Parlare
di Ernesto Che Guevara a più di mezzo secolo dalla sua morte è come contemplare
un cielo stellato, non si sa da dove cominciare né dove finire.
I
mortali, infatti, dovrebbero limitarsi, in questi casi, a tacere di
fronte all'incommensurabilità degli immortali.
Ma
anche un mortale può, come Kant scrisse efficacemente, considerare
la morale che c'è in lui e oltre ad essa il cielo stellato che
permane sopra di lui.
Perciò, nonostante il fiume di inchiostro che è stato versato,
narrando la vita ed il pensiero del Che, fino a farlo divenire una
icona rivoluzionaria, cercheremo di capire che la sua rivoluzione fu
soprattutto etica e morale, prima ancora che sociale, economica o
politica. E che fu, anche per questo, una delle vittime più illustri
di un comunismo divenuto artificio e negazione della stessa morale su
cui esso avrebbe dovuto fondarsi.
Il
Che scoprì fin da bambino la ribellione e l'ingiustizia e fu spinto
a trovare un modo per combatterle nell'immediato, anche dall'urgenza
di una vita incalzata da una malattia che gli consentì di essere
riformato nel servizio militare, nonostante poi sia diventato un
grandissimo Comandante militare rivoluzionario, così sembra che
anche il destino abbia voluto unire la sua ironia a quella
proverbiale del Che. La sua vita, infatti, non bruciò lentamente
come una candela, ma arse di un fuoco impetuoso e trascinante
dall'inizio fino alla fine, espandendo la sua luce ed il suo calore
oltre i confini dello spazio e del tempo. Tanto che ancora oggi essa
perdura intatta nella sua fulgida essenza, infatti per quelli come
lui, finisce sempre una vita terrena per iniziarne una leggendaria,
che sicuramente anche gli esploratori spaziali o i futuri combattenti
di guerre stellari di liberazione non potranno fare a meno di
ricordare e tramandare.
Le
tappe di questa vita straordinaria sono arcinote, per cui faremo a
meno di ricordarle, lasciando ai biografi la narrazione dettagliata
di questo percorso, dall'inizio fino alla fine, e raccomandando,
però, a coloro che davvero vogliono pensare al Che e non limitarsi a
parlarne o a scriverne o a sproloquiare su di lui, di leggere queste biografie, magari
mettendole a confronto, per scoprirne anche le autenticità e le
incongruenze.
Tra
le migliori, ci sentiamo di raccomandare quella di Paco Ignacio Taibo
II e di Castaneda, gli scritti di Moscato, quella di Massari (purtroppo mutila dell'ultimo
periodo, dato il tempo in cui fu scritta) oltre a quella di
Anderson, che però invitiamo a leggere per ultima dato che,
apparentemente può sembrare la più documentata e celebrativa oltre
che la più famosa, ma concretamente risulta una delle più
mistificatorie, a partire dalla data di nascita e dalle circostanze
della morte del Che.
Anderson,
infatti, scrive che il Che nacque un mese prima, di quanto lui stesso
ricordò persino nel suo diario boliviano, adducendo solo delle prove
testimoniali, quasi volendo fare intendere che la sua vita sorse da
una bugia. Un modo direi alquanto subdolo di fondare la biografia di
un rivoluzionario, e conclude narrando una sorta di riappacificazione
nell'abbraccio tra il suo carnefice e la sua vittima, lasciando
intendere che la CIA volesse il Che più vivo che morto, tutte
panzane per altro smentite da un rapporto dettagliato di due
scrittori e storici cubani: Adys Cupull e Froilàn Gonzàles,
intitolato “La CIA contra el CHE” e pubblicato in italiano da
Edizioni Achab nel 2007.
Anche
i film di recente usciti anche in Italia, per la regia di Steven
Soderbergh, rivelano più o meno lo stesso intento, forse meno nel
primo sulla vicenda rivoluzionaria cubana, ma sicuramente di più nel
secondo sull'impresa boliviana: rappresentare il Che come un
rivoluzionario straordinario ma molto donchisciottesco, cioè
utopistico e sostanzialmente poco cosciente della realtà e della
contingenza in cui si trovò ad operare, insomma una sorta di eroe e
Cristo solitario, immortalato dalla sua ultima immagine cadaverica
del lavatoio di Vallegrande. Una icona da venerare ed esaltare ma
concretamente sempre fuori dal tempo.
Nonostante
i tentativi di depistaggio e demistificatori messi in atto anche
mediante film e opere monumentali, la realtà è però nota da tempo,
e fu edita anche in un libro: Che Guevara and the FBI, con documenti
reperiti negli archivi dell'FBI da due illustri giuristi americani
Micahel Ratner e Michael Steven Smith, due casse con circa mille
rapporti della CIA dal 1954 al 1968. Da essi si evince che la CIA era
interessata ad ogni debolezza anche fisica del Che, per poterla
sfruttare anche in ogni eventuale complotto, al punto da ostacolare
il rifornimento di inalatori che gli erano necessari per l'asma o
addirittura per potere infilarci dentro del veleno. Nello stesso
rapporto si evidenziava che il Che era seguito con molta attenzione
da prima che incontrasse Castro, dai tempi del Guatemala e del colpo
di Stato contro Arbenz. Già da allora si segnalava che il Che aveva
cercato di resistere al colpo di Stato e che “La cosa migliore è
cominciare a far guerra a quest'uomo”. Così la CIA non lo mollò
mai, con precisione ed efficienza certosina, spiandolo anche durante
la sua lotta sulla Sierra Maestra e considerandolo effettivamente per
quello che era, cioè un uomo senza particolari ambizioni personali,
che combatteva in maniera disinteressata per una causa di liberazione
senza ulteriori ambizioni politiche, dotato di grande coraggio, privo
di paura, in grado di riscuotere molta fiducia da coloro che lo
circondavano e seguivano, soprattutto un intellettuale. Un agente che
lo seguiva descrisse anche il suo modo di fumare i sigari, di leggere
libri ai suoi uomini e addirittura di fare il bagno.
Le
truppe boliviane che avevano catturato il Che avevano ricevuto un
addestramento da militari statunitensi che erano appena arrivati dal
Vietnam e quando il Che venne assassinato, sul posto vi erano Eduardo
Gonzalez e Felix Rodriguez, agenti cubani della CIA che avevano avuto
già esperienza militare a Cuba, Salvador ed in Iran. Il giorno
successivo alla morte del Che, arrivò un rapporto dettagliato degli
eventi dal ministero degli esteri boliviano alla CIA stessa, che
perse le sue tracce solo durante la parentesi del viaggio in Africa
da cui il Che fu convinto a tornare a Cuba per l'impresa boliviana.
Ma
come fu catturato e morì veramente il Che?
Vediamo
di seguire i passaggi essenziali di tali eventi, senza le solite
mistificazioni aggiunte artificiosamente da certa vulgata
subdolamente propagandistica e denigratoria.
La
mattina dell' 8 di Ottobre 1967, il Che e i suoi guerriglieri erano
imbottigliati in una gola che offriva scarse possibilità di fuggire
e di nascondersi, in seguito a varie delazioni, l'esercito boliviano
manovrato dalla CIA era già arrivato a circondarlo, ottenendo la
certezza della sua presenza grazie alla spiata di un contadino.
