di Riccardo Achilli
La questione dell'autodeterminazione dei popoli è sempre spinosa, quando viene affrontata da sinistra, e rischia soltanto, a chi, come me, si accinge a parlarne, di generare soltanto disapprovazione e pesci in faccia.
Detto questo, però, non è nemmeno possibile sottrarsi a tematiche che sono di attualità, e che riguardano tutti noi. Come il fuoco indipendentista che brucia in Catalogna. Pare che il 55% circa dei catalani siano favorevoli alla piena indipendenza dalla Spagna. Questa febbre non ha una targa politica precisa, essendo la tigre nazionalista cavalcata sia da partiti moderati, come quello dell'attuale presidente Mas, sia dall'ERC, partito indipendentista di stampo socialista democratico, sia da ampi settori del PSC, il partito socialista catalano "cugino" del PSOE.
Ovviamente un principio di base del socialismo è quello del diritto all'autodeterminazione. Da questo punto di vista, voler semplicemente negare, come fa il governo Rajoy, il diritto a celebrare il referendum nel 2014 per cavilli legali, appare, oltre che inaccettabile, anche stupido. La legge ha forza fintanto che gli uomini le riconoscono autorità. Nessuna legge o sentenza della Corte Costituzionale spagnola può frenare un popolo, alla lunga.
Tuttavia, un altro principio di base del socialismo è la solidarietà fra i popoli, che qualche volta stride con l'autodeterminazione, quando questa si converte in nazionalismo gretto. Pertanto, i diritti di autodeterminazione vanno esaminati caso per caso. Non ci si può nascondere dietro al dito: una parte importante delle rivendicazioni indipendentistiche catalane, anche se ovviamente non l'unica, è di tipo economico. La Catalogna ha un PIL pari al 19% di quello spagnolo e genera il 28% del suo export totale, a fronte di una popolazione pari al 16% del totale. E' quindi una regione che dà alla Spagna, in termini di gettito fiscale, molto più di quanto riceva, in termini di spesa pubblica e trasferimenti, e la differenza fra queste due voci, secondo una stima del Sole 24 Ore, è di circa 10 punti di PIL. E' quindi evidente che una componente importante dell'indipendentismo risieda nella volontà, in parte comprensibile ed in parte egoistica, di difendere privilegi e benessere, in una regione molto benestante, il cui PIL pro capite è pari al 117% della media spagnola. La parte egoistica, però, stride con il principio di solidarietà, tanto più in una fase di crisi economica così acuta, quando 42 milioni di spagnoli non residenti in Catalogna hanno bisogno delle locomotive della propria economia, come la Catalogna, per uscirne fuori.
Tra l'altro, la Catalogna dispone già di una enorme autonomia: gestisce in proprio persino alcuni aspetti della giurisdizione civile, come il diritto successorio, ha una propria polizia che sostituisce completamente quella nazionale, ha ampie competenze in materia economica, sociale, di ordinamento scolastico, nel settore delle opere pubbliche, ecc. Il bilinguismo è garantito addirittura in forma leggermente discriminatoria per lo spagnolo, nella misura in cui lo Statuto catalano stabilisce che la lingua preferenziale nei rapporti fra P.A. e cittadini sia il catalano.
Il problema vero risiede però nei rapporti fiscali: in larga misura, oggi, il sistema fiscale spagnolo prevede che i grandi tributi siano gestiti a livello nazionale, e il relativo gettito sia ripartito fra Stato e Comunità Autonome. Queste ultime possono creare tributi propri esclusivamente su presupposti d'imposta non colpiti da imposte nazionali, e poi godono della gestione di alcuni tributi nazionali "ceduti" (come quello sul patrimonio, la tassa di successione, l'imposta sui giochi d'azzardo). Ma il grosso degli introiti del bilancio catalano deriva dalla compartecipazione ai tributi statali (fissata con legge nazionale) e dai trasferimenti statali, sostanzialmente finalizzati a coprire "buchi di bilancio" a livello locale.
Mancando una autentica e piena autonomia fiscale, ciò alimenta il famoso "albero storto" del federalismo di cui soffre anche il tentativo federalista fatto in Italia: tale sistema crea un corto circuito, nella mente dei cittadini, per cui i "buoni" sono i governanti della Generalidad di Barcellona, che spendono il denaro ricevuto da Madrid senza alcuna responsabilità specifica sui saldi finali (atteso che si crea l'aspettativa che eventuali buchi di bilancio vengano sempre e comunque coperti da Madrid, spaventata dal rischio perenne di secessione) ed i "cattivi" sono i governanti di Madrid, che regolamentano e prelevano la maggior parte delle imposte. Con il risultato finale che la Catalogna è oberata da 44 miliardi di debito pubblico, con rating portato al livello "spazzatura", e bond incollocabili sul mercato, per cui la Generalidad deve chiedere costantemente aiuto al governo "amico" di Madrid (Mas e Rajoy stanno dalla stessa parte) per non finire a dover fare politiche di austerità sgradite ai propri cittadini. Quattrini che nonostante tutto, la Spagna sottoposta al fiscal compact riesce sempre a trovare (ad agosto 2012 è stata versata una rata di aiuti pari a 5 miliardi, per sbloccare gli stipendi dei funzionari pubblici dell'amministrazione regionale). Naturalmente, in nome dell'autonomia, la Generalidad pretende che tali aiuti siano incondizionati. E questo forse è anche giusto. Però poi la solidarietà deve essere bidirezionale: non puoi chiedere di essere aiutato ed al contempo progettare la secessione per scaricare il resto del Paese al suo destino. L'egoismo fiscale dei catalani sembra non avere fine: con la riforma fiscale del 2009, essi hanno ottenuto, oltre ad un forte aumento della percentuale di compartecipazione all'imposta sui redditi ed all'IVA, anche la possibilità di non dover più restituire allo Stato la parte di imposte eccedente il finanziamento dei livelli essenziali di servizi pubblici, se essa viene devoluta a finanziare le altre competenze della regione.
