di Giorgio Giannelli
Forte dei
Marmi 8 settembre 1943. Come tutti i giorni mi trovavo al caffè
Grand'Italia, gestito dalla famiglia Burchi, dove si riunivano tutti
gli “antifascisti”, primo fra tutti Cesare Tarabella, compresi
molti di coloro che, fino a qualche mese prima, erano fascisti. A un
certo punto sentimmo dalla radio che il governo del Re aveva firmato
l'armistizio con gli Alleati. Fu un esplosione di gioia. Solo un
maresciallo di marina, che non era uno stupido, gridò: “E' inutile
che gridiamo tanto. I tedeschi ce la faranno pagare”. Infatti a due
passi da noi c'erano, seduti a un tavolo, dei soldati tedeschi che
cercavano di passare il pomeriggio. Come fanno i bravi turisti.
Quando seppero della notizia, esultarono anche loro, aumentarono il
giro delle bibite, urlando “Guerra finita. Italia e Germania
kaputt. Hitler e Mussolini merda”. Si ubriacarono. Poco dopo,
avviandosi verso la caserma, che si trovava nell'albergo Imperiale
nella stessa piazza Dante, continuarono a esaltare la loro allegria
rotolandosi nell'erba del giardino pubblico e a sberciare le loro
solite parole, questa volta in tedesco. Vistoli in quelle condizioni,
uscì un loro ufficiale che li prese a calci nel culo e li riportò
in caserma, il cui cancello fu chiuso a chiave e la sentinella
ritirata. Osservata a scena, era quasi l'ora di cena, quando arrivò
il maresciallo dei carabinieri in bicicletta e ci ordinò di tornare
ciascuno a casa sua. “Il coprifuoco continua ancora”, si
giustificò. Il giorno dopo tornai al caffè dei Burchi per
commentare quant'era accaduto, finché qualcuno, sopraggiunse di
corsa dalla spiaggia gridando: “Stanno a arrivando gli inglesi!”.
In pochi minuti fummo in cima al ponte. Effettivamente stava
arrivando un mezzo navale. Scrutammo un po' finché sentimmo delle
urla:”Ci sono i tedeschi?”. Quando arrivarono a portata di voce
rispondemmo: “Certo che ci sono i tedeschi, ma stanno rinchiusi in
caserma”. Era un rimorchiatore della Marina militare italiana. Ci
lanciarono una fune e scesero. Scappati da La Spezia, erano tutti
sporchi, neri di nafta e terrorizzati. Qualcuno prese la via di
Quercata per montare sui treni, ma una decina rimase in paese,
ospitati nelle case del Forte. Andai in camera mia, presi dei vestiti
e tutti i soldi che aveva della squadra ragazzi della Rondinella e i
marinai si divisero le poche centinaia di lire e si cambiarono
immediatamente. Sembra incredibile, ma molti si fidanzarono e poi
sposarono con qualche ragazza fortemarmina. Gli altri si rifugiarono
sui monti raggiungendo i partigiani di Gino Lombardi alla Porta di
Farnocchia. Uno era un sardo e si chiamava Luigi Mulargia. Fu ucciso
in combattimento dai fascisti e le sue orecchie, tagliate, vennero
messe in evidenza nei caffè di Pietrasanta. Molti di noi sono andati
con loro, ma la maggior parte dei giovani si arruolarono, parecchi
volontari, altri no, nella Xa Flottiglia Mas. Qualche mese più
tardi, alcuni di loro, come Giuseppe Spinetti, morto anch'esso in
combattimento contro tedeschi, ci raggiunsero nelle vaie formazioni
partigiane che operavamo tra l'Altissimo e il Gabberi. Gli “inglesi”
arrivarono solo un anno dopo.
Il 10
settembre raggiunse il paese un carro armato tedesco. Si fermò
davanti all'accasermamento dei Krucchi dove si riaprì il cancello
dell'albergo Imperiale e la sentinella riprese la sua posizione Tutto
era stato predisposto per una grande manifestazione militare. Dietro
il carro armato, si schierò un centinaio di soldati armati che,
cantando il famigerato (e bellissmo) inno delle S.S., sfilò lungo le
vie Mazzini e Carducci , passò nel cerchio di piazza Marconi e tornò
in caserma dove il carro armato si fermò un paio di giorni. Il
commissario prefettizio rimase l'ing.Picchiani, una brava persona, in
carica fino al giugno dell'anno successivo quando dovette dare
l'ordine di sfollamento. Ma quel 10 settembre arrivò anche
l'orchestra militare germanica per un concerto davanti al caffè
Roma. Molta gente, applausi e grida "Bravi, Bravissimi".
