di Giorgio Giannelli
Una volta terminato la terza a Pietrasanta, mi iscrissi alla quarta
ginnasiale a Viareggio, tornando al Carducci, nel palazzaccio di
Viareggio dove avevo già sofferto prima di andare in collegio a Firenze.
Mi seguì il solito Gianfranco Tonini e mi trovai con Tuccio Schouten,
Marco Bicchieri, Silio Bassi, i pietrasantini Roberto Pardini, Luciano
Meccheri, Giuliano Luisi, Remzo Croci e Viliano Vitiil, il camaiorese
Paolo Dinelli, Giancarlo Sbrana, Luca Sampaolesi e Giovanni Oliva. C'era
anche il figlio del segretario del fascio viareggino Francesco della
Santina. La guerra continuava e quando si sentiva il giornale radio
delle 13 dovevi alzarti in piedi e metterti sull'attenti. I ragazzi era
comunque rimasti ragazzi e sul trmvai se ne combinavano di tutti i
colori.
I più terribili erano i fratelli Cirillo, Luigi, e soprattutto
Ruggero, Angelo Ricci e Alberto Giusti
del Fiumetto, specialista in barzellette oscene. I primi tre erano
specializzati nello staccare la motrice dal rimorcho in modo da lasciare
i passeggeri del rimorchio fermi e quelli della motrice che si
allontanavano. Poi quando finalmente il conducente se ne
accorgeva,presentarsi doveva tornare indietro un paio di chilometri. A
tutti quelli che, come il nostro gruppetto, stavano nella seconda parte
del convoglio, veniva ritirata la tessera tranviaria che, per riaverla,
dovevano presentasi i nostri genitori. Giorgio Donati, detto Pancetta,
si dedicava invece alle fialette puzzolenti che spezzava durante il
tragitto, impestano la gente quando lo riteneva opportuno.
Anche durante
il fascismo non è che tutto filasse licio. Sul piano politico, ricordo
la Bruna Tonazzini,. Mentre era in fila per ricevere la sua razione di
pane, disse: "Questo non è pane, questa è una schifezza". Lo riferirono
al fascio e la mandarono a chiamare. Lo so perché venne a comprare un
quaderno a righe nel negozio di mia madre. Le avevano imposto di
riempirlo, dalla prima all'ultima pagina, con la scritta "Il pane è
buono come il Duce". Quell'anno la squadra di calcio del Forte, maglia
nero azzurra, partecipò alla Serie C. Dopo la serie A e la B, c'era la
C, in un unico girone nazionale. La stadio, allora intestato a Virginia
Agnelli, la nuora del vecchio Giovanni fondatore della FIAT, era
primitivo. Non c'erano le tribune, il terreno di gioco era delimitato da
paletti di legno che sorreggevano un filo elicoidale. Se volevi
invadere il campo non avevi altro che scavalcarlo. Il pubblico, anche
allora, era già esagitato.
Poiché il campo di via XX settembre era
parallelo al fosso che finisce al Fiumetto, il migliore complimento che
poteva essere rivolto all'arbitro era: “Arbitro, ti buttiamo nel fosso”.
Nel fosso non c'è finito mai nessuno, serviva solo per lavarsi alla
fine della partita. Non c'erano docce né spogliatoi. Il fascismo pensava
a rivaleggiare a livello olimpiadi e campionati mondiali. La provincia
si doveva arrangiare. La squadra di un paese così piccolo, si trovò a
giocare contro il Pisa, la Carrarese, l'Amatori Bologna, il Prato,
l'Empoli, il Grosseto. Avevamo degli ottimi giocatori, Lorenzo Maggi,
Gervasi e Bascherini portieri, Confido Ricci , Velani e Patalani
terzini, Pucci detto il Patano, Dino Donati e Puccioni mediani E un
forte attacco: Guglielmo Raffaelli o Orazio Maggi, che poi fu ucciso
durante l'avventura fascista in Russia, Sauro Taiti che finì per giocare
nel Bologna in serie A con Biavati e Cappello, Danilo Nardini, Rusich,
Bertacca o Giannaccini. Il girone d'andata ci trovammo in testa alla
classifica. Vinse il campionato la Mater di Roma, allenata da Fulvio
Bernardini, ma quando venne al Forte le prese per 2 a 1, in una partita
indimenticabile. L'eroe della giornata fu il portiere, il seravezzino
Bascherini, che all'ultimo momento parò un calcio di rigore concesso
dall'arbitro Cambi di Livorno. Avevamo tutti le mani dei capelli,
Bascherini gridò “Oddio mamma!” e parò quel pallone. Fu il momento più
esaltante della mia adolescenza. Dei professori di scuola di Viareggio,
