Lo scorso 4 febbraio si è verificato uno dei peggiori disastri
petroliferi nella storia del Venezuela: la rottura di una tubazione nel
Complejo Operacional Jusepín, nello stato del Monagas, ha causato la
fuoriuscita di una quantità di greggio fino ad ora mai vista, che si è
riversata su di una superficie di 140 km, andando a inquinare le acque
del fiume Guarapiche, uno dei principali corsi d’acqua della città di
Maturín. I danni all’affluente sono stati talmente ingenti da
predisporre l’interruzione dell’approvvigionamento idrico delle
abitazioni della capitale dello stato e delle diverse strutture
sanitarie, nonché la chiusura delle scuole in cinque comuni della
regione. Nonostante l’assenza d’informazioni ufficiali, i danni
all’ecosistema sembrano essere gravi e irreparabili, con ovvie
ripercussioni sulla locale produzione di generi alimentari e la
conseguente perdita del raccolto per decine di piccoli e medi
agricoltori.
Nonostante ciò, il prevedibile assedio all’informazione non ha dato il
risultato sperato: il vivace e articolato movimento ambientalista non ha
offerto nessun servizio di controinformazione. Anzi, tutto il
contrario.
Una parte delle iniziative ecologiste che negli anni Novanta avevano
condotto numerose importanti battaglie è stata cooptata dallo Stato
bolivariano. Oggi molti dei vecchi attivisti occupano diversi incarichi
di responsabilità all’interno del governo di Chávez, perfino all’interno
del Ministero dell’Ambiente. La compagnia petrolifera statale PDVSA1
è inoltre sia la principale beneficiaria di risorse pubbliche che la
principale finanziatrice di programmi sociali, noti come misiones.
Questo ha impedito di fatto ogni possibile riflessione sulle conseguenze
sociali e ambientali dello sfruttamento delle risorse minerali.
Molti degli “ecologisti” che negli anni Ottanta e Novanta criticavano
aspramente l’industria petrolifera, la principale fonte d’inquinamento
nel paese, sono sottomessi da dodici anni a un complice silenzio. Non
sono stati pochi tra loro quelli che, in seguito alla ristrutturazione
burocratica del 2003, quando quasi 20.000 lavoratori dell’impresa furono
licenziati in seguito al cosiddetto “sciopero petrolifero” della fine
del 2002, entrarono nella compagnia PDVSA. Qualcuno ha perfino provato a
teorizzare l’esistenza di un “eco-socialismo” basato
sull’approfondimento dell’economia della principale impresa esportatrice
nel paese. D’altronde, anche sull’altro fronte, il panorama non è dei
più incoraggianti. Alcune delle più note organizzazioni ambientaliste
ricevono finanziamenti per progetti di “sviluppo sostenibile” proprio da
parte di alcune multinazionali energetiche.
Se guardiamo i più noti gruppi ambientalisti del paese, possiamo
constatare che all’interno di un centinaio di organizzazioni, nessuna è
interessata all’impatto dell’estrazione di minerali e idrocarburi sul
medio ambiente. Alla paralisi esistente si aggiunga la presenza delle
elezioni nell’agenda dei movimenti di base venezuelani, i quali, mentre è
in corso una delle peggiori tragedie ecologiche degli ultimi anni,
limitano la loro mobilitazione quasi esclusivamente alla campagna
elettorale per sostenere uno dei due schieramenti in campo.
In Venezuela non esiste nessun dibattito su di un progetto del paese
all’indomani del prevedibile esaurimento delle risorse energetiche.
Bolivariani e oppositori portano avanti una dura battaglia per
controllare le entrate petrolifere del paese e su questo si basa la loro
proposta elettorale. Le battaglie contro l’inquinamento energetico
delle diverse comunità indigene, dei contadini e dei pescatori,
procedono in modo isolato e senza che nessuno di loro riesca ad
interloquire con le mobilitazioni cittadine. E come avviene con
l’inquinamento dei gasdotti nella comunità kariña di Tascabaña (nello
stato di Anzoátegui), la PDVSA mette impunemente in scena il peggiore
dei ricatti: chi denuncia la situazione verrà escluso dalle diverse
misiones presenti nelle comunità.
Il petrolio, il gas, il carbone e gli altri minerali venezuelani
alimentano le caldaie della globalizzazione economica capitalista.
L’espansione e la ripresa di imprese a capitale misto ha dato nuovo
vigore alla nazionalizzazione dell’industria, iniziata verso la metà
degli anni Settanta. A causa dell’inquinamento centinaia di famiglie
povere sono colpite da malattie di diverso tipo e da alterazioni
genetiche. La deforestazione e l’inquinamento dei corsi d’acqua
rappresentano una condanna all’estinzione per specie animali e vegetali.
Le comunità indigene vengono allontanate dalle loro terre ancestrali e
perdono la loro cultura originaria per l’impatto dell’industria del
carbone e del petrolio. La cultura prodotta dalle rendite petrolifere ha
reso il Venezuela un paese sempre più dipendente e importatore, sempre
più vittima di deliri statocentrici, con un aumento della corsa agli
armamenti e della militarizzazione.
Ogni progetto del paese dovrebbe essere basato su un nuovo modello di
civilizzazione, con un giusto equilibrio tra uomo, donna e natura,
giustizia sociale e libertà, senza la dipendenza dai combustibili
fossili per lo sviluppo. Per questo devono esistere movimenti sociali
autonomi e agguerriti, specialmente quelli ecologisti e quelli in difesa
del medio ambiente, come vero presupposto per un possibile cambiamento.
Tratto da Ellibertario,
periodico on-line venezuelano
(traduzione di Arianna Fiore)
1 Nel dicembre del 2002 molti
lavoratori della compagnia petrolifera PDVSA iniziarono uno sciopero per
indurre il presidente venezuelano Hugo Chávez a rassegnare le
dimissioni e a indire nuove elezioni. La produzione di petrolio si
interruppe per oltre due mesi, provocando una ingente perdita economica e
danni alle complesse strutture di raffinazione ed estrazione
petrolifera. In seguito il governo licenziò 19.000 impiegati e ristabilì
parzialmente la produzione con quadri e tecnici provenienti
dall’esercito e da altri rami del governo venezuelano.
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