Riaprì la sede del fascio nel fortino. I repubblichini del Forte,
raggiunsero il numero di 400 iscritti, il più alto di tutta la
Versila. Fu una tragicommedia tra i servi sciocchi e qualcuno che
tentò di mantenere la dignità di essere italiano. Alcuni episodi.
La partecipazione dei fascisti ai restrellamenti contro i partigiani
e l'incendio della casa Lombardi a Ruosina, dove Terzilio Consigli
prese uno schiaffo dal federale Piazzesi per aver commentato a bassa
voce: "Peccato bruciare tuttte quelle lenzuola con la gente che
non ne ha neppure una per coprirsi". Un altro episodio fu quando
nel bar Di Fiorino, in via Montauti, enrò un tedesco ubriaco che
voleva fare lo spaccone e il proprietario, Mario, lo buttò fuori a
calci nel sedere. Da ricordare il mio compagno di scuola Giorgio
Zapparoli Manzoni, monarchico e liberale, prese a sassate i vetri del
fortino. Venne acciuffato, malmenato e portato in prigione e se la
cavò solo perché suo padre riuscì a dimostrare che suo figlio era
matto. Ma la cosa più eclatante fu quella che vide protagonista il
prof. Vincenzo Gasperetti, segretario della sezione del partito
repubblichino. Ribellatosi contro l'ordine di sfollamento, i tedeschi
lo presero a pedate, lo portarono sul piazzale del ponte e lo
volevano fucilare, così davanti a tutti in pieno giorno. Se la cavò,
ma fu ucciso a Milano dai partigiani. Aurelio Tonini, uno dei nostri
comandanti partigiiani, quando lo seppe, disse che - se fosse rimasto
al Forte - nessuno gli avrebbe torto un capello. Il 30 giugno il
paese sfollò. Non ci rimase nessuno parando verso i monti dove,
pochi giorni dopo, anche la popolazione dell'Alta Versilia ricevette
l'ordine di lascare le loro case per raggiugnere Sala Baganza in
provincia di Parma. Lo fecero quasi tutti, meno che la gente di
Sant'Anna di Stazzema, a quell'epoca piena di "migranti".
Ecco perché il 12 agosto Kesselring dette l'ordine di sterminare
tutti i disobbedenti. Le imposizioni dei tedeschi non si potevano
ignorare.
Sono nato
quattro anni dopo l'avvento del fascismo, ma la mia adolescenza venne
frustata dal carattere possessivo e violento di mio padre. Si era
fatto otto anni di militare e quattro di guerra e ogni giorno aveva
dovuto portare munizioni e uomini a ridosso delle trincee. Doveva
camminare sulle strade impervie delle Alpi e se una bomba avesse
colpito il suo mezzo sarebbero saltati per aria lui e il mondo.
Probabilmente l'avevano imbottito di psicofarmaci e di droga, tanto
sta che, tornato a casa, era una bestia. Irriconoscibile. Si sfogava
con il lavoro, gestendo il più bel negozio di Forte dei Marmi e
facendo tanti soldi. Era un uomo forte, un lavoratore che tirava su
sacchi da cinquanta chili. I suoi genitori lo chiamavano “il
lombardo” perché era uno che mirava al sodo. Non era fascista.
Afascista e non antifascista nel senso che l'ordine instaurato da
Mussolini gli stava bene e gli permetteva di lavorare. Nacqui in casa
Di Fiorino in via Montauti ed ero proprietà di un padre padrone.
