La premessa necessaria di questo scritto che vuole analizzare le cause vere dell'implosione dell'Unione Sovietica, e che è un po' l'epilogo di un altro articolo su Stalin, è che chi scrive non è comunista, ma non perché il comunismo, nella sua accezione ideologica e nell'esempio straordinario di emancipazione popolare, sia da rigettare, ma semplicemente perché oggi non esistono condizioni storiche, sociali ed economiche tali da poterlo, almeno nell'immediato, riproporre. Anche se gli ideali e i valori socialisti sono tuttora vivi e vegeti. Tuttavia è da rigettarsi in maniera netta e sdegnata l'equiparazione del comunismo con il nazifascismo, operata persino in sede UE, e con la complicità di quasi tutte le forze politiche italiane, una equiparazione che lo stesso Thomas Mann respinse nettamente.
Scopo di questo scritto è dimostrare, come quello precedente era sottrarre la figura di Stalin a improprie strumentalizzazioni, demonizzazioni o agiografie, che il comunismo, nella sua versione più popolare ed espansiva marxista-leninista, ha cominciato a suicidarsi con Krusciov, principale accusatore di Stalin, e nella sua lenta eutanasia ha continuato a farlo per altri quasi 40 anni, snaturandosi completamente e perdendo per questo di credibilità e popolarità.
Abbiamo già mostrato che il rapporto di Krusciov su Stalin è completamente falso, sulla base delle ricerche di un autorevole storico americano come Furr e soprattutto in seguito alla analisi dei documenti desecretati dopo la fine dell'URSS. Vediamo ora con quali conseguenze.
Il XX congresso dell'URSS ha rappresentato una vera e propria rottura con i principi del marxismo-leninismo perché ha completamente rimosso l'esercizio diretto del potere da parte della classe proletaria (Stalin ammetteva anche non iscritti al partito nella gestione di importanti strutture dello Stato), in nome di “uno Stato di tutto il popolo” che però si riduceva ad essere gestito soltanto dai fedelissimi della casta al potere. In tale Congresso si rinnegò il ruolo di “avanguardia cosciente” e di guida del partito comunista, in nome di un non ben definito “partito di tutto il popolo” formalmente comunista ma sostanzialmente deideologizzato e rispondente alle direttive dei suoi capi. Si decretava inoltre in buona sostanza, la fine dell'esperienza rivoluzionaria in nome di una prassi gradualista e riformista che anziché ridurre la presenza dello Stato, la rese molto più pesante e burocratica, e diremmo anche selettiva negli intenti della classe dirigente al potere.
Economicamente e politicamente venne avviato un sostanziale ritorno al capitalismo, con riforme che esaltavano il criterio del profitto come scopo principale della produzione e parametro di valutazione di ogni azienda. La prima conseguenza di ciò fu la perdita di ogni potere in ogni luogo di produzione tanto dell'assemblea dei lavoratori, che degli organismi di controllo operaio e un radicale mutamento dell'organizzazione del lavoro. La seconda fu la nascita di una nuova borghesia, favorita anche dall'incremento degli incentivi materiali, che costituì poi l'ossatura della nomenclatura di potere. Venne distrutto il sistema di pianificazione generale, demandando alle singole regioni la possibilità di pianificare la loro crescita, acquisendo ulteriore autonomia (emblematico il caso dell'Ucraina), e con ciò generando forti squilibri tra le Repubbliche Sovietiche che saranno la base della futura disgregazione.
La liberalizzazione, la fine del collettivismo nelle campagne, gli investimenti in zone improduttive, lo sfruttamento indiscriminato dei beni naturali generarono disastri idrogeologici, un calo della produzione generale e l'esigenza di nuove importazioni agricole persino dagli USA, come fu palese nel 1963, anno di grande carestia. Ci fu una riforma del sistema dell'istruzione che nella sostanza favorì le classi dirigenti più agiate le quali, grazie a specifici atti legislativi, ottennero sempre maggiori privilegi, nei settori più nevralgici dello Stato come quello politico, militare, della ricerca, ministeriale e nei Servizi segreti. Per loro pensione più alta, costo degli affitti ridotto alla metà, uso gratuito dei mezzi pubblici, villeggiatura e cure termali gratis e via dicendo.
I lavoratori, d'altra parte, videro una contrazione dei salari e problemi crescenti sul piano occupazionale e per l'approvvigionamento di beni alimentari. Ogni forma di protesta, che nonostante tutto ci fu, venne tacitata e brutalmente repressa, anche mobilitando l'esercito.