Di
mattina non vi era alcuna prospettiva di fuga o di poter sfuggire a
quella morsa, l'unica speranza poteva essere quella di iniziare un
combattimento solo nel pomeriggio inoltrato, con lo scopo di eludere
l'accerchiamento durante la notte, ma la morsa si stava stringendo
attorno ai guerriglieri del Che. La gola era lunga circa 1500 metri e
larga 60, fino a restringersi a due circa, in presenza di un
ruscello. La battaglia iniziò alle 13, 30 quando una pattuglia del
Che cercò di avvertire un' altra di ripiegare perché l'esercito
boliviano stava spezzando in due, con la sua avanzata, lo
schieramento del Che. I pendii scoscesi non consentivano sortite né
vie di fuga, quindi non restava che resistere sperando nella notte.
Quando
l'esercito avanzò nella gola, il Che decise di ritirarsi,
consapevole che con sé recava un gruppo di compagni non più in
grado di combattere.
A
quel punto, la sua proverbiale generosità e il suo sprezzo per il
pericolo gli fecero prendere la decisione di dividere il suo gruppo,
cercando di salvare la vita ai malati e ai feriti. Restò a
fronteggiare il suo nemico, coprendo la fuga dei suoi compagni, ma
l'esercito aveva chiuso il cerchio e usava anche mitragliatrici
pesanti, così il Che fu ferito e le sue armi furono rese
inutilizzabili. Tre dei suoi compagni restarono a frenare i soldati
mentre lui e Willy si diressero verso una altura, forse proprio per
alleggerire lo scontro e depistare i soldati. Ma i tre compagni
furono investiti da una granata e lui con Willy vennero scoperti e
catturati. La favola che il Che si fece riconoscere dicendo “valgo
più da vivo che da morto” è una ulteriore mistificazione, in
realtà fu Willy che espressamente disse chi era per evitare che
fosse ammazzato sul posto. Poi venne chiamato il comandante Prado e i
due prigionieri furono portati nella frazione di La
Higuera dove furono rinchiusi in una scuola che allora aveva due
stanze adibite ad aule.
Fu
il colonnello Anaya a mantenere in vita il Che quella notte, in attesa
del suo arrivo il giorno seguente, con un messaggio mandato a La
Higuera alle 8 di sera. Il governo boliviano non sapeva cosa fare e
chiese immediatamente istruzioni a Washington, in Bolivia allora la
pena di morte era stata abolita. Che gli USA o la CIA volessero vivo
il Che è una favola smentita da centinaia di documenti, che non
possono certo essere sostituiti da qualche incartamento emesso post
mortem con vari omissis.
Già
dopo il fallimento dell'operazione di sbarco a Playa Giròn, la CIA
aveva pianificato di far fuori Fidel e Raul Castro insieme al Che.
A
tal scopo, nel 1962 era stato creato a Washington un gruppo speciale
per eseguire tale progetto denominato semplicemente “Cuba”,
composto da George McBundy, consigliere presidenziale per la
sicurezza nazionale, Alexis Johnson, del Dipartimento di Stato,
Roswell Gilpatrick, del Pentagono; John Mc Cone, della CIA e Lyman
Lemnitzer dello Stato Maggiore. Come si vede bene, tutto il gotha
dell'amministrazione USA era impegnato a neutralizzare la rivoluzione
cubana e ad eliminare i suoi principali artefici. Negli anni seguenti
l'intento non venne mai meno ma, semmai, fu incrementato con mezzi
ulteriori ed ulteriori campi di indagine.
La
decisione quindi di eliminare il Che, non fu presa all'ultimo
momento, ma era stata programmata da anni, si trattava ora solo di
metterla in pratica, una volta accertato che lì in quella scuola ci
fosse veramente lui. Quindi già alle 23 dell'8 ottobre, prima che a
La Higuera spuntasse l'alba, arrivò in Bolivia al presidente
Barrientos dagli USA l'ordine di esecuzione, che doveva essere solo
trasmesso a La Higuera ed eseguito. L'amministrazione americana
allora era in gran parte preoccupata di poter mostrare al più presto
un suo trofeo della lotta al comunismo, in un periodo di grande
difficoltà per le spese crescenti e dispendio di vite umane nella
guerra del Vietnam, in cui l'escalation militare era pienamente in
atto, suscitando proteste sempre più diffuse presso l'opinione
pubblica americana. Così il trofeo, come sappiamo, venne poi
mostrato ampiamente nel lavatoio di Vallegrande, anche se il governo
boliviano cercò disperatamente di far credere che il Che fosse stato
ucciso in battaglia e non a sangue freddo, ma, dati i numerosi
testimoni, come sappiamo, con ben miseri risultati.
Durante
la notte tra l'8 e il 9 ottobre, fuori dalla scuola, vari soldati
ubriachi schiamazzarono e insultarono il Che denigrandolo come “mito,
mito”..impotente, sembra che cercassero anche di entrare ma furono
fermati, tra di loro c'era anche Teran, il suo giustiziere che che finì poi per nascondersi in preda agli incubi. Per il resto della notte, il
Che conversò con il soldato Huerta che era di guardia, ma la sua
testimonianza sul fatto che il Che dopo avergli spiegato gli intenti
della sua impresa, lo invitasse a slegarlo e ad aiutarlo a fuggire,
non ci pare del tutto attendibile viste le condizioni del Che,
impedito a muoversi per la sua ferita alla gamba, e dato che il campo
era pieno di soldati che avrebbero immediatamente reagito. Forse
quella del Che fu l'ennesima provocazione ironica per mettere alla
prova il soldatino boliviano.
La
mattina seguente anche la maestra che egli incontrò lì inizialmente
prese ad insultarlo, poi però cominciò a discutere con lui, e si
persuase che il personaggio che aveva di fronte era radicalmente
diverso da quello che le avevano descritto, così decise di dare una
sua testimonianza coraggiosa, mettendo anche a rischio la sua vita e
la sua reputazione.
Alle
6,30 del mattino del 9 Ottobre, arrivarono in elicottero Anaya e
l'agente cubano della CIA che si faceva chiamare Felix Ramos (alias
Rodriguez), il quale aveva sostituito nell'elicottero da due posti il
capo dell'intelligence boliviana (questo la dice lunga su quanto
contasse allora il governo boliviano).
Zenteno
Anaya lesse i bollettini militari e poi si diresse con Felix dal Che,
parlandogli brevemente. Dopo entrò Felix e gli stessi militari hanno
raccontato che pareva che i due si conoscessero, ma non fossero
affatto disposti a fraternizzare come lo stesso Felix e certe
biografie mistificatorie hanno raccontato. L'agente della CIA
cominciò infatti secondo tali testimonianze, ad insultarlo e il Che
replicò con disprezzo chiamandolo mercenario e traditore.
Alle
8,30, venne istallato un impianto radiofonico a lungo raggio per
inviare messaggi cifrati e si cominciò a fotografare tutto quello
che era stato trovato insieme al Che.
A La Paz ormai, nelle prime ore del mattino, era stata già presa la
decisione esecutiva e qualcuno aveva già diramato la morte del Che
in combattimento, si trattava a quel punto solo di confermarla con il
suo cadavere. Venne pertanto inviato un messaggio cifrato all'agente
cubano della Cia Felix Ramos con l'ordine di eliminare il Che.
