di Carlo Felici
In Occasione del Natale e del 126° compleanno dell'Avanti, voglio dedicargli queste mie meditazioni cristiane sui voti laici, alla portata di tutti
Il Socialismo non è altro che un Cristianesimo senza Chiesa nè gerarchia, nasce dai principi cristiani e, nonostante alcune deviazioni un po' settarie o mondane durante la sua lunga storia, non sarebbe sopravvissuto senza questa spinta originaria.
Oggi è un po' in crisi, specialmente in Europa, soprattutto perché al suo interno non è stata fatta una profonda riflessione morale e non si è dato abbastanza spazio ai principi evangelici.
E' quindi auspicabile non solo una fruttuosa sinergia tra cattolici e socialisti, ma una prassi sempre più coerente con quei valori originari che sono la comune base della cultura cristiana ed europea
I Voti cristiani sono alla portata di tutti, e non si tratta di quelli elettorali molto effimeri e transeunti, bensì di solidi principi su cui orientare la vita non solo di coloro che sono consacrati come sacerdoti, suore, monaci...ma di ogni buon laico che possa e voglia testimoniare la sua fede, capendo bene cosa significa, specialmente oggi, castità, povertà e obbedienza
Osserviamoli dunque singolarmente, uno per uno.
LA CASTITA'
Quando si parla di castità, nel percorso cristiano, in genere ci si riferisce ad una condizione precisa di astinenza sessuale, riservata a chi sceglie una vita consacrata ma, a ben guardare, questo è più un luogo comune che una precisa prescrizione.
Innanzitutto il sacerdote non fa voto di castità ma di celibato, ci ricorda infatti lo stesso Giovanni Paolo II nella Enciclica “Sacerdotalis caelibatus” che “la verginità non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta dalla prassi della Chiesa primitiva e dalla tradizione delle Chiese orientali, ma lo stesso sacro Concilio non ha dubitato confermare solennemente l'antica, sacra, provvidenziale vigente legge del celibato sacerdotale, esponendo anche i motivi che la giustificano per quanti sanno apprezzare in spirito di fede e con intimo e generoso fervore i doni divini.”
Questo ovviamente comporta anche una opportuna castità che però non coincide necessariamente con l'astinenza.
Celibato e astinenza infatti sono due cose sostanzialmente diverse che possono coincidere, ma non necessariamente devono coincidere perché la castità non è semplicemente astenersi dal sesso.
Esiste infatti per la Chiesa una “castità matrimoniale”, nel senso che il sesso, come il mangiare e il respirare ed ogni altra funzione naturale, è considerato un dono di Dio che ci accompagna in forma diversa dalla nascita alla morte, e quindi, come tale, non va rifiutato ma solo ben amministrato.
Anche lo stesso apostolo Paolo, in I Timoteo 6:17, afferma che l’opposto del materialismo non va individuato in un ascetismo astratto, ma nella speranza riposta“… in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo”.
Quindi sarà bene ricordare che godere, anche sessualmente, non costituisce peccato ma vuol dire corrispondere ad un volere divino che si manifesta in una necessità naturale.
La Chiesa infatti prescrive esplicitamente che il sesso è lecito all'interno del matrimonio. Ma può bastare? Evidentemente no, se consideriamo quante violenze, anche sessuali, quanto sfruttamento e quanta mancanza di rispetto possono verificarsi all'interno di un matrimonio che non è mai, di per se stesso, garanzia né di castità e nemmeno di integrità morale, anzi spesso serve da “copertura” per immoralità di ogni genere persino contro i figli.
Ovviamente non sempre è così, ma la questione è un'altra, ed è il fatto che solo persone caste possono far diventare un matrimonio casto, non, viceversa, un matrimonio, “per definizione sacramentale” casto, può far diventare le persone caste.
Il celibato sacerdotale, tipico solo della chiesa cattolica o latina è in vigore come norma dal Concilio Lateranense IV del 1215 in cui si afferma che “Gesù è presente nell’Eucaristia per transustanziazione, cioè per cambiamento dell’intera sostanza del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue» Per cui il sacerdote che celebra questo sito sacramentale deve essere casto in quanto si identifica con la figura di Gesù presente nell'Eucarestia.