Afascista, però, quando venivano in negozio alcuni (pochi per la
verità) notoriamente avversi regime, gli metteva l'Osservatore
Romano nascosto tra La Nazione o nel Corriere, perché nessuno se ne
accorgesse. Il giornale vaticano era l'unico che spesso criticava
Mussolini. Quando mia madre mi accompagno il primo giorno a scuola,
dove oggi c'è la sede del Comune, fu per me una liberazione. Mi
trovai per la prima volta con i ragazzi della mia età, Tommaso e
Mauro Benedetti, mio cugino Fabio, Lello Nicolai, i due Renzo
Polacci, uno dei due conosciuto come Motò, Diego e Giampaolo
Aliboni, Giampaolo Barbetti, Dario Vanni, Egidio Nardini, Agostino
Balderi, Disma Salvatori, Enrico Bartolomei, Bruno Falconi, Alberto
Bedini, Giorgio Berti, Vinicio Biagetti, Sergio Catelani, Mario
Ceretti, Antonio Costa, Mario Domenici e il fiorentino Francesco
Moriondo. C'era anche un Mariani di cui non ricordo il nome. Tutti
maschi. La nostra maestra era l'Elisa Cortopassi che veniva col
tramve da Pietrasanta, una brava donna, pacioccona. Tutto meno che
una fascista. Aveva il vizietto di prendersi qualche decina di minuti
di riposo per andare nel corridoio a chiacchierare con le sue
colleghe e ci dava la possibilità di dare vita a cazzottate e colpi
di cartelle tra quella della prima fila e quelli della seconda. Un
giorno del 1937 ci dette un tema sul Duce. Avevo 10 anni e 5 mesi e
credo di avere scritto che il Duce era bello, buono e un grande
condottiero. Il tema fu premiato come il migliore della classe.
Strano perché io, in italiano, dalle elementari in poi sono sempre
stato rimandato a settembre. Si vede che si accontentavano di poco.
C'era la miseria allora? Eccome. Ed era miseria nera. Quando
arrivavano in classe i bimbetti di Vaiana, Caranna e Vittoria Apuana
venivano scalzi. E avevano in mano un sasso, tenuto nel fuoco tutta
la notte, infilato in un calzerotto di lana per ripararsi dal freddo
per la strada e, dato che il Comune non accendeva i caminetti delle
aule, li aspettavamo in gloria per passarci quel sasso, ormai
tiepido, tra noi figli della gente del centro del paese. Mi misero
addosso la divisa di Balilla, il ragazzo di Portoria che a Genova
lanciò il primo sasso nella rivolta contro gli austriaci, che non
era neanche male. Camicetta nera, fazzoletto azzurro al collo,
calzoncini grigio verdi che arrivavano fino al ginocchio e calzettoni
e scarponcini neri. In testa avevamo il fez nero con tanto di
pennacchio alla bersagliera. Ma i poveri, invece degli scarponcini,
avevano gli zoccoli legati con un elastico. Ci chiamavano i Balilla
scalcinati perché il gruppo più elegante era quello composto dai
Balilla moschettieri che, oltre che la camicia di seta e i guantoni
di pelle a mezze maniche, erano armati di moschetto che sparava a
salve. Noi Balilla scalcinati per fucile avevamo un manico di scopa.
Anche a me sarebbe piaciuto essere moschettiere, ma mio padre me lo
proibì. L'adunata si svolgeva tutti i sabati pomeriggio e si
trattava di marciare, battere il passo e fare il dietro front,
svoltare a sinistra e svoltare a destra, dietro front e alt. I nostri
comandanti erano Piero Pierini, che poi divenne i mio capo
partigiano, Elio Bramanti e Ottorino Castagnini. Con il loro
fischietto ci davano il segno del passo. Un colpo di fischio, seguito
da altri due e così passava la giornata. A giugno, quando al campo
sportivo, quando nel piazzale davanti al pontile caricatore, c'era i
saggio ginnico. Ragazzi e ragazze, chiamate Piccole italiane. In
terza elementare ci cambiarono maestra, la signora Maria Bossi, che
era anche la segretaria del fascio femminile, una donna in gamba,
molto severa con le femmine. Tra queste ricordo Fiorenza Bianchini,
Silvana Bonelli. Ornella Federigi, Orietta Bottari, Elena Spinetti,
Mara Figliè, Giuseppina Frigo, Andretta Maggi, Oceania Magnini, Leda
Nardini, Angiolina Pampaloni, Piera Santini e Guglielma Staccioli. La
maestra Bossi era una donna moderna e i suoi preferiti li portava a
casa sua in via XX settembre a imparare il disegno da suo marito, il
pittore Filippi. Ci insegnò a ritrarre le formiche. Ecco perché
imparai a disegnare le partite di calcio come faceva il celebre
Carmelo Silva su Calcio Illustrato. Tutta roba che finiva sui
quaderni e sugli spazi bianchi dei libri di scuola, ricevendo in
compenso parecchi scapaccioni da parte del mio genitore.
