Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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martedì 20 dicembre 2022

I VERI VOTI CHE CONTANO

 



                                                     di Carlo Felici


In Occasione del Natale e del 126° compleanno dell'Avanti, voglio dedicargli queste mie meditazioni cristiane sui voti laici, alla portata di tutti

Il Socialismo non è altro che un Cristianesimo senza Chiesa nè gerarchia, nasce dai principi cristiani e, nonostante alcune deviazioni un po' settarie o mondane durante la sua lunga storia, non sarebbe sopravvissuto senza questa spinta originaria.

Oggi è un po' in crisi, specialmente in Europa, soprattutto perché al suo interno non è stata fatta una profonda riflessione morale e non si è dato abbastanza spazio ai principi evangelici.

E' quindi auspicabile non solo una fruttuosa sinergia tra cattolici e socialisti, ma una prassi sempre più coerente con quei valori originari che sono la comune base della cultura cristiana ed europea

I Voti cristiani sono alla portata di tutti, e non si tratta di quelli elettorali molto effimeri e transeunti, bensì di solidi principi su cui orientare la vita non solo di coloro che sono consacrati come sacerdoti, suore, monaci...ma di ogni buon laico che possa e voglia testimoniare la sua fede, capendo bene cosa significa, specialmente oggi, castità, povertà e obbedienza

Osserviamoli dunque singolarmente, uno per uno.


LA CASTITA'

Quando si parla di castità, nel percorso cristiano, in genere ci si riferisce ad una condizione precisa di astinenza sessuale, riservata a chi sceglie una vita consacrata ma, a ben guardare, questo è più un luogo comune che una precisa prescrizione.

Innanzitutto il sacerdote non fa voto di castità ma di celibato, ci ricorda infatti lo stesso Giovanni Paolo II nella Enciclica “Sacerdotalis caelibatus” che “la verginità non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta dalla prassi della Chiesa primitiva e dalla tradizione delle Chiese orientali, ma lo stesso sacro Concilio non ha dubitato confermare solennemente l'antica, sacra, provvidenziale vigente legge del celibato sacerdotale, esponendo anche i motivi che la giustificano per quanti sanno apprezzare in spirito di fede e con intimo e generoso fervore i doni divini.”

Questo ovviamente comporta anche una opportuna castità che però non coincide necessariamente con l'astinenza.

Celibato e astinenza infatti sono due cose sostanzialmente diverse che possono coincidere, ma non necessariamente devono coincidere perché la castità non è semplicemente astenersi dal sesso.

Esiste infatti per la Chiesa una “castità matrimoniale”, nel senso che il sesso, come il mangiare e il respirare ed ogni altra funzione naturale, è considerato un dono di Dio che ci accompagna in forma diversa dalla nascita alla morte, e quindi, come tale, non va rifiutato ma solo ben amministrato.

Anche lo stesso apostolo Paolo, in I Timoteo 6:17, afferma che l’opposto del materialismo non va individuato in un ascetismo astratto, ma nella speranza riposta“… in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo”.

Quindi sarà bene ricordare che godere, anche sessualmente, non costituisce peccato ma vuol dire corrispondere ad un volere divino che si manifesta in una necessità naturale.

La Chiesa infatti prescrive esplicitamente che il sesso è lecito all'interno del matrimonio. Ma può bastare? Evidentemente no, se consideriamo quante violenze, anche sessuali, quanto sfruttamento e quanta mancanza di rispetto possono verificarsi all'interno di un matrimonio che non è mai, di per se stesso, garanzia né di castità e nemmeno di integrità morale, anzi spesso serve da “copertura” per immoralità di ogni genere persino contro i figli.

Ovviamente non sempre è così, ma la questione è un'altra, ed è il fatto che solo persone caste possono far diventare un matrimonio casto, non, viceversa, un matrimonio, “per definizione sacramentale” casto, può far diventare le persone caste.

Il celibato sacerdotale, tipico solo della chiesa cattolica o latina è in vigore come norma dal Concilio Lateranense IV del 1215 in cui si afferma che “Gesù è presente nell’Eucaristia per transustanziazione, cioè per cambiamento dell’intera sostanza del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue» Per cui il sacerdote che celebra questo sito sacramentale deve essere casto in quanto si identifica con la figura di Gesù presente nell'Eucarestia.

Ma casto cosa vuol dire? La parola anche etimologicamente ha un significato preciso, evoca infatti il latino carere (da cui carente) che vuol dire essere privo e il greco katharos, che a sua volta vuol dire puro ma anche sgombro, libero.

Quindi effettivamente la parola casto può essere associata all'idea di libertà secondo la quale una persona casta lungi dall'essere un soggetto represso è piuttosto un essere umano più libero.

Ma da cosa? Ecco il punto.

Evidentemente chi è casto non è libero dalla pulsione sessuale che di per sé è una cosa buona e godibile, ma lo è piuttosto dal peccato dell'egotismo che può accompagnarla,

Esso nasce soprattutto da tendenze onanistiche che non giungono a maturazione. Non per niente la Chiesa è arrivata a condannare in passato più la masturbazione che la prostituzione, anche se apparentemente è molto più deprecabile la seconda. La prima, generalmente una pulsione del tutto innocente, in genere nasce in età preadolescenziale e accompagna un po' a fasi alterne tutta la vita umana, soprattutto quando non vi è la possibilità di un incontro e di una relazione stabile e matura. Qual è però il suo rischio e pericolo? E' il fatto che l'essere umano si “abitui”, e "snaturi", spinto dalla sua fantasia, un atto che lo spinge a considerare in un rapporto sessuale l'altro/a come “oggetto” di piacere, come “concretizzazione” cioè di una “fantasia soggettiva” e non, come dovrebbe essere, un “soggetto” da incontrare sessualmente e da “sentire” e “seguire” con una sensibilità integrale comunicativa che ne orienta l'atto “in fieri” volta per volta.

Non poche insoddisfazioni sessuali nascono infatti, specialmente in campo femminile, da una mancanza di sensibilità nel saper percepire delle reazioni che orientano il desiderio sessuale e lo portano a compimento in maniera biunivoca, secondo cioè una reciprocità, e non secondo la rincorsa al piacere a senso unico. Anzi, non di rado, il mancato soddisfacimento di una pulsione sostanzialmente onanistica che “si serve” dell'altra/o per espletarsi, porta anche a stupri e a violenze sessuali

Siamo dunque arrivati a capire il significato autentico e originario della castità. Essa non è altro che l'essere privi di quell'egocentrismo onanistico che tende a fare dell'altro non un soggetto libero da incontrare ma un “oggetto” di piacere da soddisfare.

Da questo ovviamente derivano tutte le devianze sessuali, lo sfruttamento, la violenza, la mercificazione, il ricatto, l'esercizio del potere e via dicendo che sono concretamente ciò che impediscono ad un essere umano di essere libero e casto.

E il matrimonio, lo sappiamo bene, è ben lungi dall'essere una garanzia di “castità”, anzi spesso si rivela miseramente solo una “codificazione” di vite che sono l'esatto contrario della castità, per le violenze subite in quell'ambito, per lo sfruttamento anche casalingo che vi avviene, per il permanere in esso, nonostante tradimenti vari, solo per questioni di patrimonio e di interesse. Anzi, in quest'ultimo caso esso si rivela persino la forma più subdola della prostituzione e non solo femminile..

In definitiva, dunque la castità è la forma migliore della libertà sessuale umana, quella in cui “eticamente” la libertà, come dovrebbe essere per ogni ambito, e non solo sessuale, è indissolubile rispetto alla sensibilità e alla responsabilità che si espleta nella vita condivisa da due persone.

Libertà e responsabilità unite indissolubilmente sono la sostanza non solo del senso più autentico della “castità” ma sono anche il viatico di una esistenza più integra e più soddisfacente in tutti i campi dell'agire umano

Per cui un bambino educato ad essere tanto libero quanto responsabile, inevitabilmente sarà un adulto che vivrà “naturalmente” anche la sua castità sessuale senza imposizioni dogmi né catechesi

Sarà un essere capace di riconoscere e “sentire” l'altro/a nelle sue sfumature, nel piacere e nella sofferenza, propiziandone l'incontro con “cura” ed “affetto”, con disponibilità e tenerezza, non in modo effimero oppure occasionale, ma nel permanere di un cammino esistenziale, umano e famigliare da condividere giorno per giorno.