Il soldato Huerta che aveva conversato con il Che durante la
notte e gli aveva anche dato una coperta, racconta che lo stesso
Felix, a quel punto, entrò nella scuola e gli ordinò di uscire, poi
prese il Che per le spalle , lo percosse, gli tirò la barba e gli
urlò che stava per ammazzarlo (altro che abbracci e raccomandazioni
famigliari come egli stesso ha raccontato con Anderson, e come
continua a millantare) Huerta raccontò che, in quanto aveva
l'incarico di preservare l'incolumità del Che, entrò e si mise in
mezzo, facendo anche cadere l'agente CIA, il quale da terra gli gridò
“Me la pagherai presto, boliviano di merda, indio selvaggio,
idiota!” A quel punto Huerta stava per colpirlo, ma Selich si mise
in mezzo.
La
foto che ritrae Felix con il Che prigioniero, con un presunto scatto poco prima
della sua esecuzione, è di dubbia autenticità, basti solo osservare
le ombre di Felix Ramos (alias Rodriguez), del Che e dei soldati che
vanno in direzioni diverse. Con ogni probabilità, la foto al Che fu
scattata al momento della cattura anche perché, prima della sua
esecuzione le mani gli erano state legate dietro la schiena, e
sovrapposta in seguito, con un fotomontaggio, per mostrare una sorta
di trofeo di guerra.
Alle
11 del mattino, la decisione fu presa e si programmò l'esecuzione,
l'agente CIA aggiunse solo che l'avrebbe messa in atto con piacere,
Anaya chiese quindi a Felix di occuparsene personalmente. Poco dopo,
venne portata al Che ed agli altri guerriglieri nella stanza attigua
e destinati alla stessa fine, una zuppa di arachidi, dalla maestra
che aveva conversato con lui. Tre soldati addestrati dalla CIA si
resero disponibili ad eseguire l'ordine e tra di loro vi era Teran,
che voleva vendicare alcuni compagni morti ed era stato tra quelli
che avevano urlato al Che la notte prima..mito! mito!..in senso
denigratorio. Il resto lo ha raccontato lui stesso, aveva ricevuto
solo l'ordine di non deturpare il Che in faccia, affinché fosse ben
riconoscibile.
Bevve
parecchio prima di entrare e fu suggestionato dal Che che pretese di
morire in piedi e non seduto sulla sua sedia, lui lo fece alzare, poi
arretrò quasi impaurito dal suo sguardo, allora gli altri da fuori gli
gridarono: “spara coglione!”..e il Che quasi amabilmente
ed ironicamente gli disse.. “Mira bene..lo vedi che non sono un mito,
ma vai ad ammazzare solo un uomo?” una battuta che evidentemente si riferiva alle
grida della notte precedente, l'ultima della sua vita.
E
così Teran colpì l'uomo e fece nascere il vero mito. Non si sa
bene se il Che morì con quella raffica o venne fatto morire
lentamente, con un colpo alla volta, l'ultimo dei quali riservato
proprio a Felix, come fu detto al regista Roberto Savio durante la
realizzazione del suo documentario che gli costò l'espulsione dalla
RAI ma che, tuttora, realizzato pochi anni dopo la morte del Che,
rappresenta il migliore documento storico filmato su quella vicenda.
In
ogni caso, da allora il Che, lasciato il mondo terreno ha cominciato
a percorrere l'universo della leggenda e dell'epopea, rappresentando
per decenni e tuttora il principale punto di riferimento di tutti i
movimenti rivoluzionari ed antimperialisti del mondo, tanto che, per
la sua “icona”, si è parlato e si parla tuttora di “seconda vita del Che”
La
CIA, a quel punto, data l'enorme popolarità di una figura e di un
mito stavolta vero e globale, non ha potuto far altro che cercare di
imbalsamarlo e ridurlo a gadget, a fenomeno letterario e romantico,
con l'ultima trovata alquanto di pessimo gusto, di assimilare la sua
figura a quella di Gesù Cristo, tanto per rilevare che non sarà mai
di “questo mondo”. E' una strategia che perdura ancora oggi, 50
anni dopo il suo sacrificio e che tende a “vendere” la sua
immagine in tutti i gusti e in tutte le salse, nascondendo
accuratamente ciò che egli scrisse e fece davvero. Tanto che persino
alle feste del redivivo PCI, troviamo tuttora le tazzine, i
portachiavi, le magliette, le felpe con l'immagine-icona del Che,
piuttosto che i suoi libri i quali dovrebbero invece essere ristampati.
Ma...quelli più interessanti, non sono stati nemmeno tradotti..
A
ripercorrere le tappe del suo pensiero, si rischia di scrivere un libro
e non un articolo che, come abbiamo già detto all'inizio, appare già
come un misero spiraglio sull'universo..ma sarà il caso di
mettere comunque a fuoco alcuni passaggi.
Il
Che era un lettore ed uno scrittore spasmodico, ovunque fosse e
ovunque andasse, portava con sé sempre carta per scrivere e carta
per leggere, tanto che addirittura in Bolivia avrebbe voluto leggere,
tra l'altro, l'opera monumentale di Gibbon sulla caduta dell'Impero
Romano che aveva chiesto a Debray di procurargli, prima di
accompagnarlo nel suo ritorno e dividere così rovinosamente le sue
forze che non riuscirono più a ricongiungersi in Bolivia, vero ed
unico mastodontico errore di quella impresa che, fino ad allora,
aveva pure conseguito degli importanti successi, come alcune vittorie
sul campo e la rivolta dei minatori, purtroppo non raggiunti dai
guerriglieri, solo perché il Che, che avrebbe dovuto inizialmente
recarsi in una sede vicina ad essi, era stato depistatato dal capo
del partito comunista boliviano in una delle zone peggiori e più
impervie della Bolivia, solo con la scusa che da lì l'Argentina era
più raggiungibile e la rivoluzione avrebbe potuto dilagare anche nel
suo paese. Altro errore macroscopico, ma giustificabile almeno solo
con il fatto che il Che non sapeva nulla del territorio boliviano, e
non dette molta importanza alla sede, perché la sua impresa non era
mirata a far sorgere una rivoluzione in Bolivia, dato che i contadini,
tra l'altro, parlavano una lingua spesso ai guerriglieri
incomprensibile e che già in quel luogo vi erano state delle riforme
agrarie, ma era stata concepita piuttosto come una scuola di azione
rivoluzionaria per tutto il continente sudamericano e avrebbe dovuto,
per questo, essere solo una sede di coordinamento per imprese da
svolgersi altrove.
La
CIA sapeva che il Che era in Bolivia? Inizialmente no, ma sicuramente
lo sapeva l'URSS, già da prima che il Che partisse, e con ogni
probabilità fu avvertita da Cuba, se non direttamente da Fidel,
probabilmente da chi in quel momento era “fraternamente” vicino a lui, che
allora era tra i più filosovietici personaggi dell'amministrazione
cubana, il quale aveva criticato aspramente il Che al suo ritorno da Algeri,
mentre poi..ha avviato le riforme filoccidentali con l'aiuto di vari
papi.