Nel 1938 in
casa mia avvenne un fulmine a ciel sereno: le leggi razziali. La mia
nonna materna era ebrea. Mia madre era figlia di una ebrea e io e mia
sorella suoi nipoti. Era l'Adele Ventura che aveva sposato mio nonno
Domenico Bàrberi. Mio padre fu preso dal panico, andò dal podestà
Carlo Gotti con il quale aveva fatto la prima guerra mondiale per
chiedergli un consiglio da amico. E il podestà, dopo avere
riflettuto un po', gli disse: “Vito, al posto tuo, andrei nel paese
di nascita di tua suocera, darei una bustarella all'impiegato
dell'anagrafe e tornerei al Forte con i connotati diversi. La fai
chiamare con il cognome della madre, che era cattolica, e figlia di
N.N". Così fu, ma era come gettare un bicchier d'acqua nel
mare. Dal giorno del matrimonio, che avvenne in pompa magna nel duomo
di Pietrasanta, dove convenne una folla d'eccezione, per assistere
alla "conversione dell'ebrea", la nonna era molto
conosciuta in paese, anche perché èra bella ed elegante. I Bàrberii
erano una famiglia molto importante e mio nonno era stato il
fondatore del Comune ed aveva fatto persino il prosindaco. Ragione
per cui, fin dal primo giorno che mise piede al Forte, nel 1885,
tutti la chiamavano “l'ebreina”. Vado dall'ebreina, me l'ha dato
l'ebreina, l'ho saputo dall'ebreina. Pur cambiando i connotati
l'Adele era chiamata con il soprannome di ebreina. Lo sapevano tutti,
ma avevamo la parola del podestà, non solo, ma nessuno, neppure i
fascisti, ci hanno mai dato fastidio. Il problema sorse con
l'occupazione tedesca, anche se l'Adele morì un anno prima, nel
1942. Mio padre comunque, mi tolse da ginnasio di Viareggio e mi mise
in uno dei collegi più importanti d'Italia, Alla Querce di Firenze,
gestito dai padri barnabiti. Per me fu un bagno di libertà. Intanto
i preti non facevano politica e se ne infischiavano del fascismo, ma
la cosa che mi rese felice fu l'accoglienza dei miei compagni di
scuola e la possibilità di giocare tutti i giorni al pallone, che è
stato il mio primo vero e grande amore. Quando morì la nonna venne
sepolta accanto a sua sorella, anch'essa un vera ebrea che perché
non si era sposata, e sulla tomba ci fu scritto, come si può vedere
ancor oggi, Nilda Traverso e sua sorella Adele nei Bàrberi. Entrambe
sepolte sotto falso nome. Di questo certo il responsabile era suo
marito Domenico. Cosa che avrei fatto anch'io. Certo a Firenze era
un'altra vita, quante birbonate a quei poveri preti, quante sigarette
fumate tra i cespugli del collegio, le prime seghe. Si usciva due
volte la settimana. Facevamo spettacolo con quelle divisa da
principini con tanto di mantello quando faceva freddo. Si passava per
le strade e si suonava il campanello a tirante come usava allora in
tutte le case. La gente si affacciava e ci lanciava insulti. Divenni
subito il capoccia della mia camerata e mi guadagnai il titolo di la
Primula Rossa, un celebre film con Lesle Howard e Merle Oberon, la
mia attrice preferita di tutti in tempi. Perché all'interno del
palazzo avevamo anche il cinema una volta alla settimana, che si
trasformava in teatro quando c'era da recitare qualche commedia con
noi collegiali attori. Fu l'anno in cui Hitler e Mussolini
s'incontrarono a Firenze. Una città rinascimentale trasformata in
città di cartone con raffigurazioni abbastanza pacchiane ispirate al
militarismo. Dalla stazione in poi la città era imbandierata di
striscioni rossi con la croce uncinata che andavano dai tetti delle
case fino al marciapiede. I due mi passarono a cinque metri di
distanza, in piedi, mentre facevano il saluto romano. Mussolini in
divisa nera era sorridente, l'altro impavido, occhi freddi nascosti
dalla visiera del cappello, non poteva sorridere perché era senza
labbra e quel poco che aveva era coperto dai baffetti neri. La
macchino, aperta, era protetta dai motociclisti dei moschettieri del