Sarà dunque “naturalmente casto”, pur avendo tutti i rapporti sessuali che riesce ad avere con chi è prediletto dalla sua “sensibilità e cura”.

Come diceva anche Kant, volere quel che è necessario e naturale, significa essere “santi” magari non da calendario, ma lo stesso capaci di vivere e testimoniare la “santità” ogni giorno

E così nessun imperativo categorico potrà essere tanto piacevole.


LA POVERTA'


Per capire bene come una persona consacrata a Dio (e tutti i cristiani, in quanto battezzati dovrebbero esserlo, non solo i sacerdoti, i frati, le suore o i monaci) dovrebbe orientare la propria vita a quella che Francesco d'Assisi chiamava “Madonna Povertà”, partiamo da una profonda differenza tra povertà e miseria. La povertà può coincidere anche con la miseria, ma non necessariamente e non sempre. Infatti un povero non è un miserabile quando capisce che la sua povertà è una condizione impermanente e può anche essere una opportunità per crescere, non solo in ricchezza ma anche in umanità. Il miserabile è invece chi, sia povero che ricco di risorse materiali, resta profondamente avvinto al desiderio o di incrementarle o alla paura di perderle


Diciamo innanzitutto che la povertà è una condizione impermanente perché varia a seconda delle condizioni individuali, sociali e famigliari e per questo ciascun povero deve essere messo in condizioni di poterle mutare, e non solo fatto oggetto di una semplice elemosina che sostanzialmente lascia la sua condizione così come si trova. Anche la saggezza orientale infatti insegna che se regali a un povero un pesce lo lasci miserabile, se invece, anche grazie a te, impara a pescare, fai in modo che la sua povertà non resti miseria non solo materiale, ma anche morale.
Ma tornando al percorso cristiano, possiamo fare riferimento alla parabola dei talenti che tutti possono leggere in Matteo 25 14-30
Matteo ricordiamo che è un esperto di questioni economiche, un esattore, oggi non a caso patrono persino dei banchieri.


Ebbene in questa parabola, l'Evangelista ci narra di Gesù che racconta di un padrone che deve partire per lungo tempo e che affida varie parti del suo patrimonio ad alcuni uomini di fiducia. A uno dà 5 talenti, ad un altro 2 e al terzo 1. Dopo molto tempo (e il “molto” non è casuale) si ripresenta a loro per regolare i conti. Il primo e il secondo hanno raddoppiato il ricevuto, facendo crescere il patrimonio, il terzo per paura del giudizio del padrone, ha solo sepolto la sua moneta e la restituisce unica e sola a lui. A quel punto, il padrone premia i primi due e, rivolgendosi al terzo, dice testualmente: “28 Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30 E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”


Ora evidentemente la parabola non è un elogio delle banche, degli investimenti e delle attività speculative, ma un avvertimento ben preciso, come anche altri esempi che sembrano apparentemente contraddire questa parabola, come quando Gesù si rivolge al giovane ricco a cui egli dice: "Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"
In entrambe i casi in questione è la ricchezza materiale, che però è metafora di quella spirituale, in entrambe i casi in questione però non è il suo possesso ma il suo effetto, la sua potenzialità.


Nel primo caso la possibilità che cresca, nel secondo che diminuisca. In entrambe la sua impermanenza, il non restare uguale a come è. Gesù infatti, come Buddha, insegna in maniera “circostanziata”, esponendo cioè sempre gli stessi principi ma in forma diversa a seconda del suo interlocutore.
E qui in questione non c'è la ricchezza materiale dell'essere umano, quanto piuttosto la sua integrità spirituale e morale.
Nel primo caso si tratta di un servo che pur avendo ricevuto una Grazia, non sa metterla a frutto e si badi, “per paura”, e quando dopo molto tempo (che sta a significare non alla fine dei tempi o dopo che tutti se ne erano dimenticati, ma quando meno te lo aspetti) arriva il padrone a chiedergli cosa ne ha fatto di quel dono, egli resta paralizzato dal suo terrore e ne subisce la pena. Evidentemente questo è un monito per quelli che antepongono il timore di Dio e delle sue regole alla capacità di avere fede nella sua presenza ed operare affinché i doni celesti possano fruttificare.


Attenzione, ciò vale per i doni spirituali ma anche per quelli materiali, possedere e investire denaro per produrre altra ricchezza che produca lecito benessere non è quindi un peccato, ma operare perché la Grazia dia i suoi frutti in abbondanza.
E il secondo caso? Ebbene, questo è il caso del “ricco miserabile” cioè di colui che non sa cogliere l'opportunità che la sua stessa ricchezza gli offre per fare cose buone, come migliorare le condizioni dei poveri, e quindi resta preda della sua tristezza e del suo attaccamento che gli impediscono di seguire Gesù, il quale se non lo avesse riconosciuto come profondamente attaccato ai suoi beni materiali, probabilmente non lo avrebbe nemmeno messo alla prova dicendogli di liberarsene.
Questa è la dimostrazione che un povero (il servo che per paura seppellisce l'unico talento ricevuto) può essere un miserabile, e che può esserlo anche un ricco (perché resta attaccato al suo denaro più di quanto possa seguire Gesù)


Come dice giustamente Frà Marco Moroni, riferendosi a Francesco e a Madonna povertà: “Bisogna distinguere tra povertà come miseria e povertà come liberazione dal possesso dei beni, un senso di assoluta libertà. Un elogio della miseria sarebbe assurdo perché i beni della terra sono importanti, ma spesso non siamo noi a possederli, bensì loro ci possiedono. San Paolo parlava del ‘vivere come se non’ e l’accezione francescana è quella di vivere senza aggrapparsi ai beni. Francesco per primo ha rinunciato a tutto fino a non possedere più nulla e nella pratica francescana si porta avanti la possibilità avere dei beni a livello di comunità, condivisi, con un sano distacco da essi. Francesco non si limita a servire solo i poveri, lui vive con i poveri. Nella Basilica di Assisi c’è la vela giottesca dell’allegoria della Povertà che rappresenta il ‘matrimonio’ di Francesco con ‘Madonna Povertà’. Ai piedi della Povertà c’è un roveto mentre dalle sue spalle cresce un roseto: la povertà scelta per amore di Cristo è un segno di libertà che fa fiorire la vita. Una povertà che non riguarda solo i beni materiali: Francesco parlava spesso di restituzione in quanto tutto ci è venuto da Dio e tutto ciò che facciamo è per sua grazia”.


La vera santa povertà non è dunque miseria o pauperismo ma semplicemente, come abbiamo già rilevato per la castità, una forma di libertà indissolubile rispetto alla responsabilità che non è altro che saper dare una adeguata risposta (responsum) alle sollecitazioni del contesto in cui viviamo, alle varie circostanze e persone che incontriamo nella vita.
E' la libertà dall'attaccamento ai beni materiali ma anche dal bisogno, perché è al contempo necessità di condividerli affinché tornino a vantaggio non di pochi ma del prossimo, nel senso sia famigliare che sociale del termine, non è una forma ideologica di comunismo coatto, perché come abbiamo visto nelle parabole, il padrone non dice cosa devono fare i suoi servi del suo denaro né Gesù costringe il giovane ricco a diventare povero per seguirlo. Alla base della libertà e di ogni forma di giustizia sociale e individuale c'è sempre infatti la responsabilità, la capacità di ciascuno di dare la sua risposta senza che altri lo costringa a farlo, in piena autonomia


Un altro esempio della storia è quello dei Cavalieri Templari, Ordine cavalleresco ma anche di Frati, il cui patrimonio era ricchissimo, ma perennemente investito per produrre altra ricchezza di cui si beneficiò notevolmente non solo la Terra Santa ma anche l'Europa dell'XII e XIII secolo, eppure ciascuno dei frati che solo in Terra Santa erano armati e combattenti, non per conquistare territori ma per difendere i cristiani, non possedeva nulla di più di quanto l'Ordine stesso gli affidava e lasciava ai suoi Fratelli anche quello, quando moriva.
Evidentemente noi non possiamo né dobbiamo tornare al Medioevo, però se vogliamo davvero essere fedeli a questa Tradizione originaria, possiamo anche noi fare voto di povertà, senza doverci per forza liberare di tutti i nostri beni. Ma liberandoci innanzitutto e subito dell'attaccamento ad essi, dell'avversione per chi li minaccia, non per dilapidarli, ma per averne cura a vantaggio non solo della nostra famiglia, ma anche del prossimo che ne ha più bisogno per sollevarsi dal peso di una povertà che rischia di diventare miseria, aiutandolo non solo con una donazione, ma anche con la nostra cura, con il nostro impegno e la nostra presenza oblativa, affinché ritrovi la fiducia in se stesso e sappia aiutarsi anche meglio di come possiamo aiutarlo noi.


