di Giorgio Giannelli
Il 19 settembre è il 73° anniversario della liberazione di Forte dei
Marmi. 73 anni fa. Liberazione dai tedesci e dalle cannonate americane.
Forse l'unico posto d'Italia. Due fatti storici in un solo giorno. Gli
ameicani li avevo visti la mattina prima. Si seppe da una donna che
veniva dal Fiumetto. Uscii dalla buca dove ero stato nascosto con il mio
cugino Fabio e corsi lungo la Versliana, a bosco allora fitto. A metà
percorso incontrai una pattuglia tedesca con un ferito sdraiato su una
carriola da muratore.
Per fortuna camminavano guardandosi alle spalle
dalla paura degli americani o dei partigiani. Feci un salto in un grosso
cespuglio. Non mi videro. Li vidi io mentre si allontanavno. Avevano
altro da pensare. Sanguinante per le spine che mi avevano salvato la
vita, raggiunsi l'uscita della Versiliana sul viale Apua completamente
invaso da camion di soldati neri che procedevano a passo d'uomo.
Oscuri, occhi che uscivano da sotto l'elmetto, fucile in mano,
preoccupati e silenziosi. Al di là del cancello gli ufficiali bianchi
avevano occupato la villa Liana, lo stesso così intitolata ancor oggi.
In gran parte erano seduti sul terrazzino, le gambe appoggiate sulla
ringhiera. Sembravano attori del cinema, divisa pulita, pantaloni
stirati, stivaletti atletici ai piedi. Distribuivno cewing gum e sigarette
a tutti, soprattutto ai ragazzini. Mi avvicinai e chiesi una sigaretta
anch'io.
Tornai al Forte per testimoniare a quelli del C.L.N che la
notizia era vera. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo in Comune e
così fu. C'erano Tullio Tonni il vecchio, Roberto Schouten, Corrado
Buselli e Angelo Ugazzi. Si doveva fare una buona accoglienza agli
Alleati. Il custode del palazzo, Ottorino Spadaccini, trovò un
bandierone americano, delle bottiglie di spumante e i bicchieri.
L'attesa fu lunga e vana. Ero il più giovane, m'impazientii senza sapere
dove andare e, quando fui a pochi metri dall'orologio, sentii
dall'altra parte di via Carduccci, sull'angolo della farmacia Di Ciolo,
un grido: "O Giò c'eno i tedeschi". Era il postino Vincenzo Vanalesta.
Mi fermai e, certo di non essere visto, detti un'occhiata a sinistra.
C'erano proprio i tedeschi, dietro una barriera di sacchetti di rena
dai quali spuntava una mitragliatrice pesante. Qualche minuto per
riflettere. Avevo tre o quattro bombe a mano. Potevo attraversare di
corsa la strada, entrare nel portone della società di mutuo soccorso,
salire all'ultimo piano e, di tetto in tetto, sganciare sui nazisti le
mie bombe.Avrei fatto una strage e forse sarei diventato un eroe. Ci
pensai, ma se il colpo avesse fallito, che fine avrebbero fatto quelli
che aspettavano i liberatori in Comune? Era meglio tornare indietro e
avvertire gli amici che fuggirono per le scale, attraversarono piazza
Marconi, sparendo sul viale Morin, mentre Ottorino nascondeva nella
cassetta del W.C. la bandiera americana. Me la presi con calma e tornai a
villa Liana. La situazione era immutata solo che il viale Apua, questa
volta, era pieno di carri armati americani, con il cannone puntato verso
Forte de Marmi.
A villa Liana la situazione era immutata, solo che nel frattempo era
arrivata una ventina di carri armati USA che puntarono i loro cannoni
verso Forte dei Marmi. Mi misi le mani nei capelli. Per fortuna pochi
minuti dopo giunsero anche i partigiani, a piedi da Viareggio. Dal
gruppo, sortì Mario Ugazzi che mi abbracciò. Piangevamo dalla
commozione. Feci vedere a Piero come si erano posizionati i carri
armati. Disse: "Puntano verso il nostro paese e questi sono mattti.
Bisogna impedirlo". Vasco Galli aveva con sé un interprete che ci
accompagnò dal comandante americano. "Sappiamo che al vostro paese c'è
una pattuglia tedesca con tanto di mitragliatrice pensante. Non vogliamo
che nessuno di noi rischi la pelle. Se volete, pensateci voi. Vi dò tre
ore di tempo".