Duce. Tutto era nero. Non voglio dire un corteo funebre, ma qualcosa
che non scaldava certo le anime. Dietro i Due, altre macchine, la
prima delle quali aveva a bordo i ministro Galeazzo Ciano e von
Ribbentrop. Entrati in Palazzo Vecchio i Capi si fecero vivi al
balcone adornato da un tappeto giallo con tanti gigli fiorentini
rossi che alleggerivano la scena. Applausi, ma non frenetici. Era un
saluto di cortesia che la gente della città, tutta in camicia nera,
rivolgeva. La cosa più divertente è che in quella piazza, in quegli
stessi momenti, c'era anche la mia futura moglie, fiorentina. Ci
conoscemmo solo 20 anni dopo alla Capannina di Franceschi. Per puro
caso. Il primo anno venni promosso. Il secondo venni rimandato a
settembre in latino e, come al solito, in italiano. Era uno scherzo
da preti perché gli amministratori avevano l'interesse, dato che la
quota d'iscrizione e mantenimento era molto alta, a portarci tutti
all'università. Ciuchi compresi. Ripeto, uno scherzo da preti che
non andò a genio a mio padre, che non solo mi tolse dal collegio, ma
non mi fece dare neppure gli esami di riparazione. E così, l''ano
dopo, 1939, data che segnò l'inizio della seconda guerra mondiale,
mi iscrissi, da ripetente, al ginnasio Costanzo Ciano di Pietrasanta,
per la prima volta aperto agli studenti versiliesi.
Stamani ho
incontrato al caffè Principe del Forte la più grande attrice russa,
Marina Orlova, e una delle migliori scrittrici francesi, Maria
Lafont. Vogliono sapere da me com'era, che gusti aveva, come si
comportava e tutte le vicende di Angelica Balabanoff. La grande
rivoluzionaria russa della quale sono l'ultimo esecutore
testamentario vivente. La Lafont era già venuta a trovarmi a Roma e
la Orlova l'avevo già vista due volte, una delle quali accompagnata
dall'ambasciatore italiano a Mosca, Cesare Ragaglini. Gente colta,
venuta apposta al Forte dei Marmi. La Orlova reciterà in un film la
parte della Balabanoff, la donna che ha scoperto Mussolini e che ha
partecipato alla rivoluzione russa, arrivando a San Pietroburgo, con
Lenin, nel famoso vagone piombato. Venne al Forte due volte, la prima
durante la prima guerra mondiale, ospite della vedova del martire
irredentista Cesare Battisti, che fu anche deputato socialista al
parlamento austriaco. La seconda volta, invitata da me, ospite in
casa mia nel 1952, per celebrare il 60° della fondazione del partito
socialista. L'avevo conosciuta a Milano al congresso
dell'Internazionale socialista. Alla fine del congresso una gran
donna come lei, si prestò umilmente a fare da interprete a gente
come l'nglese Clement Attlee (in quel periodo premier della G.B, dove
aveva fatto fuori alle elezioni un uomo come Churchill, subito dopo
la seconda guerra mondiale), lo svedese Taage Erlander, il francese
Guy Mollet già presidente del consiglio, il tedesco Erich Ollenhaer,
l'indiano M.S. Gokhale, il danese Hans Hedithof, l'austriaco Adolf
Scaerf, futuro presidente della repubblica, l'olandese Koos Vorrink,
il belga Paul Henry Spaak, zio dell'attrice Caterine Spaak, anch'egli
ex presidente del consiglio, lo spagnolo Rodolfo Llopis, il polacco
Adam Ciolkosz. Tradusse in tutte le lingue. Rivoluzionaria e
poliglotta. In qui momenti pensai a mia madre, beghina e bacia pile,
e a mio padre, conservatore. E mi dissi che sarebbe successo se
avessero conosciuta una donnetta del genere. Decisi di avvicinarla.
Era sotto il palco, davanti alla Galleria. Mi sembrò più bassa di
quello che era. Mi presentai. Conosce Forte dei Marmi? e mi rispose
che c'era stata quand'era la presidente di Zimmerwald , il gruppo
internazionale dei socialisti di tutti i paesi in conflitto tra loro
durante la prima guerra mondiale. E aggiunse che proprio in quei
giorni un suo discorso a Viareggio venne interrotto dalla polizia per
i toni accesi che usava davanti a una folla di marinai e operai.