La povertà dunque come libertà dal bisogno e dall'attaccamento e come responsabilità nella condivisione e nel miglioramento della condizione individuale e sociale dell'umanità

L'OBBEDIENZA

Concludiamo con il terzo voto del cristiano, come ho già detto non solo consacrato, quindi non solo prete, frate, suora o monaco, ma che sia autenticamente in grado e cosciente di voler vivere cristianamente
Il “volere” è infatti consustanziale al “dovere” e qui spiegheremo perché.
L'essere umano nasce come un animale, obbedendo cioè solo ai suoi istinti, si viene al mondo dunque "animali", creature viventi come altre, e si “diventa” esseri umani, con l'accoglienza in una comunità umana di cui la prima forma è la famiglia, con l'educazione che riceviamo in essa e a scuola, e soprattutto mediante le relazioni che sappiamo instaurare nella comunità umana.


Se infatti Dio ci dà le vita mediante i nostri genitori, il nostro Io non è determinato da altro che dalle nostre relazioni con ogni essere vivente con cui per tutta la nostra vita siamo necessariamente interdipendenti. Nessuno infatti, vivendo, può fare a meno di altri esseri viventi, per nutrirsi, crescere, imparare, lavorare, vivere e persino morire, dato che anche un cadavere ha bisogno di qualcuno che lo seppellisca.
La qualità delle nostre relazioni, durante la vita è quindi lo specchio della qualità del nostro stesso vivere.
Detto ciò l'individuo, il bambino tende a nascere e a crescere mettendo al centro se stesso e obbedendo solo al suo egocentrismo più o meno esaltato o moderato dalla sua famiglia.


Obbedire al padre e alla madre, poi ai suoi insegnanti al datore di lavoro, mano a mano che cresce ed acquisisce autonomia, è quindi più un sacrificio che una soddisfazione, lo diventa solo quando il sacrificio propizia una soddisfazione più grande. Si abitua così al do ut des, al dare in funzione di uno scopo..il regalo di mamma e papà, la promozione a scuola, quella sul posto di lavoro per fare carriera, così come in una qualsiasi associazione, l'agognata pensione..e alla fine un bel posto al cimitero dove essere ricordato.
E' del tutto evidente che questa non è una vera obbedienza ma solo una “ginnastica di obbedienza” che trae senso dall'utilitarismo.
L'Obbedienza cristiana però è un'altra cosa, è riconoscere che Dio esiste come autorità suprema e universale, sebbene non abbia alcun potere che possa essere paragonato a quello umano.


Possiamo chiamare il potere umano “signoria” “padronato” persino “presidenza” perché presuppone uno che sta sopra gli altri, talvolta sopra tutti, così abituati ci rivolgiamo anche a Dio chiamandolo Signore.
Ma Dio non è Signore, e cioè “padrone” delle nostre vite, Dio è Amore, quindi “è” nelle nostre vite e noi non siamo altro che il Suo tempio. Lo dice anche S. Paolo (1Cor 3,16-23) “Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio.”
Quindi più che obbedire al “Signore Dio nostro”, bisogna riconoscere la presenza di Dio in noi, e lasciare che possa orientare la nostra vita
Evidentemente questa è la cosa più difficile, più della povertà e della castità che abbiamo precedentemente illustrato, perché obbedire a una “non obbedienza” che non è altro che una “riconoscenza” nel senso duplice del riconoscere ed essere grati, può apparire assurdo e paradossale e può persino disorientarci
Come facciamo infatti a trovare Dio in noi, se siamo pieni di affanni incertezze, impellenze materiali, ansie, paure, rabbia, rancore e quant'altro acceso dalle nostre passioni?


Come facciamo se persino la Sapienza, quella filosofia che ha cercato di mettere argine al thauma, all'arcano terrore del vivere che si concretizza con la paura della malattia, della morte e del decadimento fisico nella vecchiaia, ci appare insufficiente e spasmodicamente curiamo in ogni dettaglio la nostra apparenza fisica, mediatica, e persino “sapienziale”, con cure estetiche, foto e selfie di ogni genere, e persino scrivendo libri che speriamo ci possano eternare?
Eppure “ la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio”.
Non ci resta dunque che una “sana follia divina”. Lo diceva Platone prima di S. Paolo: “Ci sono due forme di follia: una che nasce da malattia umana, un'altra che deriva da un divino mutamento delle abitudini consuete”. Così scriveva Platone nel Fedro, distinguendo anche le varie forme di questa follia, “dono divino”, “da cui giungono all'uomo i più grandi doni” un dono divino che nel suo caso proviene da Apollo per quanto riguarda la divinazione e da Dioniso per l'iniziazione mistica, dalle Muse per l'ispirazione artistica e da Afrodite per l'Amore
Ma per il cristiano tutti i doni provengono da Dio, che è Amore nella Sua suprema potenza gloria, beatitudine e bontà.


In poche parole il Cristiano “obbedisce” a Dio, quando lascia che Dio viva in lui, persino “follemente” come dimostrò Francesco d'Assisi, ma cosa è che distingue la follia divina da quella patologica? Che la prima genera gioia in noi stessi e nel nostro prossimo, mentre l'altra, al contrario, genera sofferenza talvolta persino autodistruttiva
Tutti i grandi profeti erano “folli di Dio”, da Abramo che intraprese un viaggio senza conoscere bene la meta, a Mosè che portò il suo popolo in una terra solo “promessa” che lui riuscì a mala pena a vedere, fino a Gesù che predicava in contrasto con la Chiesa del suo tempo in nome di una Comunità di condivisione fondata sull'unica regola dell'Amore verso Dio e di quello verso il Prossimo
Possiamo essere come loro ed obbedire soprattutto a questa “mania divina” che anima le nostre vite? Direi che è un po' difficile anche se arriva sempre nella storia qualcuno che se ne frega di tutto il resto e almeno ci prova...e magari come Francesco ci riesce pure, anche se poi arrivano altri a spiegare che ci vuole una regola che amarsi e amare Dio non basta anzi, è rischiosissimo, che quindi bisogna obbedire ad uno Statuto ad una Tradizione ad una Regola...a loro che ne sono gli interpreti indiscutibili


Ma quanti hanno perso Dio e lo stanno ancora perdendo obbedendo a regole religiose militarizzate, per cui Dio lo vuole!? Anche se straziano la carne e distruggono i beni e i sacrifici del loro  prossimo!
La bestia umana, peggiore degli animali, crede, obbedisce e combatte! Ma perde Dio!
Allora va bene ascoltare i maestri, i sapienti, i sacerdoti, meditare le Sacre scritture, obbedire ai loro principi, ma solo se vive in noi quella sacra scintilla della follia divina che ci porta soprattutto a riconoscere Dio, più che a credere in Dio e a chi pretende di parlare in Suo nome
Sembra una cosa impossibile obbedire a Dio e per una persona abituata o assuefatta a una “ginnastica di obbedienza” e in effetti è quasi impossibile
Eppure è la cosa più facile del mondo, basta fermarsi, sedersi magari a gambe incrociate o su una sedia se non ci si riesce, e respirare. Noi infatti “respiriamo Dio”, perché lo stesso spirito che, non a caso in ebraico si dice Ruah, si manifesta nell'aria, nel vento perché "Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è dallo Spirito" (Giovanni 3,8)