Il problema adesso ruota attorno alla solidarietà interregionale, cioè al fondo di perequazione fra comunità autonome che assicura la "nivelaciòn", ovvero l'obbligo di distribuire il 75% del gettito fiscale in modo che tutte le comunità abbiano lo stesso livello di finanziamento pro capite dei servizi essenziali (educazione, salute, assistenza sociale). In effetti, Madrid e la Catalogna finanziano l'80% della solidarietà interregionale. E questo dato rappresenta il vero "busilis" del problema: i catalani non vogliono più finanziare la solidarietà alle altre regioni meno ricche del Paese, nonostante il fatto che la riforma fiscale del 2009 consenta di lasciar loro in tasca i soldi per finanziare servizi di livello superiore alla media nazionale. Echeggia lo stesso richiamo del leghismo più becero: i soldi devono restare ai territori che li producono. Fanculo i terroni, si arrangino.
Il principio attraverso il quale si esprime il nazionalismo fiscale di Mas, purtroppo seguito anche dal PSC, è quello dell'"ordinalità", un principio secondo il quale la posizione di una regione nel ranking della contribuzione fiscale pro capite debba essere uguale a quella del ranking basato sulla spesa pubblica pro capite. Ora, essendo la Catalogna una regione ricca, tale principio non può valere, per ovvi motivi di perequazione territoriale: si dà il caso che, al 2010, essa sia la terza regione spagnola per gettito fiscale pro capite devoluto allo Stato e soltanto la decima per risorse finanziarie ricevute dallo Stato per abitante. Non c'è niente di strano, è tipico di ogni Stato federale; negli USA, 21 dei 25 Stati maggiormente "contributori" cadono ben al di sotto del 25-mo posto nel ranking degli Stati "ricevitori". Ci si lamenta che per ogni euro raccolto dal fisco in Catalogna tornino soltanto 57 centesimi come spesa pubblica statale. Ma questa situazione è capitata anche allo Stato del Nevada nel 2003 e 2004, senza che i suoi cittadini urlassero alla secessione dagli USA! (cfr. http://www.vozbcn.com/2012/07/27/122476/principio-ordinalidad-fiscal-eeuu/).
In sostanza: si dispone già di un'autonomia immensa in termini politico/amministrativi; si ottiene una maggiore compartecipazione fiscale, nonché la possibilità di trattenere una quota di risorse per pagarsi le altre competenze autonome e distintive ottenute, si vivacchia in una condizione di sostanziale irresponsabilità fiscale, per cui i cattivi che fanno le tasse stanno a Madrid ed i buoni che spendono stanno a Barcellona, salvo che poi i cattivi vengano in soccorso, con generosi trasferimenti pubblici incondizionati, per coprire i buchi di bilancio della malagestione dei buoni. E malgrado tutto ciò, quando c'è da dare qualcosa alla solidarietà interregionale, allora è meglio l'indipendenza. Mi spiace, ma qui non c'è alcun diritto di autodeterminazione nazionale. Qui c'è solo becero egoismo fiscale.
In questi termini, la posizione politicamente più corretta è quella del PSOE, che non accetta l'indipendenza, però si propone di passare dall'autonomismo ad un reale federalismo. Il principio è corretto, e sono buone le proposte del PSOE, duramente negoziate con i cugini del PSC, di creazione di una Camera delle Regioni in luogo dell'attuale Senato, di maggiore autonomia in ambito giurisdizionale, di riconoscimento costituzionale della nazione catalana, ecc.
La proposta del PSOE, per tenere l'accordo con il PSC, propone anche un buon compromesso sul principio di ordinalidad, sopra descritto, per cui la proposta del PSOE accetta il principio, peraltro stabilito da una sentenza della Corte Costituzionale, secondo cui "la contribuzione interterritoriale non deve collocare chi contribuisce in posizione relativa peggiore rispetto a chi è beneficiato". Una formulazione che quindi consente che ci sia solidarietà interregionale, e che quindi le diverse regioni possano non trovarsi nella stessa posizione nei due ranking di chi contribuisce e di chi riceve, implicando però un ragionevole limite a tale solidarietà, nel senso che non vada fino a spogliare le regioni ricche, impoverendole. Il richiamo alla sentenza costituzionale che è esplicitato nel documento, infatti, vale a mantenere un margine di flessibilità nel ranking finale, atteso che tale sentenza, del 2010, statuisce che il sistema di solidarietà non deve pregiudicare le regioni più ricche "al di là di ciò che è da considerarsi ragionevole", e deve consentire "l'approssimazione progressiva" fra regioni ricche e povere, consentendo quindi che vi sia una certa solidarietà, con regioni ricche che scendono moderatamente nel ranking dei contributi pro capite, e le regioni povere che salgono, sempre moderatamente. Inoltre, il documento del PSOE propone un vincolo costituzionale all'erogazione omogenea e paritaria su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali dei servizi pubblici fondamentali (scuola, salute, servizi sociali, previdenza) che di fatto va a rappresentare il "nucleo duro", intoccabile, della solidarietà interregionale, quello su cui nessuno ha il diritto di discutere e, se è ricco, deve soltanto pagare per garantirlo anche ai più poveri.
Detto ragionevole compromesso può incontrare la ragionevole accettazione dei catalani: lo scambio è fra più soldi che restano al territorio catalano, e l'accettazione di un livello minimo di solidarietà con il resto del Paese, oltre che l'accantonamento definitivo di ogni ipotesi indipendentista. Speriamo che la ragionevolezza prevalga.
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