La CIA fu avvertita dall'URSS che in quel periodo con gli USA stava raggiungendo degli accordi non tanto di coesistenza pacifica, quanto piuttosto di delimitazione delle reciproche sfere di influenza? Se uscisse un documento a comprovarlo, sarebbe davvero uno scoop, ma non ci sorprenderebbe del tutto, dato che i suoi ordini per il partito comunista boliviano sicuramente partirono prima che il Che arrivasse in Bolivia e contribuirono ad isolarlo completamente soprattutto da ogni rete urbana.
La CIA fu avvertita dall'URSS che in quel periodo con gli USA stava raggiungendo degli accordi non tanto di coesistenza pacifica, quanto piuttosto di delimitazione delle reciproche sfere di influenza? Se uscisse un documento a comprovarlo, sarebbe davvero uno scoop, ma non ci sorprenderebbe del tutto, dato che i suoi ordini per il partito comunista boliviano sicuramente partirono prima che il Che arrivasse in Bolivia e contribuirono ad isolarlo completamente soprattutto da ogni rete urbana.
Gli
USA, in ogni caso, ebbero quasi da subito, il sentore che il Che
operasse in Sudamerica, molto di più di quanto erano riusciti a
capire in precedenza sul suo soggiorno africano e postafricano, ma
mancò loro la prova effettiva, fino alla cattura di Bustos e di
Debray, così da allora si attrezzarono concretamente per eliminarlo.
Anzi, c'è il sospetto fondato che proprio l'invio di Debray fosse
inserito in una precisa strategia di caccia al “tesoro”, anche
perché egli fu accompagnato da un giornalista che con tutta
probabilità era una spia.
Abbiamo
detto inizialmente che il Che fu la “vittima più illustre del
cosiddetto comunismo reale” e in effetti, considerando l'isolamento
a cui fu sottoposto già dal suo famoso discorso di
Algeri e la sorte che gli toccò sia in Africa che in Bolivia, proprio
a causa sia della impreparazione che del depistaggio di coloro che
avrebbero dovuto aiutarlo sul campo, di fatto, questa definizione non
appare poi così stravagante, anche se essa evidentemente non intende
avvalorare la tesi che Fidel lo mandò allo sbaraglio o volle farlo
fuori.
Fidel,
infatti, “creò” il Che, come personaggio rivoluzionario, sia
dandogli l'opportunità di partecipare alla sua impresa cubana, sia
dandogli incarichi prestigiosissimi, come la direzione del Banco
Nacional, e il Ministero dell'Industria che, di fatto, era anche un
Ministero degli Esteri, facendo cioè del Che il principale
testimonial e sponsor nel mondo di una rivoluzione che avrebbe dovuto
essere più umanista che comunista e che divenne tale, perché
allora, alla logica ferrea dei due blocchi geostrategici, nessuno
poteva sfuggire anche da non allineato.
Tra
i tanti errori commessi da Fidel, sul quale non ci soffermiamo, perché
lo abbiamo già fatto quando morì, ci fu quello di leggere la
lettera di addio del Che quando il Che era ancora vivo ed in Africa,
condannandolo così ad un esilio “rivoluzionario” permanente. La famosissima canzone di Puebla uscì in contemporanea, apparentemente celebrativa, ma sostanzialmente come un lamento funebre. Però
Fidel non fu mai avverso al Che nel suo internazionalismo, anche se i
due avevano due visioni diverse dell'internazionalismo stesso. Per il
primo, era un modo per salvare Cuba da un assedio sempre più
stringente, in particolare dopo il ritiro delle armi atomiche
dall'isola, per il secondo, invece, era una metodologia rivoluzionaria
indispensabile e permanente, per combattere l'imperialismo ovunque
nel mondo.
Non
ci sono documenti o prove che Guevara fosse trozkista oppure
filocinese, i cinesi dedicarono alla morte del Che solo un misero
trafiletto di giornale e non ci risulta che il Che fosse mai stato un
ammiratore di Trozskij nel corso della sua vita, anche se di sicuro
aveva letto alcuni dei suoi libri, forse al contrario lo fu di Stalin
(soprattutto come salvatore del Socialismo e combattente contro il
nazismo, lui era un appassionato lettore de “I giorni e le notti”
sulla battaglia di Stalingrado) ma solo nei primi momenti della sua
formazione marxista leninista che ebbe varie ulteriori fasi di
sviluppo.
La
più cruciale di queste tappe si svolse negli anni del Gran Debate,
quando a Cuba si discusse e si decise il destino futuro dell'isola.
Durante quel confronto tra economisti che si svolse tra il 1963 e il
1964 e che vide la partecipazione, tra gli altri, di Ernesto
Che Guevara, Marcelo Fernández Font, Alberto Mora, Luis Álvarez
Rom, Joaquín Infante Ugarte, Alexis Codina, Mario Rodríguez
Escalona, Miguel Cossío, Ernest Mandel y Charles Bettelheim, la
posizione del Che uscì sostanzialmente perdente.
Si
trattava, infatti, in estrema sintesi, allora di decidere se
l'economia cubana dovesse andare verso una grande industrializzazione
basata sullo sviluppo economico e sociale derivante da incentivi
morali più che materiali, oppure se la sua economia dovesse
continuare a giovarsi delle importazioni e della esportazioni,
continuando a privilegiare la monocoltura, specialmente della canna da
zucchero.
La
controversia però non si limitò allora alla comodità di autogestione o
al sistema di finanziamento, alle relazioni tra stimoli materiali e
morali, a questioni di pratica economica come il ruolo del banking,
dei costi di produzione, delle relazioni tra le imprese statali , e
altri. Il dibattito coinvolse il carattere ed i ruoli della legge del
valore e del piano nel periodo della transizione socialista, il
problema di una corrispondenza forzata tra il "livello"
assegnato alle forze produttive economiche e le relazioni esistenti
di produzione o per stabilire la portata del lavoro con la coscienza
nella costruzione socialista. Per la prima volta in America, si
svilupparono concetti fondamentali del marxismo, dell'economia
politica, dei possibili sistemi di gestione economica socialista,
messi in relazione con idee più generali della politica economica,
in un dibattito tra i leader di un paese socialista ed altri organismi
centrali per la sua economia, tra i quali gli economisti teorici noti
nell'Europa occidentale.
Il
Che in quella occasione attaccò i punti deboli della discussione
soprattutto in ambito teorico, riaffermando la grande fiducia indispensabile nelle capacità degli esseri umani di cambiare il mondo
senza ulteriori posizioni compromissorie e ponendo come
ineludibile la necessità di collegare teoria e pratica, valutando
le condizioni specifiche nel contingente ovunque nel mondo, e dicendo
esplicitamente "il compito di costruire il socialismo a Cuba
deve essere affrontato evitando il meccanismo (di una dottrina
economica predefinita) come la peste".
Iniziò
così il suo attacco ad una concezione dogmatica del marxismo
leninismo, in nome di una analisi specifica che possa portare a
considerare ogni formazione sociale in base alla sua storia da un
punto di vista induttivo.
Il
Che considerava quindi l'economia della transizione socialista
centrale ma non indipendente, era consapevole che non si può
sostituire il realismo dell'economia con l'idealismo della coscienza.