Ma casto cosa vuol dire? La parola anche etimologicamente ha un significato preciso, evoca infatti il latino carere (da cui carente) che vuol dire essere privo e il greco katharos, che a sua volta vuol dire puro ma anche sgombro, libero.
Quindi effettivamente la parola casto può essere associata all'idea di libertà secondo la quale una persona casta lungi dall'essere un soggetto represso è piuttosto un essere umano più libero.
Ma da cosa? Ecco il punto.
Evidentemente chi è casto non è libero dalla pulsione sessuale che di per sé è una cosa buona e godibile, ma lo è piuttosto dal peccato dell'egotismo che può accompagnarla,
Esso nasce soprattutto da tendenze onanistiche che non giungono a maturazione. Non per niente la Chiesa è arrivata a condannare in passato più la masturbazione che la prostituzione, anche se apparentemente è molto più deprecabile la seconda. La prima, generalmente una pulsione del tutto innocente, in genere nasce in età preadolescenziale e accompagna un po' a fasi alterne tutta la vita umana, soprattutto quando non vi è la possibilità di un incontro e di una relazione stabile e matura. Qual è però il suo rischio e pericolo? E' il fatto che l'essere umano si “abitui”, e "snaturi", spinto dalla sua fantasia, un atto che lo spinge a considerare in un rapporto sessuale l'altro/a come “oggetto” di piacere, come “concretizzazione” cioè di una “fantasia soggettiva” e non, come dovrebbe essere, un “soggetto” da incontrare sessualmente e da “sentire” e “seguire” con una sensibilità integrale comunicativa che ne orienta l'atto “in fieri” volta per volta.
Non poche insoddisfazioni sessuali nascono infatti, specialmente in campo femminile, da una mancanza di sensibilità nel saper percepire delle reazioni che orientano il desiderio sessuale e lo portano a compimento in maniera biunivoca, secondo cioè una reciprocità, e non secondo la rincorsa al piacere a senso unico. Anzi, non di rado, il mancato soddisfacimento di una pulsione sostanzialmente onanistica che “si serve” dell'altra/o per espletarsi, porta anche a stupri e a violenze sessuali
Siamo dunque arrivati a capire il significato autentico e originario della castità. Essa non è altro che l'essere privi di quell'egocentrismo onanistico che tende a fare dell'altro non un soggetto libero da incontrare ma un “oggetto” di piacere da soddisfare.
Da questo ovviamente derivano tutte le devianze sessuali, lo sfruttamento, la violenza, la mercificazione, il ricatto, l'esercizio del potere e via dicendo che sono concretamente ciò che impediscono ad un essere umano di essere libero e casto.
E il matrimonio, lo sappiamo bene, è ben lungi dall'essere una garanzia di “castità”, anzi spesso si rivela miseramente solo una “codificazione” di vite che sono l'esatto contrario della castità, per le violenze subite in quell'ambito, per lo sfruttamento anche casalingo che vi avviene, per il permanere in esso, nonostante tradimenti vari, solo per questioni di patrimonio e di interesse. Anzi, in quest'ultimo caso esso si rivela persino la forma più subdola della prostituzione e non solo femminile..
In definitiva, dunque la castità è la forma migliore della libertà sessuale umana, quella in cui “eticamente” la libertà, come dovrebbe essere per ogni ambito, e non solo sessuale, è indissolubile rispetto alla sensibilità e alla responsabilità che si espleta nella vita condivisa da due persone.
Libertà e responsabilità unite indissolubilmente sono la sostanza non solo del senso più autentico della “castità” ma sono anche il viatico di una esistenza più integra e più soddisfacente in tutti i campi dell'agire umano
Per cui un bambino educato ad essere tanto libero quanto responsabile, inevitabilmente sarà un adulto che vivrà “naturalmente” anche la sua castità sessuale senza imposizioni dogmi né catechesi
Sarà un essere capace di riconoscere e “sentire” l'altro/a nelle sue sfumature, nel piacere e nella sofferenza, propiziandone l'incontro con “cura” ed “affetto”, con disponibilità e tenerezza, non in modo effimero oppure occasionale, ma nel permanere di un cammino esistenziale, umano e famigliare da condividere giorno per giorno.
