di Manfredi Mangano
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Il
compagno Giuseppe Angiuli ha scritto una interessante nota sulla
strategia americana rispetto alla Siria e al progetto di Greater Middle
East. Condivido diversi spunti, ma ci sono dei tasselli della
ricostruzione che a mio avviso sono un pò forzati e risentono di una
interpretazione a mio avviso eccessivamente determinista dell'analisi
geopolitica.
Partiamo dall'idea delle Rivolte Arabe come
un mero fenomeno di destabilizzazione: "Mentre il progettato cambio di
potere in Tunisia ed Egitto è stato (quasi) repentino e, tutto
sommato, di facile realizzazione, per destabilizzare la Giamairiha libica di Gheddafi è stato necessario ricorrere ad intensi bombardamenti NATO".
In
questa frase, si condensa a mio avviso un errore comune, nel campo
"antimperialista", che tende a riabilitare in maniera postuma i nemici
di turno degli Stati Uniti. E' successo con Saddam Hussein, grande
protegè degli USA negli anni '80, massacratore di curdi, iraniani e
comunisti, cliente d'oro dei mercanti d'armi occidentali, che iniziò la
guerra in Kuwait non certo per spirito umanitario contro l'oppressione
feudale, ma banalmente perchè pensava che il prezzo di 10 anni di
guerra contro l'Iran potesse ben essere un petroemirato da aggiungere
alla sua satrapia.
E' almeno compensibile succeda con Gheddafi,
che a fianco di rapporti poco chiari e di contiguità inquietanti col
terrorismo e con alcuni despoti assortiti, almeno qualcosa per la causa
dell'antimperialismo e del socialismo l'ha fatto, in Patria come
all'estero.
E meno comprensibile che succeda, invece, con i regimi dell'RCD e del PDN, di Ben Alì e di Mubarak, inTunisia e Egitto.
Chiariamoci.
Io sono molto lontano dalla retorica dell'interventismo dei diritti
umani: la vedo un pò come Gerschenkron, con la sua dinamica dello
sviluppo economico globale che porta a prediligere regimi autoritari
nelle fasi in cui si rincorre lo sviluppo per concentrare le energie
economiche. Al di là del tasso di adesione elettorale di un regime, che è
comunque un tassello importante che non dovremmo dimenticare, cerco
sempre di valutare le concrete dimensioni di un paese, le sue reali
possibilità di esprimere una leadership in un senso o nell'altro, e in
generale l'utilità o meno per il suo popolo del governo che si ritrova.
in
questo contesto, RCD e PND non sono state sicuramente esperienza da
buttare completamente via, per Tunisi e il Cairo, come non lo sarà
Gheddafi per la Libia. Ma di sicuro, per tutti e tre i regimi, siamo di
fronte a una ossificazione del potere. Tunisia e Egitto non potevano
certo essere, oggi, inseriti nella categoria dei regimi progressisti:
pur svolgendo il meritorio ruolo di garantire la laicità e la stabilità
dello Stato di fronte alla minaccia del fondamentalismo islamico,
entrambi svolgevano un ruolo di equilibrio e di copertura di interessi
politici, economici e militari occidentali, garantendo l'ortodossia
delle politiche economiche al Washington Consensus e l'apertura agli
investitori in cambio della tolleranza americana per la sopravvivenza di
nicchie di potere escluse dal mercato, ma legittimate a una spoliazione
politica e clientelare delle risorse statali (l'esercito in Egitto, la
famiglia presidenziale in Tunisia): a Mubarak e Ben Alì era poi concessa
una nicchia di autonomia anche in politica estera, con un sostegno al
comunque oramai molto moderato OLP che ne doveva garantire la
credibilità verso le masse arabe nazionali e internazionali.
Di
conseguenza, non era interesse americano o europeo assistere alla loro
dipartita. Il supporto di fondazioni americane a gruppi pro-democrazia
rientra nella medesima strategia per cui gli USA interloquivano a un
tempo con la DC, Craxi, Edgardo Sogno, Marco Pannella e Giorgio
Napolitano: è bene avere sempre un cavallo di riserva su cui puntare.
In
quest'ottica, la comunità internazionale si è tovata di sicuro spaesata
quando sono scoppiate rivolte che, ricordiamolo, non sono nate come
"proteste arancioni" all'ucraina (e anche lì, comunque, bisogna
distinguere tra Ucraina e altri paesi, come quelli dell'Asia Centrale, e
anche evitare di semplificare troppo il problema ucraino), ma come
classiche rivolte sociali a cui la presenza del Web e di un gran numero
di giovani ha consentito nuove forme di organizzazione e coordinamento
delle classiche forme di protesta (che sono sempre scioperi, picchetti,
boicottaggi e assalti, ma ora organizzati in maniera più sicura e
impreivedibile tramite i nuovi media).
