di Diego Fusaro
Probabilmente l’estate 2013 verrà ricordata anche per il triste “affaire Kyenge”. Alludo, con questa formula, alla penosa vicenda che ha coinvolto in prima persona il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Si tratta di una questione che, nel suo complesso, reputo patetica per più motivi. Il primo dei quali, naturalmente, resta la vergognosa “furia del dileguare” propria di alcuni noti politici leghisti, che si sono accaniti in modo oltremodo volgare sul ministro dell’Integrazione, simbolo e presagio – a loro dire – della “futura Italia meticcia”. Il vecchio e pomposo slogan leghista (“Padania libera!”) trova, paradossalmente, la propria verità se riferito a taluni politici leghisti, liberandosi dei quali la cosiddetta Padania trarrebbe indubbiamente un immenso giovamento.
Ma al di là dell’osceno episodio di razzismo, che è stato giustamente condannato pressoché a trecenetossessanta gradi (con rare eccezioni, dovute soprattutto al fatto che gli imbecilli, purtroppo, non potranno mai estinguersi del tutto), è un altro il punto su cui vorrei soffermare l’attenzione. Si tratta di un punto che, nel dibattito generale, è passato del tutto inosservato, e certo non a caso. È il solo aspetto che, per uno sguardo marxianamente educato, deve essere preso seriamente in esame.
Lo formulerò in maniera telegrafica (anche a costo di semplificare più del dovuto), in modo da giungere direttamente, senza troppe perifrasi, al cuore della questione. L’insistenza maniacale con cui l’industria mediatica ci ha intrattenuti sull’“affaire Kyenge” è tutto fuorché innocente. Di più: corrisponde a una delle molteplici manifestazioni di una volgare strategia ormai in auge da tempo nel capitalistico regno animale dello spirito. Tale strategia, nella sua essenza, consiste nello spostamento ininterrotto dell’attenzione dell’opinione pubblica su questioni secondarie, di modo che la contraddizione principale resti permanentemente occulta.
Tramite un simile spostamento d’attenzione, la questione sociale, in tutte le sue determinazioni (debito pubblico, erosione sempre più oscena dei diritti sociali, eurocrazia imperante, connazionali che stentano a raggiungere la fine del mese, ecc.), è puntualmente resa invisibile: in suo luogo, sono poste al centro dell’attenzione mediatica tutta una serie di questioni secondarie, il cui unico fine – e sottolineo unico – corrisponde all’occultamento della contraddizione principale, i rapporti di forza capitalistici, con il classismo, l’asservimento, lo sfruttamento e la miseria generalizzata che essi continuano senza tregua a produrre.
Il cuore della questione sta, allora, in questo: l’“affaire Kyenge” non è legato alla legittima e, di più, necessaria opposizione al razzismo in ogni sua declinazione, bensì alla distrazione programmata rispetto alla contraddizione capitalistica. Tale distrazione è artatamente governata dalla manipolazione organizzata, dal circo mediatico e dal clero giornalistico (che parla di tutto e non crede a nulla). Il capitalismo, nella sua forma attuale, non ha più bisogno di legittimarsi tramite il razzismo (ben altrimenti al tempo del colonialismo, naturalmente!), che può anzi condannare con l’obiettivo di mostrarsi proditoriamente emancipativo e, insieme, di destare l’illusione che l’emancipazione si esaurisca nella lotta contro il razzismo (che pure del movimento di emancipazione è un momento indispensabile), di modo che non possa mai sorgere il sospetto che la vera emancipazione comporti di necessità il superamento dei nessi di forza capitalistici (classismo, bombardamenti etici in nome dei diritti umani, schiavitù del debito e del salario, ecc.).
Per questa via, sorge la falsa convinzione – gravida di ideologia – secondo cui la lotta contro il razzismo sarebbe il compimento dell’emancipazione, il non plus ultra dell’opera della critica. In questo modo – è questo il punto decisivo – la lotta contro il capitale e le sue storture viene completamente obliata e, con essa, si perde di vista il fatto fondamentale: la critica del razzismo, di per sé, non basta; può, anzi, fungere da alibi per non affilare le armi della critica indirizzata contro il capitale. È, del resto, un fatto risaputo. La manipolazione organizzata trova nella strategia della “distrazione programmata” una feconda risorsa simbolica. Dirottando l’attenzione su contraddizioni estinte o su questioni irrilevanti, spesso create ad hoc, la passione della critica è ininterrottamente distolta dalla contraddizione principale, nemmeno più nominata. La di per sé nobile e fondamentale critica del razzismo viene, per questa via, impiegata per destare l’illusione che, nel nostro presente, la contraddizione principale sia appunto il razzismo e non il classimo, il debito e le altre nefandezze prodotte dal prosaico sistema della disorganizzazione organizzata del capitale.
In questo modo, la possibile opposizione anticapitalistica è preventivamente frammentata. In luogo del conflitto contro il nesso di forza capitalistico, subentrano una miriade di “micro-lotte” che, di per sé nobili (vuoi in difesa dell’acqua pubblica, vuoi per la respirabilità dell’aria, vuoi per l’eco-compatibilità con il territorio, vuoi per il riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e sociali, ecc.), mancano di un loro comune orizzonte di senso – vuoi anche di una koiné filosofico-politica – che faccia riferimento all’unitarietà del genere umano e, di conseguenza, a un suo programma di emancipazione implicante la lotta incondizionata contro il fanatismo dell’economia che non smette di perpetrare la violenza istituzionalizzata dell’economia e della finanza.
D’altro canto, il dilemma che oggi si pone per chi non voglia rinunciare alla critica e allinearsi con il coro di quanti – per dirla con Hegel – “ululano con i lupi” riguarda la possibilità di una valorizzazione dei momenti emancipativi del nostro tempo (l’attenzione per le differenze, per la pluralità e per la molteplicità di stili di vita) che sappia però sottrarli allo sguardo medusizzante del capitale e all’immediata riconversione in merce che esso opera.
L’antirazzismo deve, allora, essere incorporato in una più generale critica radicale del fanatismo dell’economia, anziché lasciarsi riassorbire – come oggi accade (e l’“affaire Kyenge” ne è una manifestazione chiara come il sole) – nel movimento di santificazione dei nessi di forza capitalistici.
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