Sarà dunque “naturalmente casto”, pur avendo tutti i rapporti sessuali che riesce ad avere con chi è prediletto dalla sua “sensibilità e cura”.
Come diceva anche Kant, volere quel che è necessario e naturale, significa essere “santi” magari non da calendario, ma lo stesso capaci di vivere e testimoniare la “santità” ogni giorno
E così nessun imperativo categorico potrà essere tanto piacevole.
LA POVERTA'
Per capire bene come una
persona consacrata a Dio (e tutti i cristiani, in quanto battezzati
dovrebbero esserlo, non solo i sacerdoti, i frati, le suore o i
monaci) dovrebbe orientare la propria vita a quella che Francesco
d'Assisi chiamava “Madonna Povertà”, partiamo da una profonda
differenza tra povertà e miseria. La povertà può coincidere anche
con la miseria, ma non necessariamente e non sempre. Infatti un
povero non è un miserabile quando capisce che la sua povertà è
una condizione impermanente e può anche essere una opportunità per
crescere, non solo in ricchezza ma anche in umanità. Il miserabile
è invece chi, sia povero che ricco di risorse materiali, resta
profondamente avvinto al desiderio o di incrementarle o alla paura
di perderle
Diciamo innanzitutto che la povertà è una
condizione impermanente perché varia a seconda delle condizioni
individuali, sociali e famigliari e per questo ciascun povero deve
essere messo in condizioni di poterle mutare, e non solo fatto
oggetto di una semplice elemosina che sostanzialmente lascia la sua
condizione così come si trova. Anche la saggezza orientale infatti
insegna che se regali a un povero un pesce lo lasci miserabile, se
invece, anche grazie a te, impara a pescare, fai in modo che la sua
povertà non resti miseria non solo materiale, ma anche morale.
Ma
tornando al percorso cristiano, possiamo fare riferimento alla
parabola dei talenti che tutti possono leggere in Matteo 25
14-30
Matteo ricordiamo che è un esperto di questioni
economiche, un esattore, oggi non a caso patrono persino dei
banchieri.
Ebbene in questa parabola, l'Evangelista ci narra di
Gesù che racconta di un padrone che deve partire per lungo tempo e
che affida varie parti del suo patrimonio ad alcuni uomini di
fiducia. A uno dà 5 talenti, ad un altro 2 e al terzo 1. Dopo molto
tempo (e il “molto” non è casuale) si ripresenta a loro per
regolare i conti. Il primo e il secondo hanno raddoppiato il
ricevuto, facendo crescere il patrimonio, il terzo per paura del
giudizio del padrone, ha solo sepolto la sua moneta e la restituisce
unica e sola a lui. A quel punto, il padrone premia i primi due e,
rivolgendosi al terzo, dice testualmente: “28 Toglietegli dunque
il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a chiunque
ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà
tolto anche quello che ha. 30 E il servo inutile gettatelo fuori
nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”
Ora
evidentemente la parabola non è un elogio delle banche, degli
investimenti e delle attività speculative, ma un avvertimento ben
preciso, come anche altri esempi che sembrano apparentemente contraddire questa
parabola, come quando Gesù si rivolge al giovane ricco a cui egli
dice: "Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi,
dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"
In
entrambe i casi in questione è la ricchezza materiale, che però è
metafora di quella spirituale, in entrambe i casi in questione però
non è il suo possesso ma il suo effetto, la sua potenzialità.
Nel
primo caso la possibilità che cresca, nel secondo che diminuisca.
In entrambe la sua impermanenza, il non restare uguale a come è.
Gesù infatti, come Buddha, insegna in maniera “circostanziata”,
esponendo cioè sempre gli stessi principi ma in forma diversa a
seconda del suo interlocutore.
E qui in questione non c'è la
ricchezza materiale dell'essere umano, quanto piuttosto la sua
integrità spirituale e morale.