La differenza fondamentale tra il percorso cristiano e quello gnostico, iniziatico e sapienziale, è proprio che noi non dobbiamo perfezionarci, in un cammino paragonabile alla scalata di una montagna, attraverso le sue balze e i suoi gradi e pagando un prezzo ad ogni gradino che saliamo. Noi non dobbiamo arrivare a Dio in un percorso estenuante di sacrifici e mortificazioni ascetiche.
Noi semplicemente dobbiamo lasciare entrare Dio in noi, nel cammino eucaristico, ma anche respirandoLo in ogni attimo, momento e giorno della nostra vita
Respirare Dio, sgombrando la mente nella preghiera e nella meditazione da ogni pensiero che ci distrae e ruota solo intorno a noi stessi, e lasciarla vuota, in un processo che gli antichi chiamavano kénosis che vuol dire proprio “svuotamento”, vuol dire propiziare la Sua presenza in noi, vuol dire fare ciò che fece Gesù Nella sua Lettera ai Filippesi infatti S. Paolo scrisse: « Cristo svuotò se stesso (ἐκένωσε, ekénōse)» (Flp 2, 7), facendo uso del verbo κενόω, kenóō, che, appunto, significa "svuotare" “ E per fare che cosa? Ce lo dice lo stesso S. Paolo con il seguito: “avendo preso natura di servo, diventando simile agli uomini e apparso in forma umana, si umiliò facendosi obbediente sino alla morte”


Eccolo il senso autentico dell'obbedienza cristiana, svuotarsi dei concetti, delle sovrastrutture persino delle dottrine umane, lasciare che Dio viva in noi per diventare suoi servi e vivere in obbedienza alla sua presenza.
E la presenza di Dio è sempre quella che ci rende gioiosi, amorevoli, sorridenti, e aperti alla prossimìa, alla presenza del prossimo, ci fa cantare, suonare, scrivere, danzare, e ci libera innanzitutto dalla depressione e dalla tristezza
Obbedire a chi ci rende triste, inconsapevole della presenza altrui, e ci dice quel che si deve fare perché pretende di parlare in nome di Dio e magari pretende pure di assolverci in nome di Dio, e non ci consola, non condivide nulla di noi, anzi, ci rimprovera, se non addirittura ci mortifica, forse nemmeno ci sta veramente ad ascoltare, vuol dire solo allontanare Dio da noi
Giustamente Don Milani diceva che “l'obbedienza non è più una virtù” specialmente quando obbedire significa mandare a morire poveri innocenti in nome dell'idolatria di una Patria o di un Dio degli Eserciti cancellato da Gesù con il suo Amore crocefisso e risorto.


Abbiamo detto all'inizio che “volere” è consustanziale al “dovere” ed è così quando “obbedendo” all'Amore lo si vivifica, e il suo giogo è lieve, lo dice lo stesso Gesù Mt 11,28-30 “In quel tempo, Gesù disse: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». “


La vera obbedienza cristiana è dunque gioiosa e lieve, è l'Amore, incondizionato, svuotato da ogni finalismo e personalismo, equanime, puro perché libero e responsabile come negli altri due voti che abbiamo osservato, anche nelle condizioni più disperate e senza limiti, fino in fondo, fino alla fine e dall'inizio della vita. Non bisogna lasciarsi distrarre da altro, perché la distrazione è la madre di tutti i peccati


Amor, etiam spes contra spem et usque ad finem

Carlo Felici


martedì 29 novembre 2022

CRONACA DI UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA E PERMANENTE





La tragedia di Ischia ci colpisce tutti molto dolorosamente, ma in molti ormai dicono che poteva essere evitata, però il solo dirlo in modo palese fa insorgere esponenti della destra governativa che gridano allo sciacallaggio.

Un governo dovrebbe solo avere il compito di garantire ai cittadini servizi e sicurezza essenziali per una adeguata convivenza civile, il resto dovrebbe essere demandato alla libertà e alla responsabilità dei cittadini stessi. E questo funziona altrove dove la società civile è meglio organizzata, più responsabile e meno inquinata da mafie di ogni genere e di ogni settore.

Con i cambiamenti climatici e le urgenze di un Paese riedificato dalle macerie di una guerra devastante ormai quasi ottanta anni fa, quello che urge di più in Italia è un piano di prevenzione e di manutenzione strutturale che riguardi ogni settore, da quello pubblico a quello privato. E la lotta all'abusivismo e alla speculazione, specialmente edilizia, dovrebbe essere condotta con efficienza e adeguato rigore.

Perché ormai in ballo non ci sta un crollo ogni tanto oppure qualche crepa negli edifici, ma la vita stessa dei cittadini e di intere famiglie

Ebbene, a fronte di tutto ciò, quando il governo stenta, per stessa ammissione del Ministro dell'Economia Giorgetti, a trovare i soldi, mentre gli stessi soldi che ci sono non vengono spesi come e dove dovrebbero, ci troviamo di fronte alla riattivazione di una Società per lo Stretto che risale a più di 40 anni fa e il cui unico scopo è stato quello di ingoiare miliardi di lire prima e centinaia di milioni di euro dopo, ovviamente con tutti gli avvoltoi che le girano attorno e che gongolano al solo pensiero di tuffarcisi sopra di nuovo.

E ci sta pure chi con perizia miracolistica sostiene che si può fare la manutenzione e contemporaneamente il ponte sullo Stretto.

Al 31 dicembre 2021 le opere incompiute in Italia risultavano pari a 379, Quali le cause? In 153 casi (40%) per la maggior parte di essi la ragione è la mancanza di fondi (in poche parole si è fatto il passo più lungo della gamba non prevedendo adeguatamente i costi), in 115 casi (30%) si sono riscontrati problemi tecnici, per 69 opere (18%) la motivazione è stata il fallimento, recesso o risoluzione contrattuale dell’impresa, 21 opere (6%) sono state interrotte per sopravvenute nuove norme tecniche o disposizioni di legge, per 15 opere (4%) non c'è stato interesse a completarle, mentre per 6 opere (2%) ci sono state più cause concomitanti.

A fronte di tutto ciò, abbiamo un desolante panorama di un Paese che non sa e non riesce a spendere anche quello che ha a disposizione, infatti nella nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef) si precisa che l'Italia nel 2022 ha speso la bellezza di 13,2 miliardi in meno rispetto a quanto avrebbe dovuto. E' evidente quindi che, con tutto quello che c'è da fare in questo sgangherato Paese il cui i disastri servono solo ad incrementare i talk show (cioè le chiacchiere), non siamo capaci nemmeno di utilizzare le risorse che abbiamo a disposizione, pur pretendendo di saper fare manutenzione e ponti sul nulla. 

Tutto ciò accade anche perché abbiamo una burocrazia da “azzeccagarbugli” che non dispone di risorse, mezzi e personale per controllare che tali risorse vengano spese in maniera adeguata. Viene però quasi il sospetto che non si voglia controllare adeguatamente, perché in Italia l'accompagnamento della realizzazione di opere pubbliche a tangenti e tangentari è stato un fenomeno cronico ed endemico e tuttora tende, nonostante l'Europa ci abbia messo sotto stretta sorveglianza, ad essere permanente.

Abbiamo messo in campo una cifra irrisoria per contrastare il caro vita, specialmente dovuto alle bollette e all'inflazione crescente, rispetto alla Germania, oggi i parametri di Maastricht appaiono ridicoli e offensivi rispetto alle emergenze strutturali di una Europa che sembra non possa far altro che portare armi in Ucraina invece di fare qualcosa di concreto per far cessare la guerra, incrementare il benessere degli europei e regolare i flussi migratori. La politica internazionale dell'Europa è praticamente nulla, specialmente se paragonata agli interessi internazionali dei singoli stati come la Francia.

La Germania ha speso per armarsi e per aiuti una cifra ben più consistente di quella che sarebbe bastata a salvare la Grecia dal baratro e che le ha imposto invece una cura da lacrime e sangue.

Non so come si possa blaterare oggi contro il sovranismo quando un paese a conduzione socialdemocratica che tuttora rappresenta la maggiore economia europea, come la Germania, pratica di fatto il sovranismo più di chiunque altro in tempi recenti in Europa.