Sicuro che mi dicesse di no, le chiesi se se la sentiva di venire a
parlare nel mio paese, piccola borgata, ma ricco di tanti socialisti.
Non mi disse di no. Si mise a rumare nella sua enorme sporta
cavandone un taccuino. Poi arrivò la risposta: “Le va bene il 16
novembre? Verrò in treno, le comunicherò a che ora arriverò alla
stazione più vicina”. Feci un salto di gioia e l'abbracciai. Fu un
successone. Vennero da tutta la Versilia, da Lucca e da Firenze. Il
teatro Principe riboccava. E in casa mia andò bene. Mio padre
smaniava di conoscere la donna che aveva lavorato accanto a
Mussolini, ma quando, mentre dava ordini a mia madre in modo un po'
padronale, gli gridò: ”Ma come si permette di trattare una donna
in questo modo. Non è mica la sua serva!”. Babbo Vito per la prima
volta in famiglia dovette abbassare la testa. Ricchissima di
famiglia, stufa di vivere nei privilegi, la Balabanoff se ne andò di
casa. Sua madre tentò di impedire questa sua volontà, ma quando la
ragazza montò sulla carrozza che la portava al treno, le gridò
dietro: “Non sei tu che te ne vai, ma sono io che ti caccio. E
quando morirai mi chiederai perdono". Infatti quando spirò, io
ero presente, pronunciò diverse volte il nome di “mamuska-mamuska”
mandandole dei baci. A Bruxelles conobbe Antonio Labriola, il più
grande marxista dell'epoca, e lui la portò in Italia facendola
iscrivere al PSI e il partito la mandò subito a Lugano a insegnare
il tedesco ai lavoratori italiani. Una sera nell'aula le apparve un
uomo strano. Rosso in faccia, occhi rossi infuocati, barba lunga,
scomposto, mordeva il cappello. Alla fine della lezione, tutti se ne
andarono eccetto costui. Allora la Balabanoff si avvicinò al suo
banco domandandogli di cosa aveva bisogno. Lasciatemi perdere, sono
malato, disertore e disoccupato, ho preso la sifilide, penso che mi
ucciderò”. Era Benito Mussolini.
L'estate del
1939 me la dovetti passare a fare il garzone nella bottega di mio
padre, a cominciare dall'andata due volte al giorno alla stazione
ferroviaria di Querceta a ritirare i pacchi dei giornali che
vendevamo nei negozio del centro del Forte e delle quattro edicole
che aveva messo in piedi dalla Capannina di Franceschi a Vittoria
Apuana. Ma la cosa più divertente fu quella di mettere in piedi una
squadretta di calcio al bagno Montecristo, la Rondinella, composta da
ragazzini sotto i dieci anni. Si giocava sulla rena e io facevo
l'allenatore. Canottiere bianca con una striscia di stoffa azzurra in
verticale, non perdemmo mai una partita, giocando quasi tutti i
giorni nello spazio dietro le capanne del bagno Roma. Roberto
Tacchella in porta, Sandro Mazzucchi e Vittorio Agostini terzini,
Giorgio Ferraresi centro campista, Enrico Baralla e Giuliano Traverso
ali d'attacco e Luciano Sacchi centro avanti. Qualche volta giocò
Enrico Mazzucchi , il più piccolo della squadra, che finì poi nella
Juventus di Boniperti e nel Cagliari di Gigi Riva. Alla ripresa della
scuola, questa volta a Pietrasanta, il grande incontro con Gianfranco
Tonini, che diverrà il più grande amico della mia vita. Il ginnasio
del capoluogo versiliese fu una creatura del fascismo. Era podestà
Giovanni Bresciani, segretario del fascio Andrea Ballerini, ed era al
massimo della celebrità Leone Tommasi, per non dimenticare il grande
imprenditore di scultura Dario Luisi. Tra i professori Leila Luisi,
allora fidanzata, e poi andata sposa con l'onorevole ingegnere Oscar
Galleni, deputato alla Camera dei fasci e corporazioni. E infatti tra
miei compagni di claasse c'erano Arnaldo Ballerini, Marcello Tommasi