Nel primo caso si tratta di un
servo che pur avendo ricevuto una Grazia, non sa metterla a frutto e
si badi, “per paura”, e quando dopo molto tempo (che sta a
significare non alla fine dei tempi o dopo che tutti se ne erano
dimenticati, ma quando meno te lo aspetti) arriva il padrone a
chiedergli cosa ne ha fatto di quel dono, egli resta paralizzato dal
suo terrore e ne subisce la pena. Evidentemente questo è un monito
per quelli che antepongono il timore di Dio e delle sue regole alla
capacità di avere fede nella sua presenza ed operare affinché i
doni celesti possano fruttificare.
Attenzione, ciò vale per i
doni spirituali ma anche per quelli materiali, possedere e investire
denaro per produrre altra ricchezza che produca lecito benessere non
è quindi un peccato, ma operare perché la Grazia dia i suoi frutti
in abbondanza.
E il secondo caso? Ebbene, questo è il caso del
“ricco miserabile” cioè di colui che non sa cogliere
l'opportunità che la sua stessa ricchezza gli offre per fare cose
buone, come migliorare le condizioni dei poveri, e quindi resta
preda della sua tristezza e del suo attaccamento che gli impediscono
di seguire Gesù, il quale se non lo avesse riconosciuto come
profondamente attaccato ai suoi beni materiali, probabilmente non lo
avrebbe nemmeno messo alla prova dicendogli di liberarsene.
Questa
è la dimostrazione che un povero (il servo che per paura
seppellisce l'unico talento ricevuto) può essere un miserabile, e
che può esserlo anche un ricco (perché resta attaccato al suo denaro
più di quanto possa seguire Gesù)
Come dice giustamente Frà
Marco Moroni, riferendosi a Francesco e a Madonna povertà: “Bisogna
distinguere tra povertà come miseria e povertà come liberazione
dal possesso dei beni, un senso di assoluta libertà. Un elogio
della miseria sarebbe assurdo perché i beni della terra sono
importanti, ma spesso non siamo noi a possederli, bensì loro ci
possiedono. San Paolo parlava del ‘vivere come se non’ e
l’accezione francescana è quella di vivere senza aggrapparsi ai
beni. Francesco per primo ha rinunciato a tutto fino a non possedere
più nulla e nella pratica francescana si porta avanti la
possibilità avere dei beni a livello di comunità, condivisi, con
un sano distacco da essi. Francesco non si limita a servire solo i
poveri, lui vive con i poveri. Nella Basilica di Assisi c’è la
vela giottesca dell’allegoria della Povertà che rappresenta il
‘matrimonio’ di Francesco con ‘Madonna Povertà’. Ai piedi
della Povertà c’è un roveto mentre dalle sue spalle cresce un
roseto: la povertà scelta per amore di Cristo è un segno di
libertà che fa fiorire la vita. Una povertà che non riguarda solo
i beni materiali: Francesco parlava spesso di restituzione in quanto
tutto ci è venuto da Dio e tutto ciò che facciamo è per sua
grazia”.
La vera santa povertà non è dunque miseria o
pauperismo ma semplicemente, come abbiamo già rilevato per la
castità, una forma di libertà indissolubile rispetto alla
responsabilità che non è altro che saper dare una adeguata
risposta (responsum) alle sollecitazioni del contesto in cui
viviamo, alle varie circostanze e persone che incontriamo nella
vita.
E' la libertà dall'attaccamento ai beni materiali ma anche
dal bisogno, perché è al contempo necessità di condividerli
affinché tornino a vantaggio non di pochi ma del prossimo, nel
senso sia famigliare che sociale del termine, non è una forma
ideologica di comunismo coatto, perché come abbiamo visto nelle
parabole, il padrone non dice cosa devono fare i suoi servi del suo
denaro né Gesù costringe il giovane ricco a diventare povero per
seguirlo. Alla base della libertà e di ogni forma di giustizia
sociale e individuale c'è sempre infatti la responsabilità, la
capacità di ciascuno di dare la sua risposta senza che altri lo
costringa a farlo, in piena autonomia
Un altro esempio della
storia è quello dei Cavalieri Templari, Ordine cavalleresco ma
anche di Frati, il cui patrimonio era ricchissimo, ma perennemente
investito per produrre altra ricchezza di cui si beneficiò
notevolmente non solo la Terra Santa ma anche l'Europa dell'XII e
XIII secolo, eppure ciascuno dei frati che solo in Terra Santa erano
armati e combattenti, non per conquistare territori ma per difendere i cristiani, non possedeva nulla di più di quanto l'Ordine
stesso gli affidava e lasciava ai suoi Fratelli anche quello, quando
moriva.