Comprendeva l'importanza degli sviluppi economici della società e
l'urgenza di promuovere efficacemente un modello di sviluppo nuovo
basato sulla centralità e responsabilità etica e culturale
dell'essere umano, sul governo consapevole dell'economia e non sulle
sue astratte leggi economiche
Il
Che però uscì sostanzialmente sconfitto da questo dibattito e con
tale sconfitta iniziò sia il suo progressivo processo di
emarginazione dall'ambito politico ed economico, sia la sua
maturazione di proseguire il suo intento rivoluzionario in altro
ambito: culturale e internazionale. Cuba, da allora, legò sempre più
strettamente le sue sorti economiche all'URSS passando, di fatto, dalla
condizione di paese non allineato a quella di paese satellite.
Il
Che avrebbe potuto prendere coscienza di tale sconfitta ed
emarginazione, e ritagliare per sé un altro incarico che gli sarebbe
stato del tutto pienamente congeniale: quello di Ministro della
Cultura, egli era a tutti gli effetti un intellettuale organico, avrebbe
potuto quindi restare a Cuba, dedicandosi a diffondere ed incrementare oltre che ad allargare
la dimensione culturale e popolare dell'isola. C'è anche un
documento che prova che il suo intento era anche quello, e per questo,
cercava di procurarsi sempre più libri. Ma la sua stoffa
rivoluzionaria doveva portarlo altrove.
Non
senza però levarsi una duplice soddisfazione, quella di portare a
compimento, prima con i discorsi e poi con l'azione, la sua tenace ed
indefessa lotta contro l'imperialismo di cui, come disse
testualmente: “non ci si può fidare nemmeno che per una inezia”
I
celebri discorsi che pronunciò prima di uscire di scena furono due:
il primo alla Assemblea delle Nazioni Unite l'11 dicembre 1964,
contro l'imperialismo statunitense, ne ricordiamo un passaggio
cruciale: “I
nostri occhi liberi si aprono oggi su nuovi orizzonti e sono capaci
di vedere quello che ieri la nostra condizione di schiavi coloniali
ci impediva di osservare: cioè che la "civiltà occidentale"
nasconde sotto la sua vistosa facciata una realtà di iene e di
sciacalli.
Perché non possiamo chiamare diversamente quelli che sono andati a compiere azioni cosi "umanitarie" nel Congo. Animale carnivoro che si nutre di popoli inermi; ecco a che cosa riduce l'uomo l'imperialismo, questo è ciò che distingue il "bianco" imperiale.
Tutti gli uomini liberi del mondo debbono prepararsi a vendicare il crimine del Congo.
Forse molti di quei soldati, trasformati in subumani dalla macchina imperialista, pensano in buona fede di difendere i diritti di una razza superiore; ma in questa Assemblea la maggioranza è costituita da popoli che hanno la pelle abbronzata da diversi soli, colorata da diversi pigmenti, e che hanno capito perfettamente che le differenze fra gli uomini non vengono dal colore della pelle, ma dal tipo di proprietà dei mezzi di produzione, dai rapporti di produzione.”
Perché non possiamo chiamare diversamente quelli che sono andati a compiere azioni cosi "umanitarie" nel Congo. Animale carnivoro che si nutre di popoli inermi; ecco a che cosa riduce l'uomo l'imperialismo, questo è ciò che distingue il "bianco" imperiale.
Tutti gli uomini liberi del mondo debbono prepararsi a vendicare il crimine del Congo.
Forse molti di quei soldati, trasformati in subumani dalla macchina imperialista, pensano in buona fede di difendere i diritti di una razza superiore; ma in questa Assemblea la maggioranza è costituita da popoli che hanno la pelle abbronzata da diversi soli, colorata da diversi pigmenti, e che hanno capito perfettamente che le differenze fra gli uomini non vengono dal colore della pelle, ma dal tipo di proprietà dei mezzi di produzione, dai rapporti di produzione.”
E
ancora: "Questa
epopea che sta davanti a noi la scriveranno le masse affamate degli
indios, dei contadini senza terra, degli operai sfruttati; la
scriveranno le masse progressiste, gli intellettuali onesti e
brillanti che sono cosí abbondanti nelle nostre sofferenti terre
d'America latina. Lotta di masse e di idee, epopea che sarà portata
avanti dai nostri popoli maltrattati e disprezzati dall'imperialismo,
i nostri popoli sconosciuti fino ad oggi, che già cominciano a non
farlo più dormire. Ci considerava come un gregge impotente e
sottomesso e già comincia ad aver timore di questo gregge, gregge
gigante di duecento milioni di latinoamericani nei quali il
capitalismo monopolistico yankee vede già i suoi affossatori.
"L'ora della sua rivincita, l'ora che essa stessa si è scelta, viene indicata con precisione da un estremo all'altro del continente. Ora questa massa anonima, questa America di colore, scura, taciturna, che canta in tutto il continente con la stessa tristezza e disinganno; ora questa massa è quella che comincia ad entrare definitivamente nella sua storia, comincia a scriverla col suo sangue, comincia a soffrirla e a morire; perché ora per le campagne e per i monti d'America, per le balze delle sue terre, per i suoi piani e le sue foreste, fra la solitudine o il traffico delle città, lungo le coste dei grandi oceani e le rive dei fiumi comincia a scuotersi questo mondo ricco di cuori ardenti, pieni di desiderio di morire per 'quello che è suo,' di conquistare i suoi diritti irrisi per quasi cinquecento anni da questo o da quello. Ora sì la storia dovrà prendere in considerazione i poveri d'America, gli sfruttati e i vilipesi, che hanno deciso di cominciare a scrivere essi stessi, per sempre, la propria storia. Già si vedono, un giorno dopo l'altro, per le strade, a piedi, in marce senza fine di centinaia di chilometri, per arrivare fino agli 'olimpi' dei governanti e riconquistare i loro diritti. Già si vedono, armati di pietre, di bastoni, di machetes, dovunque, ogni giorno, occupare le terre, immergere le mani nelle terre che gli appartengono e difenderle con la loro vita; si vedono con i loro cartelli, le loro bandiere, le loro parole d'ordine, fatte correre al vento, per le montagne e lungo le pianure. E quest'onda di commosso rancore, di giustizia reclamati, di diritto calpestato, che comincia a levarsi fra le terre dell'America latina, quest'onda ormai non si fermerà. Essa andrà crescendo col passar dei giorni; perché formata dai più; dalle maggioranze sotto tutti gli aspetti, coloro che accumulano con il loro lavoro le ricchezze, creano i valori, fanno andare le ruote della storia e che ora si svegliano dal lungo sonno di abbrutimento al quale li hanno sottomessi.
"Perché questa grande umanità ha detto basta e si è messa in marcia. E la sua marcia, di giganti, non si arresterà fino alla conquista della vera indipendenza per cui sono morti già più di una volta inutilmente. Ora, ad ogni modo, quelli che muoiono, moriranno come quelli di Cuba, quelli di Playa Girón; moriranno per la loro unica, vera e irrinunciabile indipendenza."