e Giuliano Luisi. Da ricordare Giancarlo Polacci, Costantino
Paolicchi e Silla Silvesri, con i quali prendevo il tramve a piazza
Marconi, si cambiava al Fiumetto e si scendeva a Porta a Pisa. Le
scuole erano collocate nei conventi di Sant'Agostino prima e di San
Leone dopo. Tutti innamorati, si fa per dire, delle ragazze che
frequentavano la scuola, a cominciare dalla Sandra Biucchi, che era
l'unica femmina in classe mia, dalla Franca Pardini, all'Anna Maria
Telara e della Gabriella Tirinnanzi. Quello che mi colpiva in
Gianfranco, la sua simpatia, il modo di parlare seravezzino e la sua
intransigenza antifascista. Figlio di uno, il sor Nicola, che era
stato podestà di Stazzema e segretario del fascio al Forte, ma che
era un antitedesco per avere combattuto con la baionetta in canna
contro i krucchi nella prima guerra mondiale, Gianfranco ce l'aveva a
morte con i fascisti. In famiglia sentiva radio Londra, proibito dal
regime, cosa che io non poteva fare perché mio padre l'ascoltava in
camera sua, chiuso a chiave. Così non potevo sentire quello che
faceva, soprattutto perché non si fidava di me, dato che potevo
raccontare a scuola quello che succedeva a casa mia. Gianfranco
invece ascoltava Harold Stevens, il colonnello Buonasera, e ne
parlava ad alta voce, raccontando quello che succedeva in politica,
in Italia e nel mondo. Una fiumana. Quando poi scoppiò la guerra e i
nostri soldati avanzavano, lui diceva che “facevano la trottatella
del miccio”. Il giorno poi, mentre davanti alla cartina geografica
della Libia scherzava sui nostri combattenti cui “a Giarabub il
culo gli faceva lippe-lappe”, entrò all'improvviso in aula la
professoressa Luisi, udì le sue parole, gli piombò addosso e gli
appioppò un ceffone tale da fagli perdere l'equilibrio. Cadendo si
fratturò una gamba e per un paio di mesi dovette girare con
l'ingessatura e le stampelle. Per me divenne un martire antifascista.
A entrambi non ci piaceva studiare. La scuola non era fatta per noi
ribelli e sognatori, sopratutto imparare le poesie a memoria. Era
anche un inventore. La professoressa di francese lo interrogò e gli
domandò cosa aveva mangiato il giorno prima. E Lui: “La viande en
escatol”. La carne in scatola. Schioccò una risata generale. La
risposta corretta sarebbe stata “La viande en boite”. Ma lui
italianizzò anche il francese. E' sempre stato liberale e io
socialista, ma ci univa lo stesso antifascismo. Siamo stati legati a
certi principi di libertà, finchè, da vecchi, fondammo con Manlio
Cancogni, Marcello Tommasi e la medaglia d'oro Emilio Barberi,
l'Unione Versiliese, un movimento autonomista contro lo strapotere
dei partiti politici. Il 10 giugno 1940 l'Italia dichiarò guerra
alla Francia e all'Inghilterra, al fianco della Germania nazista.
Sembrava a
tutti che il Vincere e Vinceremo lanciato da Mussolini da palazzo
Venezia dovesse avverarsi veramente. Ecco perché ho scritto un libro
dal titolo “La Versilia ha vinto la guerra”. Quel 10 giungo,
sapendo che il Duce avrebbe parlato, con mio cugino Fabio, che non
avevamo niente da fare, capitammo in piazza Garibaldi al Forte,
davanti al fortino, molto prima dell'ora stabilita. E così
osservammo le operazioni degli elettricisti che dovevano impiantare
l'alto parlante. E così sentimmo alcuni vecchietti, avevano una
cinquantina d'anni, ma per dei quattordicenni quella era un'età da
vecchi. Si dicevano”Sembra che il Duce voglia dichiarare la guerra,
ma contro chi?” “E che ne so'” rispondeva quell'altro. Beata
innocenza. Piano piano la piazza si riempi. Non tutti erano in
camicia ner.a, ma il paese era lì, al completo. Non mancava nessun.