In seguito, con Breznev, solo apparentemente fu mostrato soprattutto all'estero di voler resistere all'imperialismo e riprendere la dottrina staliniana, ma solo come fumo negli occhi dell'opinione pubblica, nella sua cruda sostanza più propriamente la “dottrina Breznev” si dimostrò come una forma più subdola di colonialismo e socialimperialismo. In buona sostanza, come ebbe a rilevare anche Che Guevara in un suo famoso discorso ad Algeri, l'URSS acquistava e vendeva merci ai paesi come Cuba nella sua orbita, non con scambi paritari, ma a prezzi di mercato. E anche il Vietnam fu aiutato nel suo sforzo bellico solo in funzione di contenimento geostrategico, ma poi abbandonato al suo disastroso destino economico e sociale
La cosiddetta "dottrina Breznev'' fu quindi l'attuazione di una politica socialimperialista di aggressione ed espansione. Essa aveva come capisaldi le teorie "della sovranità limitata''; "della dittatura internazionale''; "della comunità socialista''; "della divisione internazionale del lavoro''; "degli interessi coinvolti''. Breznev, come abbiamo detto, acquistava e vendeva ai paesi satelliti merce a prezzi di mercato, rifilando loro macchinari obsoleti Questo, lo confermò anche il Che ad Algeri e gli costò l'esilio, è colonialismo non internazionalismo proletario
In base alla dottrina marxista-leninista sui rapporti tra gli Stati socialisti e secondo i principi dell'internazionalismo proletario è necessaria uguaglianza e completa parità nelle relazioni tra Stati, che è fondata sull'appoggio e l'assistenza reciproci. Sul non ingerirsi negli affari interni dei paesi “fratelli” rispettando al contempo sia la loro integrità territoriale, che la loro sovranità e indipendenza nazionale. In buona sostanza sul mutuo aiuto sia tra gli Stati socialisti, che fra questi e i paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina, per promuovere lo sviluppo armonico e progressivo di ciascuno, a partire dalle condizioni specifiche ambientali e sociali di ognuno, senza imporre un' unica dottrina economia a tutti, esportata dall'URSS, come accadeva nei paesi satelliti dove le classi dirigenti ricevevano un apposito manuale, sempre lo stesso da applicare in ogni contesto, quasi fosse un “catechismo economico” da imporre a tutti. Questa dottrina evidentemente mirava più alla spartizione del modo in aree di influenza egemonica che all'emancipazione dei popoli dall'imperialismo.
La conseguenza fu che lo scontento e la scollatura dalle classi popolari fu sempre più netta, generando sempre più aperto dissenso, e così la gloriosa Armata Rossa che aveva restituito speranza e libertà ai popoli oppressi dal nazifascismo, fu trasformata in uno strumento di aggressione, di repressione e di oppressione. Emblematici gli interventi prima in Ungheria, poi in Cecoslovacchia e infine in Afghanistan che hanno generato una sempre maggiore disaffezione del popolo verso la nomenclatura al potere, un inadeguato sviluppo industriale e tecnologico, una sempre più forte dipendenza dell'URSS dal mercato estero per l'approvvigionamento alimentare e infine una degenerazione dei rapporti sociali e morali che ha spinto l'URSS verso l'abisso della disgregazione. Verso le mafie, verso il saccheggio delle immense materie prime da parte di oligarchi senza scrupoli, verso la perdita della stessa identità sovietica come “modello umano” e archetipo di una nuova umanità laboriosa, solidale e unita nella sua missione emancipatrice, in nome dell'individualismo e di un nazionalismo sempre più sciovinista che ripiega verso memorie sovietiche solo in funzione strumentale e per dare un contentino al popolo. Una depravazione che accomuna la Russia e i paesi in cui il capitalismo senza regole sta distruggendo occupazione, beni comuni, e Stato Sociale oltre che la stessa identità morale e civile dei cittadini che ripiegano verso forme confusionarie di populismo e di demagogia sovranista
In conclusione, possiamo quindi affermare che, dopo la morte di Stalin una lunga scia degenerativa accomuna i suoi successori e dà sempre più forza e fiato gli antagonisti dell'Unione Sovietica, decomponendone al contempo l'identità, la forza e la sua compattezza, fino alla ingloriosa fine. E nonostante il tentativo di ribaltare la storia messo in atto dalle vulgate dei media pilotati dal capitalismo imperialista occidentale secondo cui Stalin era il cattivo e gli altri hanno almeno cercato di rimediare l'irrimediabile. Mentre gli altri: Krusciov, Breznev, Andropov, Cernienko e Gorbaciov e aggiungiamo a questi ultimi Eltsin e l'attuale caudillo, autocrate, sciovinista e neozarista Putin che solo a parole dice di rimpiangere l'URSS e si affida oggi tuttavia al patriottismo di oligarchi che accumulano enormi ricchezze sfruttando risorse che appartengono al popolo russo e che da sempre le hanno investite a proprio vantaggio all'estero, non sono stati che i suoi becchini. Ora più che mai, con l'aggressione armata, e non con la semplice difesa di popoli che una volta erano fratelli, e che avrebbero dovuto essere dotati prima ancora che di armi o di classi dirigenti corrotte, di una autentica coscienza socialista internazionalista e proletaria.
Perché è la coscienza che vince tutte le guerre e protegge da quelle altrui, in quanto ha come sua luce suprema solo il bene comune, la giustizia, la libertà e la pace.
Carlo Felici
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