretto militare mi ci volle
un'ora. Il caldo mi opprimva forse più dello stato d'animo che mi
deprimeva. La città era vuota, ma ancor più deserto era il comando
miltare dove persino la bandiera non si spostava di un milimetro.
Immobile lungo l'asta. I colori della Patria li trovai stinti, il bianco
era ingiallito, il rossso era divenato rosa e il verde color pisello.
All'ingresso non c'era nemmeno la guardia armata con il solito picchetto
di controllo. Entrai. Il grande cortile era una specie di polverone.
Non un uomo, non un soldato. In fondo, davanti al cancello c'era una
specie di chiostro. Almeno lì c'era un po' d'ombra. Feci un centinaio di
metri, vidi una panca e mi sdraiai. Mi prese il sonno. Non so quanto
dormii. Erano le prime ore del pomeriggio.
A un certo punto mi sentii
battere su una spalla. Mi scossi e mi trovai davanti un sergente, con la
divisa estiva tutta scollacciata, senza armi e cravatta. Lo guardai
negli occhi. Era un bel ragazzo, assomigliava a Raf Vallone, uno che
aveva giocato nel Torino e faceva l'attore del cinema. Mi disse subito:
"Che ci fai qui?". Mi avete chamato voi, gli risposi mostrandogli la
cartolina rosa. Mi fece enrare nella sua stanza, guardò l'avviso di
chiamata ed esclamò: "Ma sei matto? Ma lo sai che questi ti mettono un
fucile in mano e ti spediscono in Sicilia?" Gli feci capire che il matto
non ero io, ma i miei genitori che mi avevano spinto a essere lì,
adesso, davanti a lui. "Ma allora non sei tu che vuoi andare a fare la
guerra, ma i pazzi di casa tua?". Risposi quello che gà sapevo da anni,
che la guerra era perduta e che non l'avrei certo salvata io la Patria,
con il mio sacrificio. Si mise a ridere. Si alzò, andò dal tenente
medico in una stanza vicina, parlottò con lui e mi chiamò. La visita fu
breve. Fui ascoltato al petto e ai polmoni e poi udii: "Ma se non fai
neppure il torace, come ti posso mandare al fronte?".
Mi sentii
risollevare,il tenente mi strinse la mano e il sergente che assomigliava
a Raf Vallone mi riportò nella sua stanza. Prese la cartolina rosa, la
strappò e mi disse: "Nella vita ti ricorderai di me". Avevo conoscuto la
Patria. Tornai a casa. Quando mio padre mi vide esclamò: "A questo non
lo vogliono neppure quelli del governo!"
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