Il Covid non pare abbia insegnato nulla all'Europa e tanto meno all'Italia, se a fronte di questa emergenza si doveva rafforzare la capacità di utilizzare le risorse per una società più giusta e solidale, con particolare attenzione alle politiche scolastiche, sanitarie e ambientali. Siamo invece ricattati dalla guerra e dall'inflazione che qui da noi tende a salire oltre quei livelli che più di 40 anni fa il governo Craxi aveva fatto scendere. Fu proprio lui a dire che, nella migliore delle ipotesi per noi l'Europa sarebbe stata un limbo se non un inferno, ma non perché lo è realmente, ma solo perché noi non sappiamo starci, né razionalizzando ed utilizzando le risorse europee né presentandoci in modo credibile e dignitoso. Quando infatti, con Draghi, questo è stato possibile, è stato lo stesso mondo politico a voler tornare alla solita demagogia da “navigazione a vista” con orizzonti molto ristretti.

Si è spesso detto che finalmente in Italia, dopo più di un decennio, abbiamo un governo politico democraticamente eletto dai cittadini, ma se poi i fatti dimostrano che la conduzione politica si rivela peggiore di quella economica, bisogna rassegnarsi amaramente al predominio dell'economia sulla politica.

Così, ad governo che promette e predica “mari e ponti” resta come compito fondamentale quello di non assistere impotente al crollo dei monti.


Carlo Felici


venerdì 11 novembre 2022

UNA CIVILTA' A TESTA IN GIU'

 




Di tutto abbiamo bisogno oggi fuorché di macabre rappresentazioni che, in un tempo di guerra civile internazionale, evochino anche quella vissuta nella nostra storia, perciò lo diciamo senza se e senza ma: l'esposizione da parte di alcuni gruppi della cosiddetta sinistra antagonista di un manichino con le sembianze di Giorgia Meloni appesa a testa in giù, richiede una ferma condanna e una dura pena per i colpevoli.

Perché non solo rappresenta una diffamazione ed una offesa grave alla persona e alla carica che ella ricopre, ma è la quintessenza di un orrore storico strumentalizzato con becera mala fede

Sarà bene ricordate quindi, per fila e per segno, cosa ebbe a dire Sandro Pertini quando fu a conoscenza di ciò che avvenne quasi ottanta anni fa a Piazzale Loreto, che quell'orripilante e macabro manichino riecheggia: Quando mi dissero che il cadavere di Mussolini era stato portato a piazzale Loreto, corsi con mia moglie e Filippo Carpi. I corpi non erano appesi. Stavano per terra e la folla ci sputava sopra, urlando. Mi feci riconoscere e mi arrabbiai: «Tenete indietro la folla!». Poi andai al CLN e dissi che era una cosa indegna: giustizia era stata fatta, dunque non si doveva fare scempio dei cadaveri. Mi dettero tutti ragione: Salvadori, Marazza, Arpesani, Sereni, Longo, Valiani, tutti. E si precipitarono a piazzale Loreto, con me, per porre fine allo scempio. Ma i corpi, nel frattempo, erano già st ati appesi al distributore della benzina. Così ordinai che fossero rimossi e portati alla morgue. Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per terra

Lo stesso Parri definì quell'atto ignobile una vera e propria “macelleria messicana” nonostante venga tuttora rivendicato da frange estremiste e neocomuniste della sinistra come “un atto di giustizia”, e questo ci ricorda un po' cosa disse in proposito Pajetta un tempo ad Almirante: “noi i conti con voi li abbiamo chiusi a Piazzale Loreto”

Ebbene, sarà il caso di di dirlo senza peli sulla lingua. Quello di Piazzale Loreto fu uno scempio condannato dalla maggior parte dei gruppi partigiani combattenti di allora. Però, con buona pace dei comunisti di oggi e di ieri, certi conti con il periodo della Resistenza e anche con il seguito dei suoi strascichi di orrore, non si chiudono mai, perché è sempre necessaria consapevolezza, impegno, conoscenza storica e determinazione nel perseguire i valori dell'umanità e della democrazia. Però, quando si ha bisogno per rinvigorire certe posizioni politiche della disumana rappresentazione macabra della storia, non si dimostra forza ma debolezza, specialmente in un tempo che ci sbatte in faccia l'ennesima ferocia della guerra.

Evidentemente, a quasi ottanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla caduta del fascismo, non siamo ancora in grado di manifestare secondo i sani principi su cui dovrebbe fondarsi un Paese civile e democratico. In special modo certa disumanizzazione settaria che allora divise il mondo socialista da quello comunista tende a ricomparire, e non basta che abbia già fatto tanti danni nel passato remoto della Lotta di Liberazione e anche nei tragici anni di piombo del nostro passato prossimo, ancora ostinatamente vuole avere il suo palcoscenico nella storia per inquinare il nostro presente.

L'assalto squadrista alla sede della CGIL, l'esposizione del manichino di un Presidente del Consiglio eletto democraticamente dal popolo, rappresentano un rigurgito di barbarie che ancora purtroppo non è sepolto nel nostro peggiore passato. Sono il vomito di un odio che tende a rendere impossibile la vera unificazione di un popolo che si divide persino su ciò che ha fondato l'Italia, persino sul Risorgimento

Riecheggiano così nel presente i moniti illustri dei nostri migliori poeti, come Manzoni, siamo ancora “volgo disperso che nome non ha”, perché il nome di popolo si ha quando ci si riconosce in una storia e in una tradizione comune, non esportata da altri con le armi, né imposta da altri con l'ideologia, ma piuttosto acquisita con la dura lotta e il sacrificio di tante vite che ci vollero per fare questo Paese che a più di 160 anni dalla sua unificazione, non ha ancora trovato la sua civiltà, identità e unità di popolo. E per contestare il presente ha tuttora bisogno di evocare i fantasmi del passato più becero della sua storia.

Così l'Italia è ancora destinata, come disse Dante ad essere serva e “di dolore ostello” oggi causato più che da altri, dal “bordello” di noi stessi.

Carlo Felici





venerdì 4 novembre 2022

PIU' SOLERTI DEL DUCE

 




La libertà di riunione è sancita dalla Costituzione ed è il fondamento di una ogni democrazia che possa concretamente chiamarsi tale.

La nostra Costituzione la regola con l'articolo 17, in merito ad esso la Corte Costituzionale ha precisato che sono «atteggiamenti sediziosi penalmente rilevanti» solo quelli che implicano ribellione, ostilità, eccitazione al sovvertimento delle istituzioni pubbliche e che risultino in grado di causare un evento pericoloso per l’ordine pubblico.

Si evince che, in tutti gli altri casi, previa autorizzazione in seguito a comunicazione agli organi di polizia, ogni manifestazione è lecita.

Questa libertà, come tante altre è stata una conquista dello Stato democratico nato con la lotta antifascista e con la nostra Costituzione.

Già infatti nel 1926 il fascismo, in una situazione per altro emergenziale in cui gli attentati al Duce erano piuttosto frequenti, cominciò a limitare i diritti dei cittadini, ponendo seri limiti alla libertà di riunione. In particolare Tra le LEGGI FASCISTISSIME del 1926, infatti troviamo la seguente norma

CAPO I. DELLE RIUNIONI PUBBLICHE E DEGLI ASSEMBRAMENTI

IN LUOGHI PUBBLICI.

ART. 18. (ART. 17 T.U. 1926).

I PROMOTORI DI UNA RIUNIONE IN LUOGO PUBBLICO O APERTO AL PUBBLICO DEVONO DARNE AVVISO, ALMENO TRE GIORNI PRIMA, AL QUESTORE.

È CONSIDERATA PUBBLICA ANCHE UNA RIUNIONE, CHE, SEBBENE INDETTA IN FORMA PRIVATA, TUTTAVIA PER IL LUOGO IN CUI SARÀ TENUTA, O PER IL NUMERO DELLE PERSONE CHE DOVRANNO INTERVENIRVI, O PER LO SCOPO O L'OGGETTO DI ESSA, HA CARATTERE DI RIUNIONE NON PRIVATA.

I CONTRAVVENTORI SONO PUNITI CON L'ARRESTO FINO A SEI MESI E CON L'AMMENDA DA LIRE MILLE A QUATTROMILA. CON LE STESSE PENE SONO PUNITI COLORO CHE NELLE RIUNIONI PREDETTE PRENDONO LA PAROLA.

IL QUESTORE, NEL CASO DI OMESSO AVVISO OVVERO PER RAGIONI DI ORDINE PUBBLICO, DI MORALITÀ O DI SANITÀ PUBBLICA, PUÒ IMPEDIRE CHE LA RIUNIONE ABBIA LUOGO E PUÒ, PER LE STESSE RAGIONI, PRESCRIVERE MODALITÀ DI TEMPO

E DI LUOGO ALLA RIUNIONE.