meglio non parlarne. Tant'è che, salvo la Giulia Pellegrinetti, non ne
ricordo neppure il nome. Alla fine dell'anno scolastico, come di regola,
venni rimandato in italiano e mio padre, questa volta, prese le
distanze. Mi mandò a Roma in casa dello zio Sandro, alto funzionario,
con il grado di colonnello, dell'allora ministero della guerra. Arrivai
alla stazione Termini che trovai in pieno caos. Cazzottate tra i
facchini che si litigaano per l conquista delle valige e dei bagagli dei
passeggeri. Cazzotti, bestemmie e grida irriferibili. Eppure Mussolini
aveva fatto delle cose importanti. La bonifica delle zone paludose della
Pontinia, la Garbatella, la via dell'Impero, la via della
Conciliazione, la tenuta dell'ordine e della pulizia. Tutto appariva
perfetto. A casa dello zio fui accolto come un figlio, c'era la cugina
Giuliana, ormai signoria, che mi trattava con un po' di distacco, ma con
il cugino Alberto, di tre anni più giovane di me, si raggiunse subito
una grande amicizia. In casa a tavola non si parlava di politica, lo zio
stava a bocca chiusa, ma sapeva tutto. Ogni tanto andava in Grecia in
aereo per conto del sottosegretario alle fabbricazoni di guerra. La
situazione volgeva al peggio. Mi accorsi che Alberto condivideva la mia
ostilità per i fascisti. Il centro di Roma era pieno di turisti-soldati
tedesch, in congedo vacanza dai vari fronti, e così, quando si camminava
per via Nazionale, cercavamo sempre di dare qualche spintone ai
militari di Hitler. A scuola venni iscritto alla quinta ginnasiale
Regina Elena, in via Boccioni, oggi intitolata a Ippolito Nievo.
Professori di mezza taca, salvo Armando Chellini, di matematica. Era
zoppo e arrivava in classe con il bastone e il sigaro toscano in bocca.
Era un uomo severissimo, ma giusto e onesto. Il sabato ci dava un quarto
d'ora di riflessione. “So dove andate oggi pomeriggio – diceva sempre
-. Anche se siete obbligati ad andare all'adunata, ricordatevi di Dante
quando ammoniva di essere uomini e non pecore matte”. L'unico professore
antifascista della mia triste carriera di studente. Mi fecero comprare
la divisa di Avanguardista, con delle ridicole ghette bianche sopra le
scarpe. All'adunata ci andavo quando era proprio necessario. Mentre al
Forte il controllo era molto stretto, a Roma ognuno faceva i fatti
propri e così il sabato andavo quasi sempre a giocare al pallone sulla
riva sinistra del Tevere, vicino al Foro Mussolini. Il 28 ottobre,
anniversario della marcia su Roma andai all'adunata in piazza Ungheria
nella sede del gruppo rionale fascista Foscari-Parioli. Dovevo fare la
guardia al Milite ignoro. Ne scelsero altri ed io rimasi in uno stanzone
chiuso dove si trovavano moltissimi ragazzi Balilla. Era un casino. Si
menavano . Uno di loro sembrava scatenato e si catapultava, a suon di
testate, contro la pancia dei suoi coetanei. A un certo punto colpì pure
me che ero di qualche anno più grande. Reagii appioppandoli un sonoro
calcio del sedere che lo fece volare un paio di metri. Ero in compagnia
di Troiani, un mio compagno di classe. Mi disse: “Ma sei matto, lo sai
chi è quel bambino lì. E' il nipote del Duce, si chiama Fabrizio Ciano.
Ora te ne accorgi”. La cosa mi fece impressione. L'onore era stato
immenso, ma non mi successe niente e tutto finì lì. Tutti i sabati
venivano a casa dello zio Sandro in via Monteverdi, vicino a piazza
Verdi dei signori anziani. Con la scusa del ricevimento, i grandi
ufficiali si facevano accompagnare da mogli e figli, ma loro si
appartavano in un salottino in disparte.
Saranno stati cinque i sei, tra
i quali l'ammiraglio De Courten, il generale Favagrossa, capo
dell'ufficio dello zio, e altri. Parlavano di politica (l'ammiraglio De
Courten fu poi ministro della marina militare dopo il 25 luglio nel
governo Badoglio e quello che organizzò la fuga del re Vittorio Emanuele
III a Pescara. Comandante dell'incrociatore Baionetta, portò i sovrani
d'Italia a Brindisi per mettersi sotto la protezione degli americani).
In casa di mio zio si cospirava contro Mussolini.
