di Diego Fusaro
In questi giorni si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno
spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel
penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a
ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro
Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua
santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso.
Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’Iantiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo.
Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente,
l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola –
avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia
con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona
pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di
fascismo.
Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum
operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico
che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio
delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a
questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è
pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora
più osceno.
Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su
un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi.
Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi
strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si
spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per
sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei
rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o,
alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità,
inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero
sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di
un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e
la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli
Stati Uniti.
Grazie
all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la
propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla
lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei
giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena
Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli.
La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione
capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una
persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione
vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi
sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo
l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono,
fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica
persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di
onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un
effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente
dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge
apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione
che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge.
L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria
adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione
falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il
tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione
in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo,
così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di
mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine
neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni
di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno
dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e
storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello
che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo
capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze
dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi
essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti.
Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in
indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in
loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una
funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione
dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa
fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del
capitale.
Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in
generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero
compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il
ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si
cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I
recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il
popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli
antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso,
sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti
sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La
prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è
uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e
antiberlusconiani.
Da:
http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/berlusconiani-vs-antiberlusconiani-solito-spettacolo-penoso-10634.html
Nessun commento:
Posta un commento