Ricordiamoci che
inizialmente l'ambasciata USA al Cairo non era affatto sicura di
preferire i dimostranti all'esercito: Obama è intervenuto e ha fatto
quello che suoi predecessori intelligenti hanno fatto con i regimi più
impresentabili del blocco occidentale, dai colonnelli greci a Pinochet.
Ossia, ha capito che il cavallo Mubarak oramai era bollito, e ne ha
scelto uno nuovo. Questo ha permesso agli USA di riguadagnare un minimo
di capitale politico nel mondo musulmano, anche sfruttando la popolarità
personale di Obama.
In Libia, la dinamica si è rivelata
diversa: a Bengasi c'è stata sicuramente una rivolta, ispirata dal
successo delle vicine Tunisia e Egitto, contro il regime di Gheddafi.
Non c'è bisogno di fare troppi sforzi di fantasia per immaginare che
nella citta cirenaica, i tre principali attori politici (giovane
borghesia nascente di sentimenti liberali, Fratelli Musulmani,
indipendentisti) detestassero il Colonnello, il cui regime era
sicuramente ammaccato ma non al livello terminale di consenso che
caratterizzava invece i vicini. E' su questo corpo di rivoltosi, genuino
anche se sicuamente moderato, filooccidentale e "borghese", che si è
andata a saldare una dinamica "eterodiretta", ben chiarita da LIMES, in
cui a Sarkozy, reduce dallo smacco tunisino dopo che una sua ministra si
era offerta di inviare corpi speciali a difesa del regime, serviva un
successo forte per rilanciare l'immagine e l'influenza francese
nell'africa subsahariana e nel Mediterraneo. Ricordiamoci infatti che,
oltre al progressivo indebolirsi della Francafrique grazie alla
concorrenza cinese e al rinnovato interesse americano per l'Africa, il
mandato di Sarkozy aveva visto il totale fallimento anche della politica
mediterranea francese, dopo il veto della Merkel a formalizzare
l'Unione del Mediterraneo. Sarkozy a quel punto ha agito sui legami
economici e a cascata tribali di una serie di tecnocrati libici vicini
all'Occidente per organizzare un vero e proprio tentativo di golpe
politico-militare, da inserire nell'onda delle proteste: all'inizio si
pensava che ne fosse parte Saif al Islam, ma la sua comparsa a fianco
del padre ha fatto salire alla ribalta ... proprio gli assistenti di
Saif come Jibril e Jallud, che ne avevano accompagnato lo sforzo
riformatore e filooccidentale in questi anni !
D'intesa
con la Gran Bretagna, che ha rapidamente anteposto i suoi interessi
petroliferi ai buoni rapporti coltivati da Blair e dal Labour con
Gheddafi durante la War on Terror, Sarkozy ha dunque sposato la causa
interventista di Bernard Henry Levi, e su questa china ha trascinato
anche attori come Obama, che durante tutta la campagna NATO ha cercato
di tenersi defilato e, secondo Debka, stava patrocinando dei colloqui
sulla transizione politica con Saif Al Islam a Biserta, in Tunisia,
auspici la Russia e l'ex primo ministro francese De Villepin. Sarkozy ha
trovato nel Qatar un alleato nuovo: più dinamico e meno sputtanato
dell'Arabia Saudita, il monarca quatariota ha grossa influenza in
Francia grazie allo shopping geopolitico del suo fondo sovrano, che a
Parigi ha comprato di tutto, dalle squadre di calcio a partecipazioni
nelle aziende strategiche. Sostenitoe dell'ala più modernista del
wahabismo / salafismo, che è cosa diversa dai Fratelli Musulmani,
l'emiro del Qatar ha cercato in questi mesi di accreditarsi come nuovo
punto di riferimento del mondo arabo, è ed è stata la sua collaborazione
anche militare oltre che finanziaria e di immagine a decidere la
campagna di Tripoli.