I CONTRAVVENTORI AL DIVIETO O ALLE PRESCRIZIONI DELL'AUTORITÀ SONO PUNITI CON L'ARRESTO FINO A UN ANNO E CON L'AMMENDA DA LIRE DUEMILA A QUATTROMILA. CON LE STESSE PENE SONO PUNITI COLORO CHE NELLE PREDETTE RIUNIONI PRENDONO LA PAROLA. NON È PUNIBILE CHI, PRIMA DELL'INGIUNZIONE DELL'AUTORITÀ O PER OBBEDIRE AD ESSA, SI RITIRA DALLA RIUNIONE.

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LE DISPOSIZIONI DI QUESTO ARTICOLO NON SI APPLICANO ALLA RIUNIONI

ELETTORALI.

Sarà bene considerare attentamente questa legge di allora, soprattutto per quanto riguarda le pene, che, nella fattispecie, prevedevano al massimo UN ANNO.

Ebbene, oggi con il decreto che è stato emanato dal governo, per impedire gli assembramenti chiamati “rave” (ma nel decreto il "rave" non è menzionato), le pene comminate arrivano FINO A SEI ANNI, anche se c'è chi parla di ridurle a quattro che sono sempre di più di quelle previste dal fascismo.

Il decreto, sarà bene sottolinearlo, arriva in una situazione non emergenziale e reca con sé una chiara matrice ideologica.

I fatti dimostrano palesemente che le Forze di Polizia sono in grado di procedere con le leggi attuali, in modo che l'incolumità, la salute pubblica vengano garantite anche in caso di riunioni giovanili alquanto chiassose, e l'ordine pubblico non venga così sovvertito. Ad attestarlo c'è la gestione recente dello sgombero di una di queste riunioni, condotto con il dialogo, senza violenza e con grande professionalità dalle Forze dell'Ordine.

Evidentemente nessuno vuole che i giovani si riuniscano rischiando crolli, spaccio di droga o violenze di vario genere, anche perché episodi di violenza che coinvolgono i nostri adolescenti sono purtroppo all'ordine del giorno, anche se non tanto spesso in riunioni del genere. Ai giovani però si dovrebbe prestare ben maggiore attenzione, sia sul piano educativo che organizzativo, perché sono il nostro futuro, ed essi vedono il loro molto a rischio, se non addirittura non lo vedono affatto, comprensibile quindi che cerchino valvole di sfogo che devono essere salutari e non pericolose

E' dunque bene monitorare situazioni del genere e, sapendo farlo, per questo bastano le leggi già in vigore.

La necessità di intervenire ad arbitrio di un prefetto e non in seguito ad una denuncia di qualcuno rappresenta invece un salto di qualità, specialmente se si tratta di riunioni in spazi privati e non pubblici. Sia perché in questo caso si deresponsabilizza il proprietario di un bene che deve averne cura anche per motivi di sicurezza sia perché lo Stato si trova ad invadere una sfera privata ipotizzando a sua volta una “invasione illecita”, quando la denuncia di una “invasione illecita” spetta solo al proprietario i cui beni sono stati “invasi”

Ricordiamo il G8 di Genova, e ciò che avvenne alla scuola Diaz, per avere un quadro di ciò che può avvenire quando lo Stato con le forze di polizia interviene pesantemente per sgomberare un luogo, per altro in quel caso autorizzato, ad accogliere persino un centro stampa. Anche allora era insediato un governo di centrodestra.

Ma torniamo ad oggi, e osserviamo oltre alla non necessità del decreto di urgenza un inasprimento delle pene e un sequestro dei beni che nemmeno una legge “fascistissima” del 1926 prevedeva e addirittura considerava di evitarle se gli aderenti alla riunione si fossero allontanati alla richiesta delle Forze di Polizia

Che un governo appena insediatosi voglia varare un provvedimento che appare concretamente più autoritario di una norma fascista è davvero singolare.

Specialmente se i suoi componenti hanno fatto di tutto per smentire che loro con il fascismo non c'entrano nulla da tempo. Magari paradossalmente è vero se in termini di liberticidio vogliono fare persino di più.

Quello che appare singolare è piuttosto che i reduci del “polo delle libertà” il cui capo, allora come oggi ha la parola “libertà” sempre a fior di labbra, possano approvare urgentemente e supinamente una norma del genere che, diciamolo ai rappresentanti di quello che vorrebbe essere il “terzo polo” e che si appresta in caso di tentennamenti a fare da stampella a questo governo, va abolito in blocco e non emendato

Non per difendere i centri sociali, le occupazioni e nemmeno di rave party, ma semplicemente per dimostrare che le Forze di Polizia non hanno bisogno di strumenti aggiuntivi e straordinari per fare il loro mestiere, che lo Stato non ha paura dei cosiddetti “sobillatori”, che è in grado benissimo di svolgere il suo ruolo senza dover minacciare l'inasprimento di pene che nemmeno il Duce mise in atto. Il decreto infatti recita tra l'altro: “Per il solo fatto di partecipare all'invasione la pena e' diminuita.” ma evidentemente viene comminata lo stesso, mentre quello fascista la evitava a chi, pur avendo partecipato, se ne fosse poi andato. 

Vorremo poi vedere se, di fronte alle palesi “invasioni” degli ultrà nei vari stadi o al di fuori di essi, lo Stato sarà in grado di applicare scrupolosamente questa norma, così come potrebbe farlo con “invasioni scolastiche”, “invasioni” di assemblee autoconvocate e via dicendo, c' è pure chi ha ironizzato sulle riunioni condominiali. Se quindi l'intenzione era quella di dimostrare ideologicamente la presenza di un governo forte sin dalla sua nascita, in grado di assicurare sempre e comunque “legge e ordine”, l'effetto è diametralmente opposto, sia perché queste norme saranno sicuramente ridimensionate anche per stessa ammissione dei componenti di questo governo, ammettendo un suo errore, sia perché si ha la dimostrazione che, già dall'inizio, questo esecutivo non è capace di intervenire con gli strumenti ordinari, pur potendo farlo, come dimostrano i fatti, palesando un urgenza di strumenti straordinari di cui nessuno sente la necessità.

Perciò l'unica conclusione che si può trarre è che come prima iniziativa messa in campo da questo governo ci sia la paura. Noi avevamo più volte detto che, senza pregiudizi, avremmo valutato il governo dal suo operato, senza minimamente imputarlo di neofascismo. Ebbene un provvedimento che, nei fatti e nella repressione, appare più autoritario di quelli fascisti, non ci fa cambiare opinione perché la storia passata o recente non si ripete mai (ed in essa i cosiddetti "mali assoluti" sono sempre purtroppo relativizzati da un peggio a cui non vi è mai fine) ma si giudica sempre da sola per quella che è.

Carlo Felici

lunedì 31 ottobre 2022

25 APRILE FESTA DI DIGNITA'

 




Nel 2016 il presidente La Russa portò un mazzo di fiori al monumento di alcuni partigiani caduti nella Lotta di Liberazione ma, si badi bene, lo stesso fece al campo X o dell'«Onore» che raccoglie le spoglie dei caduti della Repubblica sociale italiana.

Oggi ricorda solo quel mazzo ai partigiani in replica a chi lo accusa di non voler festeggiare il 25 aprile, precisando che le sue parole sono state travisate, in quanto non gli piace che questa data venga strumentalizzata in senso propagandistico dalla sinistra

Possiamo dire, pensando all'estromissione della Brigata Ebraica, e alla partecipazione di movimenti filopalestinesi, che effettivamente non ha tutti i torti. La questione però è un'altra.

Già nel 2016 La Russa ebbe a dire: «Non vogliamo dare lezioni a nessuno ma non c'è atto di maggior barbarie di quello di suddividere in meritevoli o meno della pietà umana»

Ora basterebbe ricordare al Presidente del Senato che il 25 aprile non è il 2 novembre e che sicuramente la sua affermazione è validissima, ma si adatta meglio ad una data in cui si celebrano tutti i morti, in nome della pietà umana e senza fare distinzioni tra di loro.

