Il ritiro di Biden per i democratici rischia di trasformarsi in una clamorosa sconfitta, portandoli al “di male in peggio”, specialmente con la scelta di Kamala Harris alla successione del Presidente ancora in carica, che non si capisce perché, oltre a rinunciare a candidarsi ancora, non abbia pure rassegnato le dimissioni da Presidente USA, esponendo la sua Nazione ad ulteriore debolezza, specie in campo internazionale.
Nonostante anche i media e vari giornalisti italiani stiano prendendo posizione per sostenere la Harris, quasi che questa sia una campagna elettorale nostrana di piccoli valvassini attenti più alle questioni di facciata che a quelle sostanziali, ella è ben lungi da avere le carte in regola per poter battere Trump, i cui consensi in aree prima in bilico, dopo il fallito attentato alla sua persona, sembrano crescere inevitabilmente, e Kamala non ha le qualità politiche e un consenso tale da spostare a suo favore gli elettori degli Stati del Midwest finora in bilico.
Già nel 2020 stentò a superare i consensi nelle primarie ed ebbe successo solo in California, come vicepresidente non ha brillato per iniziativa politica e rischia di passare per una che non è “né carne né pesce”, ella è infatti troppo radicale per vari repubblicani, e troppo moderata per vari democratici, del tutto inesperta in questioni internazionali, è difficile vederla nelle vesti di chi rappresenta gli USA e l'Occidente nel dialogo con Xi, con Putin, con il leader coreano, con le autorità iraniane e in particolare con la leadership israeliana.
La Harris quindi si presenta come il classico candidato di bandiera che non ha altro metodo per contrastare il suo avversario che la demonizzazione politica e giudiziaria, al limite quindi della deformazione professionale, più o meno come avveniva un tempo da noi con Berlusconi e Craxi.
Famosa per avere lanciato nel 2021 una sorta di proclama contro gli immigrati dal Messico, nonostante abbia avuto una nomina per occuparsi nello specifico di quelle delicate questioni, con iniziative rivolte anche a vari Stati Sudamericani, per trovare accordi mirati a limitare i flussi migratori, di fatto, non mostrò alcuna iniziativa concreta per risolvere un problema cruciale che è diventato il cavallo di battaglia di Trump.
A suo tempo dichiarò di voler difendere le conquiste fatte per le donne afghane, ma quando si attuò il ritiro sconclusionato e frettoloso delle truppe americane dall'Afghanistan, lasciando lì una gran quantità di armi e mezzi logistici ai talebani, non disse sostanzialmente nulla, mostrando evidentemente tutta la sua incapacità e impotenza politica.
Nelle questioni interne ella ha invece rivelato una maggiore capacità di iniziativa, sostenendo le proteste del movimento Black Lives Matter ed impegnandosi per promuovere norme contro certi comportamenti razzisti della polizia. Note sono anche le sue iniziative per la parità salariale, il suo impegno durante la campagna vaccinale contro il COVID, proteggendo in particolare le donne lavoratrici colpite dalla pandemia, così come il suo impegno contro i cambiamenti climatici.
Non sono queste componenti positive però tali da assicurarle un allargamento dei consensi nell'America profondamente colpita dalle delocalizzazioni, dalla crisi dei mutui, dalla precarietà e dalla disoccupazione crescente, o da quella che vede nelle spese militari crescenti un inutile spreco di risorse che, altrimenti, potrebbero essere utilizzate per migliorare settori cruciali come la Sanità.
In buona sostanza, Kamala Harris è una perfetta candidata “di facciata”, con una figura adatta ai media e alle copertine dei tabloid, ma del tutto priva di quel carisma e di quel peso politico tale da rappresentare con efficace forza gli interessi del popolo americano, colpito in particolare dalla concorrenza di una immigrazione senza controllo, dalle delocalizzazioni e da una crisi derivante dalla divaricazione sempre maggiore tra redditi stratosferici e stipendi sempre più miseri che costringono ormai la gente a dormire per strada o a fare doppi e tripli lavori, senza una adeguata assistenza previdenziale.
Kamala è invece perfetta per rappresentare le lobbies che hanno interesse a continuare una politica speculativa, a foraggiare le industrie belliche le quali divorano le risorse del Tesoro americano, e che alimentano la corruzione a tutti i livelli. Quindi il paradosso di questa candidatura è proprio il fatto che essa si presenti per combattere quello che considera il maggiore corruttore, per poi poter essere manovrata, per mancanza di efficace esperienza politica, dalle lobbies che usano proprio la corruzione per garantirsi, a livello di politica interna ed estera, i propri interessi
Non per niente le maggiori critiche che giungono alla Harris sono quelle che tendono a mettere in risalto una certa sua “ipocrisia”, ricordiamo ad esempio che nonostante la Corte Suprema le imponesse di rilasciare 5000 prigionieri per reati non violenti, lei preferì obbligarli in carcere per farli lavorare gratis, e sappiamo bene a chi vanno poi i profitti di un lavoro gratis o non pagato, che tra l'altro equivale ad una schiavitù.
Ben altro ci voleva per battere Trump, come una candidatura proveniente dal basso, politicamente credibile e competente, capace di intercettare i consensi di quelle classi medie falcidiate dalla crisi e dalle sempre più dispendiose guerre che hanno avvantaggiato solo i grandi oligopoli, con un carisma tale da fare impallidire certi suoi antagonisti in campo internazionale, ed estremamente deciso a responsabilizzare gli Alleati su loro impegno per la difesa degli interessi e della cultura occidentale.
Ma pare che anche in questo la Harris sia stata surclassata da Trump che ha già trovato un personaggio simile nel suo vice e forse successore. Se quindi egli troverà un po' di traffico nell'autostrada che si è aperta davanti a lui, specialmente dopo il fallito attentato, se egli non strombazzerà inutilmente con un inutile clackson sessista, molto probabilmente non avrà difficoltà ad arrivare alla meta
Carlo Felici
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