Evidentemente noi non possiamo né dobbiamo tornare al
Medioevo, però se vogliamo davvero essere fedeli a questa
Tradizione originaria, possiamo anche noi fare voto di povertà,
senza doverci per forza liberare di tutti i nostri beni. Ma
liberandoci innanzitutto e subito dell'attaccamento ad essi,
dell'avversione per chi li minaccia, non per dilapidarli, ma per
averne cura a vantaggio non solo della nostra famiglia, ma anche del
prossimo che ne ha più bisogno per sollevarsi dal peso di una
povertà che rischia di diventare miseria, aiutandolo non solo con
una donazione, ma anche con la nostra cura, con il nostro impegno e la nostra presenza
oblativa, affinché ritrovi la fiducia in se stesso e sappia
aiutarsi anche meglio di come possiamo aiutarlo noi.
La povertà
dunque come libertà dal bisogno e dall'attaccamento e come
responsabilità nella condivisione e nel miglioramento della
condizione individuale e sociale dell'umanità
L'OBBEDIENZA
Concludiamo con il terzo
voto del cristiano, come ho già detto non solo consacrato, quindi
non solo prete, frate, suora o monaco, ma che sia autenticamente in
grado e cosciente di voler vivere cristianamente
Il “volere”
è infatti consustanziale al “dovere” e qui spiegheremo
perché.
L'essere umano nasce come un animale, obbedendo cioè
solo ai suoi istinti, si viene al mondo dunque "animali", creature
viventi come altre, e si “diventa” esseri umani, con
l'accoglienza in una comunità umana di cui la prima forma è la
famiglia, con l'educazione che riceviamo in essa e a scuola, e
soprattutto mediante le relazioni che sappiamo instaurare nella
comunità umana.
Se infatti Dio ci dà le vita mediante i nostri
genitori, il nostro Io non è determinato da altro che dalle nostre
relazioni con ogni essere vivente con cui per tutta la nostra vita
siamo necessariamente interdipendenti. Nessuno infatti, vivendo, può
fare a meno di altri esseri viventi, per nutrirsi, crescere,
imparare, lavorare, vivere e persino morire, dato che anche un
cadavere ha bisogno di qualcuno che lo seppellisca.
La qualità
delle nostre relazioni, durante la vita è quindi lo specchio della
qualità del nostro stesso vivere.
Detto ciò l'individuo, il
bambino tende a nascere e a crescere mettendo al centro se stesso e
obbedendo solo al suo egocentrismo più o meno esaltato o moderato
dalla sua famiglia.
Obbedire al padre e alla madre, poi ai suoi
insegnanti al datore di lavoro, mano a mano che cresce ed
acquisisce autonomia, è quindi più un sacrificio che una
soddisfazione, lo diventa solo quando il sacrificio propizia una
soddisfazione più grande. Si abitua così al do ut des, al dare in
funzione di uno scopo..il regalo di mamma e papà, la promozione a
scuola, quella sul posto di lavoro per fare carriera, così come in
una qualsiasi associazione, l'agognata pensione..e alla fine un bel
posto al cimitero dove essere ricordato.
E' del tutto evidente
che questa non è una vera obbedienza ma solo una “ginnastica di
obbedienza” che trae senso dall'utilitarismo.
L'Obbedienza
cristiana però è un'altra cosa, è riconoscere che Dio esiste come
autorità suprema e universale, sebbene non abbia alcun potere che
possa essere paragonato a quello umano.
Possiamo chiamare il
potere umano “signoria” “padronato” persino “presidenza”
perché presuppone uno che sta sopra gli altri, talvolta sopra
tutti, così abituati ci rivolgiamo anche a Dio chiamandolo Signore.
Ma Dio non è Signore, e cioè “padrone” delle nostre vite,
Dio è Amore, quindi “è” nelle nostre vite e noi non siamo
altro che il Suo tempio. Lo dice anche S. Paolo (1Cor 3,16-23)
“Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di
Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà
lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
Nessuno si
illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si
faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo
mondo è stoltezza davanti a Dio.”