Il 25 aprile resta la data che nella nostra Repubblica democratica segna lo spartiacque tra dittatura e libertà, prima di quella data la libertà era negata, dopo quella data la libertà è stata data a tutti, anche a chi non si riconosce in quel giorno

Diceva Pertini, citato per altro da La Russa nel suo discorso di insediamento al Senato: “Non si può tollerare chi non tollera” e lo diceva riferendosi al fascismo, perché esso era l'incarnazione dell'intolleranza nei confronti di chi la pensava diversamente da quella ideologia

Invece siamo arrivati al punto da tollerare anche i nostalgici che in camicia nera sfilano a Predappio, i vari calendari con il faccione del Duce e i movimenti di varia estrazione che si riciclano continuamente per ripresentarsi con le sigle più diverse ma sempre con la stessa ideologia neofascista. Potremmo dire che questa è la democrazia, anche questa la conquista di coloro che morirono da partigiani e che vivono da cittadini liberi

Ma se avessero vinto gli altri che combattevano con le truppe naziste e che per altro parteciparono ai rastrellamenti di gente inerme e alle brutali rappresaglie? Cosa sarebbe successo? Ovvio che la storia non si fa con i se e con i ma, però non è difficile immaginarlo in un racconto di fantastoria.

La prima cosa sarebbe stata la mutilazione della Patria. Quella che era costata più di un milione di feriti, mutilati e morti tra Risorgimento e Prima Guerra Mondiale che ne fu la conclusione

Adriatische kustenland e Operationszone Alpenvorland si chiamavano le zone di fatto annesse al Reich tedesco, sottratte all'amministrazione della Repubblica Sociale Italiana e amministrate direttamente dai tedeschi che vi arruolavano anche soldati da mandare in Italia, come a via Rasella, in divisa tedesca. Esse comprendevano la provincia di Bolzano, di Trento, Belluno, Gorizia, Trieste, Fiume, quindi buona parte del Veneto, tutto il Friuli e anche Trentino Alto Adige ed l'Istria che allora era ancora italiana

Se i tedeschi avessero vinto la guerra, sicuramente si sarebbero tenute quelle terre, azzerando non solo i risultati della Grande Guerra, ma anche buona parte di quelli ottenuti con le guerre del Risorgimento

Ecco, tralasciando quello che sarebbe accaduto agli sconfitti con la repressione e le deportazioni di massa, soffermiamoci proprio su questa “mutilazione” dell'Italia avvenuta con la complicità di Mussolini e della sua Repubblica Sociale, solo per capire la differenza non certo irrisoria tra chi combatteva da una parte e chi militava nell'altra

C'è una sequenza del film “Il partigiano Johnny” in cui alcuni reduci repubblichini catturati dai partigiani si allontanano su una barca e chiedono ai partigiani rimasti sulla riva: “Se vincete voi che ne sarà della nostra Patria?” Gli altri rispondono seccamente: “Non vi preoccupate..”

Tutto il cosiddetto mito della Patria su cui il fascismo fondò le sue radici fin dall'inizio, fin da quando Mussolini si presentò al re dicendo: “Maestà vi porto l'Italia di Vittorio Veneto”, sarebbe stato rinnegato, e fu effettivamente azzerato quando Mussolini consegnò senza fiatare le conquiste di Vittorio Veneto ad Hitler che non ci avrebbe mai più restituito quei territori, mentre gli americani avrebbero potuto tranquillamente annettersi la Sicilia, contando sul consenso anche di una certa parte dei siciliani, ma si guardarono bene dal farlo e ci aiutarono anche a riprenderci quei territori momentaneamente perduti, e se non ci fossero stati molti comunisti che credevano più nella patria sovietica che in quella italiana, forse avremmo potuto anche conservarne altri lungo il confine orientale.

Ma la storia è sempre quello che è stato, non quello che avrebbe potuto essere, anche dopo la fine della guerra con un prolungamento di rappresaglie e di guerra civile a cui solo il varo della nostra Costituzione pose veramente fine

San Bernardo diceva che “dove la verità e la misericordia si corrispondono, anche la giustizia di Dio e la pace stanno insieme”

E' questa una frase emblematica per trovare la via di una pacificazione definitiva in Italia dopo quasi ottanta anni dai tristi eventi della Seconda Guerra Mondiale. Perché la verità, anche quella storica, se non deve mai comportare la mancanza di pietà e di misericordia, anche nei confronti dei vinti, allo stesso tempo non può e non deve rinnegare se stessa

Pietà dunque e misericordia per i morti della Repubblica Sociale, ma non diciamo che storicamente fossero dei patrioti, nel senso anche inteso dal nostro Presidente del Consiglio, perché erano semplicemente dei giovani prigionieri di una idea sbagliata, una idea che se si fosse realizzata, anzi, che mentre essi stavano cercando di realizzarla, stava portando alla morte della Patria, con la sua mutilazione territoriale e con la negazione definitiva della libertà.

Al contrario gli altri, che giustamente chiamavano loro stessi allora patrioti e non partigiani, quella Patria la volevano libera ed integra e alcuni di loro sacrificarono anche la la loro vita per difenderla da quei comunisti che occupavano quei nostri territori ad Est, in combutta con partigiani italiani ai loro ordini, altrettanto traditori della loro Patria come quelli fascisti. Non si possono mettere sullo stesso piano tutti quei morti, sarebbe una offesa alla storia e alla dignità umana.

Se vogliamo dunque una vera pacificazione in nome della Patria comune, cerchiamo innanzitutto di emendare dal nostro DNA queste perniciose ideologie, non perché si possano mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo, ma perché, in modo differente tra loro, hanno a lungo impedito che l'Italia fosse una Patria libera. Il fascismo con la dittatura, il comunismo con la mancanza dell'alternanza politica, perché se i comunisti contribuirono alla stesura della nostra Costituzione e al progresso civile poi, di fatto, prigionieri per 40 anni della loro ideologia, non consentirono che ci fosse, come in tutti i paesi europei, una normale alternanza democratica tra governo ed opposizione, rifiutando a lungo di assumere la fisionomia di un partito socialista moderno, democratico e liberale come ne esistono in tutti i paesi liberi europei, persino in Spagna che uscì dalla dittatura 30 anni dopo di noi.

Io per altro il 25 aprile non lo associo tanto alle manifestazioni, ma ai ricordi di mio padre che non c'è più, un ragazzino a cui bruciava lo schiaffo di un fascista che gli aveva fatto saltare il cappello dalla testa e che sparava alle cicogne tedesche, i ricognitori aerei che schiaffeggiavano le nuvole, roteando come avvoltoi sulla nostra Patria. Ogni anno celebro questa data come fondante del conquista della dignità di una persona e di un popolo. E di schiaffi non ne ho mai dati, nemmeno a mio figlio.


Carlo Felici

venerdì 28 ottobre 2022

CENTO ANNI E MARCIO SU ROMA

 


                                            

Lungi da me il voler ridicolizzare con il titolo di questo intervento ciò che accadde cento anni fa, perché è cosa tuttora molto seria, su cui gli storici non hanno smesso di indagare e di discutere.

Se fu la degenerazione del sistema liberale, inaugurato con i governi unitari postrisorgimentali, se la conseguenza di un biennio rosso che aveva messo alle corde e spaventato a morte le classi medio borghesi, oppure la convergenza di interessi transnazionali, che andavano dalla Monarchia al Vaticano, passando per la Massoneria, è ancora da studiare e molto bene

Ho già ripercorso tutti quegli eventi, dal dopoguerra al delitto Matteotti nella mia storia a puntate su questo giornale, in particolare parlando della Marcia su Roma nella ventunesima (https://www.avantionline.it/turati-contro-mussolini-al-governo-con-la-fiducia-degli-invertebrati/) così come ho cercato di rimarcare in tutta la mia storia che l'avvento del fascismo fu dovuto a due principali fattori: il clima di violenza dell'immediato dopoguerra che coinvolse direttamente anche la sinistra, e l'incapacità del Partito Socialista di allora, nonostante fosse uscito vittorioso dalle urne nel 19, di perseguire in maniera unitaria una politica riformista che fosse all'altezza delle esigenze di quel momento storico, rendendosi credibile non solo nei confronti delle masse proletarie, ma anche dei ceti medio borghesi, detentori dei mezzi produttivi. La divisione delle forze della sinistra di allora, segnata da ben tre scissioni, portò inevitabilmente il fascismo al potere già individuato da Giolitti, fin dall'impresa di Fiume non come elemento sovversivo e rivoluzionario, ma come forza politica stabilizzatrice degli interessi delle classi dominanti di quel periodo e con cui si doveva necessariamente scendere a patti. E questo con buona pace di Mussolini, che sbandierò il mito della “rivoluzione fascista” per più di venti anni.