Quello che è successo prima e dopo il 10 giugno del 1940 è raccontato
nei miei libri La Versilia in camicia nera, La Versilia era fascista, La
Versilia ha vinto la guerra, Sant'Anna l'infamia continua, La strage
degli innocenti che si possono ancora oggi trovare in tutte le librerie
ed edicole della Versilia del Fiume. Era L'8 dicembre 1942 e
contrariamente a tutti gli altri anni i papa Pacelli non poté andare a
pregare in piazza di Spagna portando fiori alla colonna della
Madonna Immacolata. Pio XII non uscì dal Vaticano e la manifestazione
avvenne in San Pietro. Una folla immensa e incazzata. Capii che stava
succedendo qualcosa. La gente scandiva la parola Vita-Vita con chiara
allusione allo stillicidio della morte di centinaia di migliaia di
esseri umani. Era chiaro che si trattava di una manifestazione pacifista
e antifascista con la complcità del Pontefice che fu costretto a fare
tre volte il giro della Basilica, passando a pochi metri da dove mi
trovavo con i miei cugini. La zia Nora sapeva che sarebbe successo
qualcosa di speciale. Pacelli a un certo punto si stufò di benedire
tutti questi matti venuti dalle borgate romane e si rifugiò in
canonica. La gente si infuriò, usci da San Pietro e sostò sulla piazza,
pur sapendo che non si poteva manifestare all'aperto, ma Checambiò lo
slogan Vita-Vita, in Pace-Pace-Pace in modo ossessionante al punto da
costringere il Papa ad affacciarsi dal famoso loggiato della facciata di
San Piero per dare la benedizione urbi et orbi. Era saltato tutto, i
cordini di sicurezza spezzati, i fascisti assenti. Solo dopo un'ora di
veglia e di preghiera la gente tornò a casa. Che mlo zio a Roma avesse
amicizie importanti lo provò il fatto che una macchina della Scalera
film venne prendere noi ragazzi a casa per accompagnarci allo
stabilimento cinematografico. Abbiamo così visto le prove di “Carmen”
con Adrriano Rimoldi e la francese Wiviane Romance, un gran figone.
Successivamente assistemmo alle riprese di San'Elena piccola isola on
Carla Candiani che faceva finta di suonare il pianoforte e di cantare.
A Roma la guerra non si sentiva, si stava bene e si mangiava. Solo la notte del 12 dicembre suonò l'allarme aereo. Ci svegliammo e ci mettemmo nel corridoio, ma nessuno scese nei rifugi. Quell'anno nel campionato di calcio si fece onore il Livorno che andammo a vedere due volte: Silingardi , Del Bianco, Soldani; Tori, Capaccioli, Traversa; Piana, Stua, Raccis, Zidaric e Degano. Allenatore Fiorentini. Arrivarono secondi a un punto del Torino di Loich e di Mazzola. La Roma e la Lazio avevano i due centravanti più forti del mondo, Amedei e Piola, quest'ultimo il calciatore che, fino a oggi, ha segnato più goal in Italia. Mentre le truppe italiane e tedesche stavano per arrendersi in Tunisia, Mussolini si decise a parlare dal solito balcone di palazzo Venezia. Quel 6 maggio a scuola ci ordinarono di essere tutti i presenti. Molti sene fregarono. Ci andai, mi interessava moltissimo. Non capitava tutti i giorni di vedere una cosa del genere. Mi posi nel centro della piazza, così lo vedevo meglio. Non c'era la solita folla oceanica. Tra me e il mio vicino c'era almeno un metro di distanza. Solo l'Altare della patria era ricolmo di piccole e giovani italiane in divisa. Sembravano un colossale striscione bianco e nero della Juventus. Tra il popolo quasi tutti erano miltari, ma c'erano molti borghesi in cravatta e camicia. Il Duce doveva parlare alle 16 quando sotto il balcone c'era poca gente. Allora da tutte le finestre del palazzo si affacciarono i gerarchi per fare dei cenni per applaudire e scandire il solito Duce-Duce-Duce. Dentro il palazzo devono essere stati preoccupai e il Capo deve aver fatto un gran casino con i suoi collaboratori per non avere organizzato bene la manifestazione. Dopo una quarantina di minuti si decise a parlare in divisa con l'aquilotto sul cappello. Apparve mesto. Cercherò di riassumere alcuni suoi concetti.“Sento vibrare nelle vostre voci l’antica incorruttibile fede e insieme una certezza suprema: la fede nel fascismo, la certezza che i sanguinosi sacrifici di questi tempi duri saranno compensati dalla vittoria, se è vero, come è vero, che Iddio è giusto e l’Italia immortale . Sette anni or sono noi eravamo qui riuniti in questa piazza per celebrare la conclusione trionfale di una campagna durante la quale avevamo sfidato il mondo e aperto nuove vie alla civiltà; la grande impresa non è finita; è semplicemente interrotta. Io so, io sento che milioni e milioni di Italiani soffrono di un indefinibile male, che si chiama il male d’Africa .Per guarire non c’è che un mezzo: tornare. E torneremo . Gli imperativi categorici del momento sono questi: onore a chi combatte, disprezzo per chi s’imbosca e piombo per i traditori di qualunque rango e razza .Questo non è soltanto la mia volontà. Sono sicuro che è la vostra e quella di tutto il popolo italiano”. Farneticazioni La gente non si entusiasmò. Applaudì, dato che era lì per quello e la manifestazione fini ma gli applausi maggiori vennero dagli altoparlanti installati sotto le mura del palazzo.. A casa, lo zio Sandro mi chiese cosa aveva detto Mussolini. Glielo riassunsi e alla fine commentò: “E' finalmente finita”. Infatti poche settimane dopo, chiusero tutte le scuole del Regno. Mi mancò un mese per cercare di di studiare un po' di più. Tornai al Forte con il solito 5 in italiano, con l'aggiunta del latino e mio padre mi tolse il saluto. L'esame di riparazione avvenne nelle scuole di Quiesa. Anche il liceo ginnasio di Viareggio era sfollato. E così venni promosso alla prima liceale.