Piero pensò che andava bene così. Dette l'ordine di
chiamata e si partì di corsa, al passo dei bersaglieri. A me dettero una
carabina che sparava un colpo alla volta. Guardai questi ragazzi,
sembravano l'armata Brancaleone, capelli e barbe lunghe, vestiti di
stracci, qualcuno aveva le scarpe aperte sulle dita dei piedi. Ricordo i
nomi, quasi tutti marinai, pescatori, bagnini, studenti del paese: Fabio
Frullani, Mario Ugazzi, Guglielmo Raffelli, Corrado Buselli, Mino Boni,
Ultimino e Fidardo Tonini, Galliano Raffaelli, Lorenzo Stagi, Agostino
Maggi, Cesarino Castagnini, Gianfranco Mattei, Loris Famigli, un ex
carabiniere, due ex militari meridionali e due disertori dalle S.S.
tedesche. Sono l'unico ancora vivo.
Nel correre, il bosco rimbombava il
frastuono delle nostre pentole e dei ferri che avevano a tracolla. Si
arrivò a villa Manetti, oggi villa Moratti, e trovammo il cancello
d'uscita chiuso a chiave. Piero puntò la rivoltella nella pancia della
guardiana, la signra Sacchelli, che andò a prendere quello che serviva.
Si prese via Leonardo da Vinci, via Morin, via Mazzini e ci si fermò
riparati dal ponte abbattuto di via Piave dove le donne un tempo
lavavano i panni. A un certo punto, un imprevisto scenario felliniano.
La
mamma e la sorella di Piero accompagnate da alcune amiche, ci vennero
incontro con un vassoio pieno di bomboloni che sparirono in un attimo:
Gugliè Raffaelli se ne cacciò tre o quattro in bocca. A me ne toccò uno.
Dopo di che ci dividemmo in tre gruppi, uno verso via Morin, uno via
Carducci, l'altro via Montauti. Qui ci dovevano essere i tedeschi,
proprio davanti al celebre caffè Principe. Ci arrivammo sui ginocchi.
Nel fortlizio non c'era nessuno. Trovammo ancora delle cicche tedesche
accese. Se n'erano andati tre minui prima. Ormai erano a Marco Polo. Se
fossimo arrivati in tempo, in un attimo ci avrebbero massacrati tutti.
Quando furono a due o tre chilometri di distanza ci spararono una decina
di colpi di mortai che non colpirono nessuno. Tentammo l'inseguimento,
ma ormai il nemico era a distanza di sicurezza. Piero e Fabio si
spinsero fino a Vittoria Apuana per avere notizie dei genitori Frullani,
proprietari del'Alpemare. Cominciò a piovere, un'acqua fitta e continua
ci inzuppò. Nessuno aveva l'impermeabile. Io avevo un maglione di lana
che orami faceva scivolare la pioggia sulla pelle.
Tornammo indietro, ci
riparammo nella pensione Pescini in via Battisti e Piero ordinò a me di
tornare al Fiumetto, non solo per avvertire che l'operazione era
riuscita, ma per farsi dare del cibo. Proprio io? gli replicai. Si
proprio te che sei il più fresco, intanto ci si va a lavare e a
riposare. Ma mi mandi solo? continuai. Prenditi quei ragazzi lì - uno si
chiamava Simonelli - e in bocca al lupo. Partii con la mia carabina a un
colpo solo con due ragazzi che avranno avuto quindici anni. Si
rivelarono bravissi e coraggiosi. Raggiunsi il Fiumetto dove
l'interprete di Vasco riferì che i tedeschi al Forte non c'erano più. La
posizione dei carri armati cambiò. Il Forte era salvo. Chiesi da
mangiare. In pochi minuti mi portarono un centinaio di scatolette di
ogni tipo. Per trasportarle mi dettero un carretto da gelataio.
Sistemato il carico si tornò verso la pensione Pescini. Strada
interrata, in tre a spingere il ridicolo mezzo nel bosco versiliano.