"L'ora della sua rivincita, l'ora che essa stessa si è scelta, viene indicata con precisione da un estremo all'altro del continente. Ora questa massa anonima, questa America di colore, scura, taciturna, che canta in tutto il continente con la stessa tristezza e disinganno; ora questa massa è quella che comincia ad entrare definitivamente nella sua storia, comincia a scriverla col suo sangue, comincia a soffrirla e a morire; perché ora per le campagne e per i monti d'America, per le balze delle sue terre, per i suoi piani e le sue foreste, fra la solitudine o il traffico delle città, lungo le coste dei grandi oceani e le rive dei fiumi comincia a scuotersi questo mondo ricco di cuori ardenti, pieni di desiderio di morire per 'quello che è suo,' di conquistare i suoi diritti irrisi per quasi cinquecento anni da questo o da quello. Ora sì la storia dovrà prendere in considerazione i poveri d'America, gli sfruttati e i vilipesi, che hanno deciso di cominciare a scrivere essi stessi, per sempre, la propria storia. Già si vedono, un giorno dopo l'altro, per le strade, a piedi, in marce senza fine di centinaia di chilometri, per arrivare fino agli 'olimpi' dei governanti e riconquistare i loro diritti. Già si vedono, armati di pietre, di bastoni, di machetes, dovunque, ogni giorno, occupare le terre, immergere le mani nelle terre che gli appartengono e difenderle con la loro vita; si vedono con i loro cartelli, le loro bandiere, le loro parole d'ordine, fatte correre al vento, per le montagne e lungo le pianure. E quest'onda di commosso rancore, di giustizia reclamati, di diritto calpestato, che comincia a levarsi fra le terre dell'America latina, quest'onda ormai non si fermerà. Essa andrà crescendo col passar dei giorni; perché formata dai più; dalle maggioranze sotto tutti gli aspetti, coloro che accumulano con il loro lavoro le ricchezze, creano i valori, fanno andare le ruote della storia e che ora si svegliano dal lungo sonno di abbrutimento al quale li hanno sottomessi.
"Perché questa grande umanità ha detto basta e si è messa in marcia. E la sua marcia, di giganti, non si arresterà fino alla conquista della vera indipendenza per cui sono morti già più di una volta inutilmente. Ora, ad ogni modo, quelli che muoiono, moriranno come quelli di Cuba, quelli di Playa Girón; moriranno per la loro unica, vera e irrinunciabile indipendenza."
Poi
fu la volta, l'anno successivo, del suo secondo ed ultimo memorabile
discorso di Algeri che gli fu fatale, perché in esso denunciò
apertamente l'URSS e le condizioni diseguali nel rapporto tra quella
superpotenza e i suoi paesi satelliti.
Anche
in questo caso, riportiamo alcuni passaggi significativi: “La
pratica dell'internazionalismo proletario non è soltanto un dovere
per i popoli che lottano per un futuro migliore, è anche una
ineludibile necessità...Non può esistere il socialismo se non si
opera prima un cambiamento nelle coscienze che determini un
atteggiamento di fratellanza nei confronti dell'umanità, sia sul
piano individuale, in seno alla società che costruisce o ha
costruito il socialismo, sia sul piano mondiale, nei confronti di
tutti i popoli che subiscono l'oppressione imperialista...
Crediamo
che questo sia lo spirito con cui si deve assumere la responsabilità
si aiutare i paesi sottomessi, e non si deve parlare di reciproco
vantaggio basato sui prezzi che la legge di mercato e le relazioni
internazionali impongono ai paesi sottosviluppati poiché lo scambio
non è alla pari.
Come
si può definire “vantaggio reciproco”, l'atto di vendere a
prezzi di mercato le materie prime che costano ai paesi
sottosviluppati sforzo e sofferenza immensi, e quello di comprare al
prezzo di mercato i macchinari prodotti nelle grandi fabbriche
automatizzate di oggigiorno?
Se
queste solo le relazioni i paesi socialisti sono, in un certo senso,
complici dello sfruttamento imperialista...
I
Paesi Socialisti hanno il dovere morale di porre fine alla loro
tacita complicità con i Paesi sfruttatori dell'Occidente. Il fatto
che gli scambi siano al momento limitati non significa niente...
Non
esiste altra nozione di Socialismo se non l'abolizione dello
sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Finché non diventerà
realtà, il socialismo rimarrà allo stadio di costruzione, e se,
anziché prodursi questo fenomeno, la missione della soppressione
rallenta o arretra, allora non possiamo neanche parlare di
costruzione del Socialismo...
...Da quando i monopoli si impadronirono del mondo, hanno mantenuto nella povertà la maggior parte dell’umanità, mentre
i guadagni venivano divisi tra i paesi più forti. Il livello di vita di
questi paesi è fondato sulla miseria dei nostri; bisogna dunque lottare
contro l’imperialismo per innalzare il livello di vita dei popoli
sottosviluppati. E ogni volta che un paese si stacca dal tronco
imperialista non solo si vince una parziale battaglia contro il nemico
fondamentale, ma si contribuisce anche al suo reale indebolimento e si
fa un passo avanti verso la vittoria definitiva”
Tanto
era rigorosa la costruzione morale prima ancora che economica del
comunismo Guevariano, che lo stesso Che ebbe a dire a chiare lettere: “
El Socialismo econòmico sin la moral comunista no me interesa.
Luchamos contro la miseria pero al mismo tiempo luchamos contra la
alienacion”
Non si può costruire un modello di società comunista ed egualitaria
senza al contempo proporre ed attuare un modello di nuova umanità,
più integra, lo conferma con quest'altra citazione: “Nosotros
socialistas somos mas libres porque somos mas plenos; somos mas
plenos por ser mas libres”
Eccola
dunque la chiave vera del Guevarismo, esplicitata nel
documento-manifesto del 1965 “Il Socialismo e l'Uomo a Cuba”, il
suo “canto del cigno” E cioè la necessità di legare la libertà
alla giustizia e integrità morale prima ancora che sociale.
Il
Socialismo del Che si basa sulla integrità ed onestà umana prima
ancora che su un astratto modello deterministico di economia, il
socialista è più libero quanto più è integro ed onesto (suona un
po' beffardo considerando le sorti del socialismo italiano e della politica italiana in generale) e quanto
più è integro ed onesto, tanto più può costruire un Socialismo libero
che non sia inquinato dalla ricerca spasmodica dell'interesse e del
potere personale e materiale.
Nè
Guevara e sotto certi aspetti neanche Castro erano contrari in
assoluto agli incentivi materiali, ma ad essi anteponevano quelli
morali, nel senso che doveva essere premiata nella costruzione del
socialismo non una nomenklatura di potere autoreferenziale, con beni
materiali superiori a quelli del popolo (come di fatto è avvenuto
più o meno in tutti i regimi comunisti), ma piuttosto una classe
dirigente che fosse disposta ad impegnarsi e soprattutto a combattere
e a sacrificarsi come se non più di altri nella realizzazione di una
società autenticamente rivoluzionaria, realizzando, in primis, su se
stessa e a costo della propria stessa vita il modello di “Hombre
Nuevo”, di Nuova Umanità che essa va professando.