A Roma la guerra non si sentiva, si stava bene e si mangiava. Solo la notte del 12 dicembre suonò l'allarme aereo. Ci svegliammo e ci mettemmo nel corridoio, ma nessuno scese nei rifugi. Quell'anno nel campionato di calcio si fece onore il Livorno che andammo a vedere due volte: Silingardi , Del Bianco, Soldani; Tori, Capaccioli, Traversa; Piana, Stua, Raccis, Zidaric e Degano. Allenatore Fiorentini. Arrivarono secondi a un punto del Torino di Loich e di Mazzola. La Roma e la Lazio avevano i due centravanti più forti del mondo, Amedei e Piola, quest'ultimo il calciatore che, fino a oggi, ha segnato più goal in Italia. Mentre le truppe italiane e tedesche stavano per arrendersi in Tunisia, Mussolini si decise a parlare dal solito balcone di palazzo Venezia. Quel 6 maggio a scuola ci ordinarono di essere tutti i presenti. Molti sene fregarono. Ci andai, mi interessava moltissimo. Non capitava tutti i giorni di vedere una cosa del genere. Mi posi nel centro della piazza, così lo vedevo meglio. Non c'era la solita folla oceanica. Tra me e il mio vicino c'era almeno un metro di distanza. Solo l'Altare della patria era ricolmo di piccole e giovani italiane in divisa. Sembravano un colossale striscione bianco e nero della Juventus. Tra il popolo quasi tutti erano miltari, ma c'erano molti borghesi in cravatta e camicia. Il Duce doveva parlare alle 16 quando sotto il balcone c'era poca gente. Allora da tutte le finestre del palazzo si affacciarono i gerarchi per fare dei cenni per applaudire e scandire il solito Duce-Duce-Duce. Dentro il palazzo devono essere stati preoccupai e il Capo deve aver fatto un gran casino con i suoi collaboratori per non avere organizzato bene la manifestazione. Dopo una quarantina di minuti si decise a parlare in divisa con l'aquilotto sul cappello. Apparve mesto. Cercherò di riassumere alcuni suoi concetti.“Sento vibrare nelle vostre voci l’antica incorruttibile fede e insieme una certezza suprema: la fede nel fascismo, la certezza che i sanguinosi sacrifici di questi tempi duri saranno compensati dalla vittoria, se è vero, come è vero, che Iddio è giusto e l’Italia immortale . Sette anni or sono noi eravamo qui riuniti in questa piazza per celebrare la conclusione trionfale di una campagna durante la quale avevamo sfidato il mondo e aperto nuove vie alla civiltà; la grande impresa non è finita; è semplicemente interrotta. Io so, io sento che milioni e milioni di Italiani soffrono di un indefinibile male, che si chiama il male d’Africa .Per guarire non c’è che un mezzo: tornare. E torneremo . Gli imperativi categorici del momento sono questi: onore a chi combatte, disprezzo per chi s’imbosca e piombo per i traditori di qualunque rango e razza .Questo non è soltanto la mia volontà. Sono sicuro che è la vostra e quella di tutto il popolo italiano”. Farneticazioni La gente non si entusiasmò. Applaudì, dato che era lì per quello e la manifestazione fini ma gli applausi maggiori vennero dagli altoparlanti installati sotto le mura del palazzo.. A casa, lo zio Sandro mi chiese cosa aveva detto Mussolini. Glielo riassunsi e alla fine commentò: “E' finalmente finita”. Infatti poche settimane dopo, chiusero tutte le scuole del Regno. Mi mancò un mese per cercare di di studiare un po' di più. Tornai al Forte con il solito 5 in italiano, con l'aggiunta del latino e mio padre mi tolse il saluto. L'esame di riparazione avvenne nelle scuole di Quiesa. Anche il liceo ginnasio di Viareggio era sfollato. E così venni promosso alla prima liceale.
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© giorgio giannelli
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