Quindi più che obbedire al
“Signore Dio nostro”, bisogna riconoscere la presenza di Dio in
noi, e lasciare che possa orientare la nostra vita
Evidentemente
questa è la cosa più difficile, più della povertà e della
castità che abbiamo precedentemente illustrato, perché obbedire a
una “non obbedienza” che non è altro che una “riconoscenza”
nel senso duplice del riconoscere ed essere grati, può apparire
assurdo e paradossale e può persino disorientarci
Come facciamo
infatti a trovare Dio in noi, se siamo pieni di affanni incertezze,
impellenze materiali, ansie, paure, rabbia, rancore e quant'altro
acceso dalle nostre passioni?
Come facciamo se persino la
Sapienza, quella filosofia che ha cercato di mettere argine al
thauma, all'arcano terrore del vivere che si concretizza con la
paura della malattia, della morte e del decadimento fisico nella
vecchiaia, ci appare insufficiente e spasmodicamente curiamo in ogni
dettaglio la nostra apparenza fisica, mediatica, e persino
“sapienziale”, con cure estetiche, foto e selfie di ogni genere,
e persino scrivendo libri che speriamo ci possano eternare?
Eppure
“ la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio”.
Non
ci resta dunque che una “sana follia divina”. Lo diceva Platone
prima di S. Paolo: “Ci sono due forme di follia: una che nasce da
malattia umana, un'altra che deriva da un divino mutamento delle
abitudini consuete”. Così scriveva Platone nel Fedro,
distinguendo anche le varie forme di questa follia, “dono divino”,
“da cui giungono all'uomo i più grandi doni” un dono divino che
nel suo caso proviene da Apollo per quanto riguarda la divinazione e
da Dioniso per l'iniziazione mistica, dalle Muse per l'ispirazione
artistica e da Afrodite per l'Amore
Ma per il cristiano tutti i
doni provengono da Dio, che è Amore nella Sua suprema potenza
gloria, beatitudine e bontà.
In poche parole il Cristiano
“obbedisce” a Dio, quando lascia che Dio viva in lui, persino
“follemente” come dimostrò Francesco d'Assisi, ma cosa è che
distingue la follia divina da quella patologica? Che la prima genera
gioia in noi stessi e nel nostro prossimo, mentre l'altra, al
contrario, genera sofferenza talvolta persino autodistruttiva
Tutti
i grandi profeti erano “folli di Dio”, da Abramo che intraprese
un viaggio senza conoscere bene la meta, a Mosè che portò il suo
popolo in una terra solo “promessa” che lui riuscì a mala pena
a vedere, fino a Gesù che predicava in contrasto con la Chiesa del
suo tempo in nome di una Comunità di condivisione fondata
sull'unica regola dell'Amore verso Dio e di quello verso il
Prossimo
Possiamo essere come loro ed obbedire soprattutto a
questa “mania divina” che anima le nostre vite? Direi che è un
po' difficile anche se arriva sempre nella storia qualcuno che se ne
frega di tutto il resto e almeno ci prova...e magari come Francesco
ci riesce pure, anche se poi arrivano altri a spiegare che ci vuole
una regola che amarsi e amare Dio non basta anzi, è rischiosissimo,
che quindi bisogna obbedire ad uno Statuto ad una Tradizione ad una
Regola...a loro che ne sono gli interpreti indiscutibili
Ma
quanti hanno perso Dio e lo stanno ancora perdendo obbedendo a
regole religiose militarizzate, per cui Dio lo vuole!? Anche se
straziano la carne e distruggono i beni e i sacrifici del loro prossimo!
La bestia umana, peggiore degli animali, crede,
obbedisce e combatte! Ma perde Dio!