L'unico
patrimonio che Guevara lasciò alla sua famiglia e ai suoi figli
furono i suoi libri, per il resto li affidò allo Stato, lui aveva e
mantenne solo un paio di divise militari, una da indossare, e una da
lavare, più o meno come fa un Monaco Combattente, forse un
Ospedaliero, date che le origini di Ernesto Che Guevara erano quelle
di un medico che iniziò il suo cammino rivoluzionario come dottore
degli ultimi.
Per
questo, prima di scomparire o forse di essere messo da parte
dall'ambito pubblico, il Che si spese in prima persona, per incarnare
tale modello di nuova umanità, lavorando, da Ministro, nei campi,
nelle fabbriche e ovunque fosse indispensabile la sua presenza come
un comune lavoratore e senza alcuna paga, con il lavoro volontario,
di sabato e di domenica, per riprendere poi quello di Ministro negli
altri giorni della settimana.
Il
rivoluzionario, diceva il Che, non è un settario, un lucido
criminale che affonda il bisturi della rivoluzione in un corpo
sociale senza alcuna attenzione per i suoi organi anche più fragili,
egli è piuttosto un essere umano animato da grandi sentimenti di
amore, anche quando questo amore rischia di sembrare crudele.
Tanti
misoguevaristi del web tuttora accusano Guevara di essere stato un
fucilatore e un criminale, ma anche i suoi biografi più critici non
possono che rimarcare il contrario, come fa ad esempio Castaneda il
quale ci dice che, anche quando egli diresse il tribunale
rivoluzionario a La Cabana: “non
ci fu nessun bagno di sangue, né fu sterminata gente innocente , in
piccolo o in grande numero. Dopo gli eccessi di Batista e lo sfogo di
passioni di quei mesi di inverno è anzi sorprendente il fatto che ci
siano state così poche violenze e esecuzioni. E' vero però che il
Che non sentiva forti remore di fronte alle pene di morte o ai
processi sommari e collettivi. Era pronto a dare la vita per i suoi
ideali e così credeva che dovessero fare anche gli altri”
Durante una guerra molti scrupoli umanitari vengono meno, anche i
monaci combattenti, di fronte ai loro compagni torturati, decapitati
e crocefissi, risposero con le teste dei loro prigionieri scagliate contro i nemici
dalla loro artiglieria.
Il
Che ci appare dunque come l'ultimo grande Cavaliere dell'epoca
moderna, riprese il suo viaggio, dopo la sua testimonianza e la sua
lotta sul campo, ma non rinunciò a perfezionare la sua opera
letteraria che, per questo, andrebbe letta, studiata e tramandata
anche se, una volta sparito dalla scena pubblica, a lungo sparirono
anche i suoi scritti non più “politicamente corretti”, in
particolare un'opera filosofica ed un' opera di economia che
andrebbero lette in parallelo e considerate le “bozze” di una più
completa opera di approfondimento del suo manifesto: “Il Socialismo
e l'Uomo a Cuba”.
Scritti
a lungo rimasti nel dimenticatoio e solo di recente usciti
esclusivamente in lingua originale, solo perché ormai da tempo ne
circolavano ampi stralci: “Apuntes criticos a la Economia Politica”, una critica serrata, punto per punto, al manuale di
economia imposto dall'URSS ai suoi paesi satelliti, rivelando tutte
le pecche di un sistema viziato fin dalle sue origini e destinato al
fallimento perché scletorico e non dissimile, in particolare nella considerazione della legge del valore, sostanzialmente, da
quello che si prefiggeva di contrastare, e gli Apuntes Filosoficos,
una serie di appunti scritti da Guevara, su varie opere e filosofi,
nel corso di tutta la sua vita, che equivalgono ad un diario di
formazione culturale e spirituale.
Del primo, gli Apuntes criticos (o quaderni di Praga), traduciamo uno stralcio del prologo, tanto per intendere come fosse "eretico"
Sulla copertina del manoscritto vi era questa intestazione: "L'Unione Sovietica è condannata a ritornare al Capitalismo" e nel prologo: "Nel corso della nostra pratica e della nostra investigazione teorica veniamo a scoprire un gran colpevole con nome e cognome: Vladimir Ilich Lenin, Tale è la grandezza del nostro osare." Lenin come colpevole principale del fatto che.., prosegue Guevara, "L'Unione Sovietica sta tornando al Capitalismo, tuttavia non vogliamo anticipare con questo prologo le pagine della nostra eresia....Molti sentiranno un sincero imbarazzo di fronte a questo cumulo di ragioni nuove e differenti, altri si sentiranno feriti e ci saranno quelli che vedranno in tutto il libro solo una rabbiosa posizione anticomunista mascherata con argomenti teorici. Però molti, lo speriamo sinceramente, sentiranno l'alito di nuove idee e vedranno espresse le loro ragioni...A tale gruppo di persone va indirizzato fondamentalmente il libro...A coloro che guardano con diffidenza e si basano sulla stima e lealtà che sperimentano rispetto verso i paesi socialisti, rivolgiamo una sola avvertenza: l'affermazione di Marx, menzionata nelle prime pagine del Capitale, sull'incapacità della scienza borghese di sapersi criticare da se stessa, utilizzando al suo posto l'apologetica, può applicarsi oggi, disgraziatamente, alla scienza economica marxista."
Il Che non fu il primo eretico e non sarà certo l'ultimo, anche se oggi è fin troppo facile esserlo, specialmente considerando che oramai la cosiddetta sinistra è tanto autocelebrativa quanto poco incline sia verso l'autocritica che verso la critica delle fondamenta dei meccanismi imperanti di un capitale che considera più o meno alla stregua di un fenomeno metereologico, opponendo ai suoi rovinosi diluvi economici e sociali, delle riformicchie nelle vesti di miseri ombrellini parasole.
Del primo, gli Apuntes criticos (o quaderni di Praga), traduciamo uno stralcio del prologo, tanto per intendere come fosse "eretico"
Sulla copertina del manoscritto vi era questa intestazione: "L'Unione Sovietica è condannata a ritornare al Capitalismo" e nel prologo: "Nel corso della nostra pratica e della nostra investigazione teorica veniamo a scoprire un gran colpevole con nome e cognome: Vladimir Ilich Lenin, Tale è la grandezza del nostro osare." Lenin come colpevole principale del fatto che.., prosegue Guevara, "L'Unione Sovietica sta tornando al Capitalismo, tuttavia non vogliamo anticipare con questo prologo le pagine della nostra eresia....Molti sentiranno un sincero imbarazzo di fronte a questo cumulo di ragioni nuove e differenti, altri si sentiranno feriti e ci saranno quelli che vedranno in tutto il libro solo una rabbiosa posizione anticomunista mascherata con argomenti teorici. Però molti, lo speriamo sinceramente, sentiranno l'alito di nuove idee e vedranno espresse le loro ragioni...A tale gruppo di persone va indirizzato fondamentalmente il libro...A coloro che guardano con diffidenza e si basano sulla stima e lealtà che sperimentano rispetto verso i paesi socialisti, rivolgiamo una sola avvertenza: l'affermazione di Marx, menzionata nelle prime pagine del Capitale, sull'incapacità della scienza borghese di sapersi criticare da se stessa, utilizzando al suo posto l'apologetica, può applicarsi oggi, disgraziatamente, alla scienza economica marxista."