Qualche ragazzo era salito sugli alberi. Alle 17 in punto parlò
Mussolini. Grande parole, scolpite nel armo. Quand'era direttore
dell'Avanti! il quotidiano socialista vendeva 200 mila copie al
giorno. Era uno che con le parole ci sapeva fare. Un discorso breve,
di un quarto d'ora. Mi sono rimaste impresso queste parole:
“L'Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi,
forte, fiera e compatta come non mai. La parola d'ordine è una
sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed
accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere!”. La folla
di tutta Italia impazzì. Al Forte impazzì tre volte. In un paese di
poco più di sei mila anime c'erano vecchi donne, giovani, ragazzi e
puppanti. Dal portone del palazzo del littorio uscirono fuori
bandiere e gagliardetti e la gente li seguì compatta. Passarono per
via Mazzini che erano già il fila per dieci, da un marciapiede
all'altro, arrivarono alle scuole, dov'è oggi è il Comune,
svoltarono per via Regina Margherita, poi Matteoti, fecero il giro di
piazza Marconi, ripresero via Carducci e le bandiere rientrarono
nella sede del fascio. Mai vista una manifestazione di gioia e
felicità del genere al Forte. La gente cantava gli inni che aveva
imparato a scuola. “Allarmi all'armi, noi del fascismo siamo i
componenti, la causa sosterrem fino alla morte e lotteremo sempre
forte forte finché terremo il nostro sangue in cor”. Oppure:
“Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, nel dolore e
nell'ebrezza il tuo canto esulterà”, ma il comico veniva con
”Andar pel vasto mar ridendo in faccia a monna morte ed al destino,
colpir e seppellir ogni nemico che s'incontra sul cammino” Un
intero popolo fascista. Qualcuno mi ha raccontato che solo la maestra
Nicolina Chiarini avrebbe detto da un lato della piazza: “Questi
non sanno che vuol dire guerra. Io ho vissuto la Grande guerra:
quanti morti”. Tornando verso casa, vidi la gente seduta ai
tavolini del caffè Roma. Si brindava. Sembrava Natale ed eravamo
alla vigilia dell'arrivo dei villeggianti. Il babbo della mia bella e
dolce compagna di scuola Telda, Alfredo Frati, montato su una sedia
cercava di imitare il Duce. A un certo punto concluse gridando “Fra
una settimana a Parigi! Fra un mese a Londra”. La guerra cominciò
così. Ecco perché ho scritto “La Versilia ha vinto la guerra, che
si trova ancora nelle librerie dei quattro Comuni del Fiume. I giorni
successivi li passai con Fabio, Gianfranco, Angelo Ricci, Mario
Ceretti, Mario Ugazzi e Giampaolo Barbetti. Si diceva. “Ma che che
guerra è questa. Tutto come prima”. Al Forte non successe altro.
Misero la tessera per gli alimentari, ma ognuno pensava che fosse una
cosa provvisoria. Finché si seppe che il nostro concittadino, il
marinaio Guido Giannotti, era morto nell'affondamento
dell'incrociatore Espero. La musica cambiò e la tristezza invase il
paese. Si sentivano tutti giorni alle 13 dalla radio, che allora di
chiamava EIAR, i comunicati di guerra emessi dal quartiere generale
delle forze armate. Al caffè in quei minuti, ci si doveva alzare
tutti in piedi e stare sull'attenti. E così fu quando il giornale
radio dette notizia degli atti eroici compiuti da Lido Poli che aveva
abbattuto cinque aerei inglesi nel cielo di Giarabub, e di Emilio
Barberi che, entrato con un barchino pieno di esplosivo nella rada di
Suda, fece saltare un paio di navi inglesi. Si fece una decina di
anni di prigionia. Ma, quando tornò in paese con la medaglia d'oro,
raccontò che, subito dopo essersi gettato in acqua, raggiunse il
molo per godersi lo spettacolo di fuoco che aveva provocato. Era
solo, gli venne voglia di fumarsi una sigaretta, ma non gli si
accendevano i fiammiferi. Vide passare due sentinelle inglesi e
chiese loro un accendino: “Du you ave a match?”. Quelli gli
accesero la sigaretta, ma si accorsero del suo accento e lo
arrestarono. Fu un prigionia lunga e durissima. Quando poi, sbarcò a
Napoli dopo molti anni dopo, incontrò due soldati britannici. Li
avvicinò e gli chiese se erano inglesi. Ricevuta una risposta
positiva, li cazzottò, gridando, quando i due erano a terra
sanguinanti: “Adesso siamo pari”...
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© giorgio giannelli
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