Non è questa la sede per analizzare come il fascismo si consolidò, cercando, pur nella sua veste autoritaria, liberticida e razzista, anche di modernizzare lo Stato e con questo, conquistando pure un largo consenso popolare che, è inutile negarlo, ci fu in particolare nei primi anni '30.

Oggi più che altro è opportuno “mutatis mutandis”, considerare il fattore che unisce, a distanza di un secolo, l'affermazione di due destre ben diverse ma guidate sempre, ironia della storia, da un signor e da una signora M, come se la storia volesse stigmatizzare con la sua M, il suo Memento, la necessità di ricordare e di imparare, etiam spes contra spem.

M uomo si affermò con il marciume della violenza contro le opposizioni e con l'appoggio dei poteri forti di allora, in particolare la Monarchia, pilotata da una Massoneria, poi rinnegata per accordi con il Vaticano, ampiamente presente tra gli alti ufficiali dell'Esercito di allora, che paventava il “pericolo bolscevico”, M donna si afferma oggi con un ampio consenso popolare, ma grazie anche ad una legge elettorale che ha disgustato e tenuto fuori dalle urne ampia parte del popolo italiano (circa il 40%). Per le divisioni di una sinistra che è in preda a convulsioni interne miseramente come opposizione, e dopo una lunga marcia non certo marcita nella permanenza contigua al potere nelle grandi coalizioni che sono piovute dall'alto in Italia per stigmatizzare, certe volte in modo rovinoso, il primato dell'economia sulla politica. In questo, bisogna ammetterlo, M donna è stata più rivoluzionaria di M uomo, perché in ogni caso è riuscita a ribaltare questo primato, riaffermando, come è necessario in ogni democrazia, il primato della politica sull'economia.

Che poi la sua politica porti con sé pesanti interrogativi economici tutti da verificare, affrontare e risolvere, è senza dubbio una questione che ci riguarderà da vicino, fin da subito e sulla quale bisognerà vigilare con estrema attenzione, perché questa apparente differenza tra M uomo e M donna potrebbe anche risolversi in una similitudine, se alla fine saranno comunque e sempre garantiti gli interessi dei gruppi economici dominanti e i nodi sociali che oggi avvincono anche quelli emergenziali non saranno sciolti, e se la protesta montante che potrà seguirne sarà repressa con la solita violenza del potere che anche in una democrazia spesso non tarda ad abbattersi su studenti, lavoratori e licenziati che scendono in piazza.

Franco Cardini ha recentemente affermato in proposito: non si deve rispondere inasprendo i toni dell’antifascismo, bisogna rispondere rifondando criticamente un antifascismo che serenamente torni a parlare di queste cose”

E questa mi pare la chiave migliore per rileggere la storia e cercare di ricavarne una lezione costruttiva per il presente. Cosa vuol dire? Non agitare soprattutto il pericolo fascista come il pastorello della famosa fiaba che gridava “Al lupo ! Al lupo!” in continuazione, perché il suo unico effetto fu che alla fine il lupo arrivò davvero e si mangiò tutte le pecore. Quindi vigilare, anche in senso antifascista, non vuol dire urlare l'antifascismo in continuazione, ma saperlo rinnovare sia con la memoria storica che con l'azione politica, combattendo e mobilitandosi contro concreti provvedimenti liberticidi, nel momento in cui effettivamente vengono messi in atto.

C'è una cosa che preoccupa di M donna, ed è la sua visione dell'antifascismo “alla chiave inglese”, la quale denota quanto meno, se non un vuoto di memoria storica, almeno una deformazione generazionale. Certo non è colpa dei coetanei di M donna se sono nati in un'epoca in cui l'antifascismo storico che ha fondato la nostra Repubblica e la nostra Costituzione, non li ha visti protagonisti, diciamo invece che hanno piena responsabilità se invece di studiare la storia preferiscono la lettura dei romanzi fantasy.

Perché evidentemente l'antifascismo militante fu soprattutto quello di chi rischiò galera, confino, esilio e anche torture e morte, per darci quella Patria libera che sembra tanto piacere anche ad M donna. Da questo punto di vista, bisogna riconoscere che Fini, con la svolta di Fiuggi, fece molto di più definendo il fascismo come “il male assoluto”, per prendere una distanza che fosse definitiva da esso, sebbene purtroppo il male, nella storia, sia sempre destinato a relativizzarsi, proprio perché al peggio e ai mali dell'umanità, lo vediamo con triste realismo tuttora in Europa, non c'è mai una fine

Quella svolta aveva anche portato finalmente la destra ad abbandonare nel simbolo un emblema dichiaratamente neofascista come la Fiamma Tricolore

Lo ribadisce lo stesso Cardini che militò da giovane nelle file del Movimento Sociale Italiano: "I comizi si svolgevano tra saluti romani, gagliardetti e canzonette littorie. Anche in Fratelli d'Italia c'è ancora chi fa gli occhi dolci a Mussolini e non resiste ad alzare il braccio. Oggi si potrebbe chiedere responsabilmente a Giorgia Meloni: sei il presidente del Consiglio di una Repubblica antifascista? Allora devi sopprimere la fiamma tricolore, simbolo inequivocabile di un partito neofascista. Sarebbe un vero segnale di rottura"

Perché effettivamente è assurdo che un partito di governo in Italia rechi con sé proprio quel simbolo che evoca ancora non solo una storia partita cento anni fa, ma tutta quella stagione di scontri e di violenza che nei discorsi parlamentari la destra a parole dice di voler emendare. Un po' come se la sinistra volesse governare con la Falce e Martello, che per altro rievoca tutt'altra storia, almeno in Italia.

Associando l'antifascismo militante solo alla “chiave inglese” M donna ha commesso un errore storico e politico abnorme perché con ciò sono emersi tutti i limiti non tanto del suo spessore politico, quanto piuttosto di quello culturale. Perché l'antifascismo militante dei Fratelli Rosselli, di Gramsci, di Amendola, di Gobetti e, diciamolo ad alta voce di Matteotti non è quello della “chiave inglese” ma quello della nostra libertà e della nostra Costituzione!

Ed è ancora il nostro se sul tema dell'antifascismo ci si vorrà sfidare.

Questo è il tema del centenario della Marcia su Roma, emendare il marcio che tuttora emerge da una propaganda fondata sul fattore numero uno che genera i mostri della storia: l'ignoranza

Bisogna comprenderlo bene, mettendo in atto due strategie urgenti e significative, da una parte un'opera di profonda sensibilizzazione culturale, che parta dalla valorizzazione delle memorie del primo e del secondo Risorgimento, di quello che l'ha resa unita, e di quello che l'ha resa libera. E dall'altra un impegno unitario nella opposizione, che la rimetta in discussione su più concrete basi culturali e politiche e che la renda capace di una costruttiva opera di rinnovamento del Paese, la quale non può coincidere con l'ennesimo colpo di mano per cambiare l'ossatura dello Stato, nell'ennesima manomissione della Costituzione. Chi ci ha provato e oggi ci riprova schierandosi più contro chi si oppone che contro chi governa, pur facendo parte dell'opposizione, tenga conto dei risultati che ha ottenuto, e della sua progressiva marginalizzazione politica.

Chi non ha capito che il successo di M uomo e di M donna hanno un minimo denominatore e fondamento comune: lo smembramento e la distruzione del Partito Socialista Italiano che oggi, pur ridotto ai minimi termini, non sembra nemmeno capace di fare un briciolo di autocritica, è destinato a fallire e con il suo fallimento a far fallire anche una storia gloriosa che è stata la stessa ossatura della democrazia in Italia

E se questo davvero accadrà, a salvarci resterà una sola donna con la M maiuscola, ma non sarà quella oggi al governo, sarà la Madonna.

Carlo Felici