Il Che non fu il primo eretico e non sarà certo l'ultimo, anche se oggi è fin troppo facile esserlo, specialmente considerando che oramai la cosiddetta sinistra è tanto autocelebrativa quanto poco incline sia verso l'autocritica che verso la critica delle fondamenta dei meccanismi imperanti di un capitale che considera più o meno alla stregua di un fenomeno metereologico, opponendo ai suoi rovinosi diluvi economici e sociali, delle riformicchie nelle vesti di miseri ombrellini parasole.
Le
cose più importanti che il Che ci ha lasciato sono in ordine: il suo
esempio e i suoi scritti. Se vogliamo dunque celebrarlo degnamente,
non possiamo fare a meno di trarre da quell'esempio la virtù
necessaria per questo XXI secolo e leggere e meditare continuamente
la sua opera letteraria, considerandola però incompiuta.
Oggi
purtroppo, invece, si fa l'esatto contrario: si celebra il Che non
nel quotidiano, ma solo in occasioni canoniche o in anni ricorrenti a
seconda o no che si abbia bisogno di una bandiera o di una icona di
riferimento, e non si pubblicano integralmente e abbastanza le sue
opere. La casa editrice che ha acquistato, non si sa come e perché, il
diritto esclusivo di pubblicare le sue opere in Italia, dato che il
Che non chiese mai né per se stesso e né per altri diritti di
autore, di fatto, pubblica pochissimo e non traduce né pubblica le
opere uscite di recente, con lo scopo esclusivo di impedire ad altri
di farlo, per esempio all'editore Massari che tanto si è distinto in
passato per la pubblicazione di tali opere e che resta colui che ha
pubblicato l'edizione più bella, pregiata e completa del diario del
Che in Bolivia, ricchissima di immagini, documenti e testimonianze.
Sono
ormai remoti i tempi in cui Feltrinelli pubblicò nel 1969 tutte le
opere del Che, allora edite in quattro monumentali volumi reperibili
oggi solo nel mercato antiquario e nemmeno nella loro interezza,
oppure quelli in cui uscì una loro traduzione di Einaudi con
notevolissime pecche.
Il
Che non ha mai fatto professione di fede religiosa, sebbene visse
come un monaco (povero di beni materiali, casto nell'amore famigliare e obbediente alla causa rivoluzionaria) combattente non solitario, ma molto amato dai suoi numerosi e fedelissimi seguaci di ieri, di oggi e di sempre; egli stesso amava scherzare e la sua
originalità e grandezza sono date tuttora proprio dalla incredibile
mescolanza di inflessibilità morale applicata a se stesso prima
ancora che ad altri, fin dai primi giorni delle sue crisi d'asma, e
dalla leggerezza della sua costante ironia ed autoironia con
frequenti battute sino, come abbiamo visto, fino alla sua morte.
Nell'ultima pagina del suo diario è scritto.. “giornata bucolica”.
Così
l'insostenibile leggerezza dell'imperativo categorico del Che
potremmo sintetizzarla oggi, a 50 anni dalla fine della sua prima
vita, dato che la seconda è ancora in corso, con l'ultima lettera ai suoi genitori ed in particolare a sua
madre a cui era legato da un profondissimo amore. Praticamente la
sua lettera di addio, meno nota ma forse ancor più eloquente e significativa di quella scritta a Fidel.
Luglio
1965
Cari
vecchi
Una
volta ancora sento i miei talloni contro il costato di Ronzinante: mi
rimetto in cammino col mio scudo al braccio.
Son
passati quasi dieci anni da quando vi scrissi un'altra lettera di
commiato. A quanto ricordo, mi lamentavo di non essere un miglior
soldato e un miglior medico; la seconda cosa ormai non mi interessa,
come soldato non sono tanto male.
Nulla
è cambiato nell'essenziale, salvo il fatto che sono molto più
cosciente, il mio marxismo si è radicato e depurato. Credo nella
lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per
liberarsi, e sono coerente con quello che credo. Molti mi diranno
avventuriero, e lo sono; soltanto che lo sono di un tipo differente:
di quelli che rischiano la pellaccia per dimostrare le loro verità.
Può
darsi che questa sia l'ultima volta, la definitiva. Non lo cerco, ma
rientra nel calcolo logico delle probabilità. Se così fosse, eccovi
un ultimo abbraccio.
Vi
ho molto amati, ma non ho saputo esprimere il mio affetto; sono,
nelle mie azioni, estremamente drastico, e credo che a volte non
abbiate capito. Non era facile capirmi, d'altra parte: credetemi,
unicamente, oggi.
Ora,
una volontà che ho lustrato con amore d'artista sosterrà due gambe
molli e due polmoni stanchi. Lo farà.
Ricordatevi
di questo piccolo condottiero del secolo XX. Un bacio a Celia, a
Roberto, a Juan Martin e a Pototìn, a Beatriz, a tutti. A voi un
grande abbraccio di figliol prodigo e ribelle.
Ernesto”
Lo scrisse anche ai suoi figli, la prima virtù di un rivoluzionario è la sua cultura, che diventa, nell'impegno collettivo, coscienza e cultura politica, qualità essenziale che manca paurosamente ai nostri fantocci e fantoccini che sono o aspirano al potere, nei vari partiti contenitori, simili a buste di plastica.
"Crezcan como buenos revolucionarios. Estudien mucho para poder dominar la técnica que permite dominar la naturaleza. Acuérdense que la Revolución es lo importante y que cada uno de nosotros, solo no vale nada. Sobre todo, sean siempre capaces de sentir en lo más hondo cualquier injusticia cometida contra cualquiera en cualquier parte del mundo. Es la cualidad más linda de un revolucionano."
"Crezcan como buenos revolucionarios. Estudien mucho para poder dominar la técnica que permite dominar la naturaleza. Acuérdense que la Revolución es lo importante y que cada uno de nosotros, solo no vale nada. Sobre todo, sean siempre capaces de sentir en lo más hondo cualquier injusticia cometida contra cualquiera en cualquier parte del mundo. Es la cualidad más linda de un revolucionano."
Ricordiamo
dunque anche noi questo ultimo Condottiero, Cavaliere,
rivoluzionario combattente, votato alla causa degli ultimi, che
tuttora ci invita a fremere di indignazione ogni qual volta che qualcuno
è schiaffeggiato dall'ingiustizia, per essere suo compagno e
cavalcare con lui oltre lo spazio ed il tempo.
Alziamo
lo sguardo al cielo, in una notte stellata in religioso silenzio, di
fronte all'immagine più eloquente che possiamo avere dell'eterno e
dell'infinito, forse potremo scorgere una stella che balla goffamente
il tango, e che ci invita a sorridere e a combattere ancora. Allora anche il
cielo si unirà a quel sorriso e ci apparirà meno lontano.
Hasta
la victoria, siempre!
Patria o muerte!
Patria o muerte!
Venceremos!
"Se il comunismo trascura i fatti di coscienza, può diventare un sistema di ripartizione, ma non è più una morale rivoluzionaria"
Che Guevara in una intervista a Jean Daniel 1963
"Se il comunismo trascura i fatti di coscienza, può diventare un sistema di ripartizione, ma non è più una morale rivoluzionaria"
Che Guevara in una intervista a Jean Daniel 1963
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