Precisazione
Ho diviso in due il racconto perchè due furono gli episodi che ebbbero per protagonisti i partigiani. Nello stesso giorno evitarono un cannoneggiamento americano già cinicamente deciso che avrebbe raso al suolo il nostro paese. Poi l'incosciente compito affidatoci dagli americani dell'impossibile elimazione dell'ultima pattuglia tedesca. Un merito glorioso su cui nessuno ha mai fatto attenzione. Gli americani ci mandarono allo sbaraglio, sicuri della nostra sicura morte. Eravamo armati male. Quando chiesi a villa Liana un' arma più efficiente della carabina a un colpo solo, mi fecero la risata in faccia. Bastava un carro armato USA che passasse dalla via Carducci per ridurre in pezzi l'ultima resistenza dei krucchi prima della Linea gotiìca, da loro stabilita al Cinquale. Avemmo fortuna. I tedeschi erano informati che eravano in molti più di loro, ma non sapevano che eravamo l'armata Brancaleone. Se ne andarono sopravvalutando il pericolo. Fu la nostra vittoria. I nostri nomi non sono scritti in nessuna lapide, "vittime della barbarie nazista".
Quel carretto da gelataio pieno di scatolette americane non raggiunse mai la pensione Pescini, dove in via Battisti mi aspettevano i partigiani. Usciti dalla Versiliana, io e i mei attendenti-ragazzi, infilammo via S. Ellme e via della Barbiera. Sapevo che i tedeschi avevano minato alcuni ponti sul fosso del Fiumetto, ma credevo che quello di via Battisti fosse rimasto intatto. Invece, quando arrivammo lì, anche quel ponte era stato fatto saltare. Che fare? Uno dei miei ragazzi, il Simonelli (quanto ci terrei a sapere il cognome dell'altro) mi disse che, davanti a casa di sua nonna, lì a due passi, c'era il pattino detto il chiattino di Fede',che si usava per andare a pescare alla mazzazzera. Poco dopo avevo il pattino.
Si trattava di caricarlo del carretto da gelataio che aveva due ruote di fianco e una, girevole, di dietro. Il problema era appunto quello. Piano piano caricammo il ridicolo mezzo di trasporto a bordo. C'erano cinque sei metri da fare nell'acqua. Io stavo attento al carretto, i due ragazzi spingevano il chiattino. Quando fummo quasi alla fine del guado il pattino si girò su se stesso e sparì nel fosso. Disperato, mi sedetti sulla riva del fosso. Avevo perso la mia guerra personale. Riflettei qualche minuto e poi decisidi andare ad avvertire i partigani lì a pochi metri, ma il signor Pescini mi disse che se ne erano appena andati. Faceva quasi buio. E dove li avrei trovati? Non gliel'avevano detto. Altra disperazione infinita. Gli chiesi se aveva una carriola da muratore. Me la dette, tornai sul fosso e cominciammo la pesca delle scatolette.
C'era da tuffarisi nell'acqua sporca e raccoglierle una alla volta. Quei ragazzi fecero la loro parte. Pioveva e ci dovevamo buttare nel fiumiciattolo. Una fatica indescrivibile. Raccattammo una cinquantina di barattoli; poi, esausti, lasciammo il copioso resto dov'era caduto. Si caricarò il pescato sul carretto del Pescini e infilammo via Morin verso il Fiumetto.
Era già notte. Detti la carabina a uno dei ragazzi con l'ordine di sparare al mio segnale e io tiravo il mezzo con le scatolette dentro. Fischiavo in continuazione il segnale dei partigiani che era quello del ritornello "Siamo ricchi e poveri" nella speranza di avere una risposta. Nulla. Decisi di farla finita. Bussai alla porta di una villetta. Mi aprì Narciso Puliti ma, quando mi vide armato e con l'elmetto della Marina militare in testa, richiuse subito. Gridai: Narci', non fare lo scemo, apri, sono il Giannelli.
Riaprì, mi fece entrare, mi preparò un caffè e una brandina, salutai quei ragazzi e mi misi a dormire. La giornata di gloria si concluse così. Una settimana dopo ero a letto con la brochite. Mi curava il prof. Doemico Beggi con delle punture fatte con la pallina dell'uovo. Le farmacie erano ancora chiuse. Ringrazo gli "Amici" fortemarmini che non si sono fatti vivi leggendo i racconti della salvezza del loro paese dalle bombe americane. Oppure si vede che la parola liberazione non interessa, salvo pochi.
© giorgio giannelli
Nessun commento:
Posta un commento