Allora va bene ascoltare i
maestri, i sapienti, i sacerdoti, meditare le Sacre scritture,
obbedire ai loro principi, ma solo se vive in noi quella sacra
scintilla della follia divina che ci porta soprattutto a riconoscere
Dio, più che a credere in Dio e a chi pretende di parlare in Suo
nome
Sembra una cosa impossibile obbedire a Dio e per una persona
abituata o assuefatta a una “ginnastica di obbedienza” e in
effetti è quasi impossibile
Eppure è la cosa più facile del
mondo, basta fermarsi, sedersi magari a gambe incrociate o su una
sedia se non ci si riesce, e respirare. Noi infatti “respiriamo
Dio”, perché lo stesso spirito che, non a caso in ebraico si dice
Ruah, si manifesta nell'aria, nel vento perché "Il vento soffia
dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va:
così è dallo Spirito" (Giovanni 3,8)
La differenza
fondamentale tra il percorso cristiano e quello gnostico, iniziatico
e sapienziale, è proprio che noi non dobbiamo perfezionarci, in un
cammino paragonabile alla scalata di una montagna, attraverso le sue
balze e i suoi gradi e pagando un prezzo ad ogni gradino che
saliamo. Noi non dobbiamo arrivare a Dio in un percorso estenuante
di sacrifici e mortificazioni ascetiche.
Noi semplicemente
dobbiamo lasciare entrare Dio in noi, nel cammino eucaristico, ma
anche respirandoLo in ogni attimo, momento e giorno della nostra
vita
Respirare Dio, sgombrando la mente nella preghiera e nella
meditazione da ogni pensiero che ci distrae e ruota solo intorno a
noi stessi, e lasciarla vuota, in un processo che gli antichi
chiamavano kénosis che vuol dire proprio “svuotamento”, vuol
dire propiziare la Sua presenza in noi, vuol dire fare ciò che fece
Gesù Nella sua Lettera ai Filippesi infatti S. Paolo scrisse: «
Cristo svuotò se stesso (ἐκένωσε, ekénōse)» (Flp 2, 7),
facendo uso del verbo κενόω, kenóō, che, appunto, significa
"svuotare" “ E per fare che cosa? Ce lo dice lo stesso
S. Paolo con il seguito: “avendo preso natura di servo, diventando
simile agli uomini e apparso in forma umana, si umiliò facendosi
obbediente sino alla morte”
Eccolo il senso autentico
dell'obbedienza cristiana, svuotarsi dei concetti, delle
sovrastrutture persino delle dottrine umane, lasciare che Dio viva
in noi per diventare suoi servi e vivere in obbedienza alla sua
presenza.
E la presenza di Dio è sempre quella che ci rende
gioiosi, amorevoli, sorridenti, e aperti alla prossimìa, alla
presenza del prossimo, ci fa cantare, suonare, scrivere, danzare, e
ci libera innanzitutto dalla depressione e dalla tristezza
Obbedire
a chi ci rende triste, inconsapevole della presenza altrui, e ci
dice quel che si deve fare perché pretende di parlare in nome di
Dio e magari pretende pure di assolverci in nome di Dio, e non ci
consola, non condivide nulla di noi, anzi, ci rimprovera, se non
addirittura ci mortifica, forse nemmeno ci sta veramente ad
ascoltare, vuol dire solo allontanare Dio da noi
Giustamente Don
Milani diceva che “l'obbedienza non è più una virtù”
specialmente quando obbedire significa mandare a morire poveri
innocenti in nome dell'idolatria di una Patria o di un Dio degli
Eserciti cancellato da Gesù con il suo Amore crocefisso e risorto.
Abbiamo detto all'inizio che “volere” è consustanziale al
“dovere” ed è così quando “obbedendo” all'Amore lo si
vivifica, e il suo giogo è lieve, lo dice lo stesso Gesù Mt
11,28-30 “In quel tempo, Gesù disse: «Venite a me, voi tutti che
siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio
giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore,
e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è
dolce e il mio peso leggero». “
La vera obbedienza cristiana è
dunque gioiosa e lieve, è l'Amore, incondizionato, svuotato da ogni
finalismo e personalismo, equanime, puro perché libero e
responsabile come negli altri due voti che abbiamo osservato, anche
nelle condizioni più disperate e senza limiti, fino in fondo, fino
alla fine e dall'inizio della vita. Non bisogna lasciarsi distrarre
da altro, perché la distrazione è la madre di tutti i
peccati
Amor, etiam spes contra spem et usque ad finem
Carlo Felici
Nessun commento:
Posta un commento