In Siria, la dinamica è simile: il
malcontento contro il regime di Assad è vivo. Lo è per motivi religiosi e
etnici (preminenza degli alawiti, dei drusi e dei cristiani), economici
(progressiva dimensione "di casta" degli alawiti nella burocrazia,
appoggio della borghesia sunnita, processi di apertura economica
all'occidente), politici (sostanziale impasse delle riforme politiche,
politica laica del governo che scontenta i settori tradizionalisti della
società, ruolo importante della corruzione e del familismo). Assad ha
finora ottenuto un certo supporto, aperto o tacito, da una parte
importante della popolazione: ma il fatto che i ribelli siano
sponsorizzati dall'esterno, armati da regimi impresentabili più di
quello siriano, autori della loro dose di atrocità, non azzera le
responsabilità del regime nel precipitare la situazione, rispondendo
violentemente alle prime proteste e continuando a commettere brutalità
che sono connaturate alla guerra e inferiori rispetto ai conteggi della
propaganda embedded, ma innegabili, nonostante le eroiche contorsioni di
Marinella Correggia in alcuni suoi pezzi dove prevale lo schieramento
ideologico alla correttezza dei fatti che ha cercato di seguire di
fronte alla propaganda occidentale (caso chiaro il diniego ostinato sui
video di torture effettuate da soldati siriani).
In
quest'analisi dei fatti, la ricostruzione molto dettagliata della linea
politica dei Neocons e del suo progressivo abbandono fatta da Giuseppe è
certamente pregevole e reale, ma si inceppa a mio avviso di fronte a
questo passo : "La nuova linea “realista” – elaborata dai due prefati
strateghi - comporta la necessità per gli U.S.A. di abbandonare lo
scenario della fantomatica “guerra al terrorismo islamico” ed anzi, di
fare leva proprio sull’islam radicale quale preziosa risorsa politica e quale fraterno
alleato da impiegare su larga scala come fattore di destabilizzazione
in operazioni di “guerra sporca” o “coperta” (molto simile alla guerra a
bassa intensità attuata dai contras in Nicaragua)."
Masticando
(non molto in verità, maun poco sì) la letteratura realista in oggetto,
si tratta in realtà di un più pragmatico abbandono dei toni da crociata
in favore di un understanding con l'Islam, con l'Europa e con la stessa
Russia (quest'ultimo il meno praticato e col minor successo rispetto ai
primi due), che si è fatta strada in una parte importante
dell'establishment americano. Il sostegno a un "nuovo islam radicale"
non è un fattore di destabilizzazione americano, a mio avviso, se non in
maniera tangenziale (il caso di Belhaj dei suoi ex quaedisti a me fa
molto pensare a un accordo del tipo "tu smetti di lavorare con Bin Laden
e combatti Gheddafi coi tuoi, avrai un pezzo della torta), ma è una
precisa strategia di penetrazione politica che porta la firma di due
attori: Arabia Saudita e Quatar. I fratelli musulmani si sono
sicuramente imborghesiti, rispetto ai loro inizi "para-rivoluzionari",
ma non sono il "cavallo vincente degli americani", quantomeno non sono
un progetto da loro costruito a tavolino: come la DC da noi, sono
l'attore più credibile con cui, seppur a malincuore, gli USA possono
confrontarsi.
Non è quindi a mio avviso corretto parlare
della loro ascesa come un fenomeno geopoliticamente eterodiretto: il
loro consenso è reale, e le loro posizioni politiche non sono allineate a
quelle occidentali su tanti temi. Tuttavia, è chiaro che di fronte alla
sfida del potere cercheranno di avere un understanding col governo
americano, anche per premunirsi da eventuali ritorni di fiamma militari.
Il
vero dato da cui prendere spunto è purtroppo che il progetto politico
di Nasser è oramai definitivamente morto: il panarabismo socialista è in
disarmo, e la costruzione di una nuova sinistra araba (nonostante il
buon risultato dell'Ettakatol tunisino, dei socialisti marocchini, di Al
Karama in Egitto alle presidenziali) sarà ancora lunga. Oggi i fratelli
musulmani esprimono le aspirazioni di un composito blocco sociale che
spazia dalla media e piccola borghesia tradizionalista a classi popolari
desiderose di un governo non corrotto. Stiamo attenti a non
demonizzarli a priori, o a consegnarli integralmente a un campo (quello
americano o peggio ancora quello delle petromonarchie) che non
necessariamente li stima. Lo stesso vale per la Turchia, che ha cercato
disvolgere un ruolo moderatore in Libia e che è stata a suo tempo grande
sponsor di Assad, oltre a porsi oggi come punto di riferimento dei
Fratelli Musulmani: la complessità delle lotte di potere tra islamisti
conservatori e liberisti filoUSA e Erdogan e Davutoglu, che coltivano un
progetto ottomanista e attento ai BRICS, non va sottovalutata.
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