Tra i registi che si affacciano alla ribalta del cinema italiano, Pietro Castellitto è senz'altro tra i più interessanti, e diremmo anche tra i più innovativi.
Potremmo anche affermare che ha inaugurato un nuovo filone cinematografico, anche se sulla scia di altri registi come Brian De Palma e Quentin Tarantino, superando però la cruda e grottesca visione di entrambi.
Il suo è infatti un “surrealismo metafisico”, che risente molto della formazione nietzschiana dell'autore. Tutti i suoi personaggi sono infatti descritti non solo per quello che sono, ma soprattutto per il loro voler “andare oltre” la loro umanità, anche quando, volendo disperatamente esaltarla, ne restano tragicamente prigionieri.
Castellitto ha infatti la straordinaria capacità di raccontare tante storie nella storia, le quali si intrecciano si affastellano ma creano uno straordinario caleidoscopio di categorie umane, il cui sfondo è la disperata voglia di vivere superando la loro stessa singola vita.
Già questa conformazione era stata dipanata nel suo primo film “I predatori” i cui personaggi sono appunto “predatori” della loro stessa vita, sempre a caccia di nuove opportunità di senso, ma anche tragicamente incastrati nelle loro dinamiche esistenziali. La bravura di Castellitto nello scrivere la sceneggiatura è stata proprio quella di non disperdere e non frammentare ciascuna di queste storie, ma di raccordarle sempre in un caleidoscopio unitario in cui risaltasse l'insieme, nel tessuto di una Roma decadente tra idiosincrasie borghesi e miserie e velleità del sottoproletariato suburbano
Nel film Enea, possiamo dire che la perizia del regista nel creare immagini che spaziano dall'intimismo famigliare al ritmo sincopato e dirompente della festa con i suoi primissimi piani e le dissolvenze incrociate, in una pirotecnia di sequenze da angolature impreviste e diversificate, fino alle panoramiche urbane che richiamano un po' il Sorrentino della Grande Bellezza, ed extraurbane a volo d'uccello fino a precipitare in quello radente, rappresenta un notevole salto di qualità rispetto alla sua opera prima. Perché il caleidoscopio, qui ha colori e immagini molto più intensi che bucano quasi lo schermo.
E' il protagonista Enea, eroe di una tragica peregrinazione interiore, che parte come quello virgiliano da una casa famigliare “in fiamme”, la quale brucia per depressione e disperazione, e tenta un disperato approdo in un sogno romantico, evocato da una donna di cui si innamora, ma che è bruscamente interrotto dallo stesso destino che si è scelto, a rendere la storia, anche questa volta arricchita da altre al suo interno, fortemente unitaria.
I personaggi di Castellitto sono tutti “iperpersonaggi” anche nella loro umanità, e sono per questo “iperborei” in quanto tentano di innalzarsi al di sopra della aurora boreale di ciascuna delle loro illusioni con cui hanno cercato di abbellire e narcotizzare la loro esistenza. Lo stesso Enea è un narcotrafficante, uno che narcotizza i sogni, e nel finale fa questo tragico tentativo di andare oltre se stesso con suo onirismo romantico, spinto anche dal suo boss che, prima del tragico finale della sua vita, ripercorre i sogni della sua infanzia e suggerisce al protagonista una “disperata” uscita di scena che possa salvarlo in un happy end.,
Quello non arriva, perché a “giocare a scacchi con Dio” si perde sempre, da Dio si può infatti solo “imparare a giocare”, anche se è un po' difficile quando “Dio è morto”
Il surrealismo quindi di Castellitto emerge dalla stessa configurazione dei suoi personaggi e dalle sequenze che li caratterizzano, diremmo che nel finale del film con i due che si levano in volo, indifferenti a ciò che accade tragicamente alle loro spalle, ci sta tutta l'apoteosi di questo surrealismo come in un richiamo ad un quadro di Chagall.
La metafisica è in ciò che aleggia in tutte le sequenze del film, nel disperato confronto tra Valentino ed Enea, in un amore impossibile che sfocia in un bacio “in nero” perché l'autore nietzschianamente non vuole e rifiuta una metafisica trascendentale, fatta di utopie, che esalta le essenze e la sostanza ideale dei personaggi. E ne preferisce una immanente, che riguarda la loro disperata e lacerata materia umana e sociale, in una dimensione in cui la “potenza” del vivere si oppone, come osserviamo anche in uno dei dialoghi del film, al “potere” di vivere, perché la “potenza” va sempre oltre la vita di ciascuno, mentre il “potere” si avvita sempre su se stesso in una spirale di violenza, di disperazione e di paure.
In tutto ciò sembra riecheggi l'insegnamento dello stesso Nietzsche che ammonisce: “guardiamoci allo stesso tempo dall'essere più ricchi ed avari, più ricchi perché abbiamo compreso più in fondo il nostro essere prima di tutto in fondo materia, quindi il nostro vivere, l'essere legati alla terra e al mondo, ma non dobbiamo diventare “poveri” in questa visione materialistica, perché comunque il nostro pensiero, cioè il nostro spirito, ha una importanza fondamentale”
Platone diceva che l'amore è sempre figlio di “penìa e pòros” di povertà e ricchezza, per questo il film di Castellitto, nonostante appaia come un gangster movie senza vero gangster, in fondo è un film d'amore, in cui la povertà e la miseria di ciascun personaggio, indipendentemente dalla sua condizione economica e sociale, si sposano alla perfezione con la tragica ricchezza dell'anelito di ciascuno a superare se stesso, per diventare iperpersonaggio.
Piccolo paradosso nella realizzazione in cui il cast degli attori anche esordienti ha interagito alla perfezione forse guidato da un giovane “sciamano” più che da un regista quasi esordiente: il protagonista dice che l'alternativa nella vita è tra l'individuo e il clan, ebbene nel film prevale l'individuo, ma nella sua realizzazione trionfa il clan Castellitto, a confermare ancora una volta niezschianamente “la compenetrazione degli opposti”.
Carlo Felici
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