di Diego Fusaro
Il primo gesto filosofico consiste sempre
nell’esercizio del dubbio, vuoi anche nella cartesiana forma “iperbolica”,
rispetto ai luoghi comuni e alle verità inerzialmente ammesse dai più. Il
cosiddetto laicismo può, a giusto titolo, costituire un fecondo luogo di
esercizio del dubbio filosofico. Il laiscimo – vera e propria religione del
nostro tempo – si presenta urbi et orbi come ideologia neutra e
avalutativa, che assume come scopo primario la liberazione dell’uomo dalle
visioni assolutistiche, quando non fondamentalistiche, e dunque anzitutto da
quelle religiose.
È questa, salvo errore, la cifra del
laicismo da Paolo Flores D’Arcais a Eugenio Scalfari, da Michel Onfray a
Piergiorgio Odifreddi, giusto per citare i principali esponenti di questo
neoilluminismo che si autocelebra come il fronte più avanzato
dell’emancipazione. Per essere il più sintetico e il più chiaro possibile, il
laicismo è assai peggio del mare che aspirerebbe a curare. E perché? Per il
fatto che, contestando tutti gli Assoluti che non siano quello immanente della
produzione capitalistica, il laicismo integralista si pone come il completamento
ideologico ideale del dilagante fanatismo economico, in cui
l’Economist diventa l’Osservatore Romano della globalizzazione
capitalistica e le leggi imperscrutabili del Dio monoteistico divengono le
inflessibili leggi del mercato mondiale. In questo, il laicismo rivela la sua
natura di fondamentalismo illuministico svuotato della sua nobile funzione
emancipativa (à la Voltaire, per intenderci) e ridotto a semplice
funzione espressiva del capitale e delle sue lotte contro ogni divinità non
coincidente con il mercato.
Per gli odierni corifei del laicismo,
instancabili lavoratori presso la corte del re di Prussia, la sottomissione alla
superstizione religiosa dev’essere destrutturata in modo che domini
incontrastata la sola superstizione economica. L’obbedienza servile deve essere
riservata unicamente all’economia, alle “sfide della globalizzazione”,
all’insindacabile giudizio del mercato, al vincolo del debito e alla dittatura
delle agenzie di rating. L’essenza intimamente teologica del nuovo
ordine della produzione – il nomos dell’economia – affiora
eminentemente dalla sua pretesa assolutistica di esaurire il senso delle cose,
ponendosi come fondamento incondizionato del reale e del simbolico, coartando
gli uomini a praticare un culto ignaro e alienato al cospetto della propria
forza associata e, al tempo stesso, disgiuntasi da loro e tale da non venir più
riconosciuta nella sua reale configurazione di prodotto storico della prassi
oggettivata. Forse che l’Assoluto del nostro tempo non è il monoteismo del
mercato? Forse che la teologia del nostro tempo non è l’economia, ossia la
teologia della disuguaglianza sociale? Per i laicisti no, il problema è sempre e
solo il Dio trascendente, è sempre e solo il fanatismo della
religione tradizionale. È il capitale stesso che deve delegittimare ogni
religione che non sia il monoteismo del mercato: qui emerge chiaramente il ruolo
di instancabili lavoratori presso la corte del re di Prussia dei fanatici del
laicismo.
Il vero dilemma del nostro tempo non sta
nell’ennesima riproposizione di un illuminismo che contesti le divinità
trascendenti: è questo, per inciso, l’ostinato orizzonte illuministico di una
sterminata galassia di testi recenti – come ilTraité d’athéologie, del
2005, di Michel Onfray –, che già ai tempi di Feuerbach sarebbero stati
considerati “superati”. Al contrario, ciò di cui più si avverte il bisogno,
oggi, è un nuovo illuminismo che contesti incondizionatamente l’Assoluto
capitalistico e l’esistenza di presunte leggi economiche oggettive della
produzione, sottoponendo a critica l’onnipervasivo monoteismo del mercato senza
per questo cadere nell’elogio nostalgico dei comunismi novecenteschi. Mi si
permetta di concludere sostenendo senza remore che, supporto ideale per
l’universalizzazione della forma merce, il laicismo si configura oggi come
l’involucro ideologico per la globalizzazione, per il liberalismo e per la
santificazione del monoteismo del mercato. Per questo, se mi si definisce laico,
respingo garbatamente la definizione.
beh, si può essere laici senza essere "laicisti", credo che la questione sia sempre quella posta da Kant: uscire dallo stato di "minorità", rispetto a qualsiasi forma di assolutismo.
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