L’attentato
dello scorso 18 luglio, in cui sono rimasti uccisi il ministro siriano
della Difesa, Dawoud Rajiha, e il suo vice Assef Shawkat (cognato del
Presidente Bashar al-Assad), avvenuto con tecnica da kamikaze
all’interno delle mura del quartier generale della sicurezza a Damasco,
dove era in corso un vertice tra il governo e i capi dell'intelligence siriana,
segna finora il punto più alto dell’assalto al governo della nazione
araba: fonti di queste ore da Damasco ci fanno sapere che all’attentato
bombarolo contro i vertici della sicurezza nazionale ha fatto seguito
un’irruenta azione messa in atto su larga scala da bande paramilitari
composte da mercenari provenienti prevalentemente dalla Libia e fatti
dirottare in Siria per portare a termine quello che, nella testa dei
cospiratori contro il regime di Damasco, dovrebbe costituire l’assalto
finale[1].
Appare fin troppo evidente la coincidenza tra l’escalation
dello scontro in atto a Damasco con le parole di aperta minaccia
rivolte ad Assad, solo pochi giorni prima dell’attentato, da una
impaziente e acidissima Hillary Clinton, che aveva chiesto al legittimo
Presidente siriano di togliere quanto prima il disturbo onde risparmiare
al suo Paese “un attacco catastrofico”.
Il
progetto volto a destabilizzare la Siria di Assad è in corso di
svolgimento ormai da circa 1 anno e mezzo e si è apparentemente inserito
in quel vasto processo politico regionale che, nel gergo
mediatico-giornalistico di casa nostra, ha preso il nome di “rivoluzioni arabe”.
Mentre
il progettato cambio di potere in Tunisia ed Egitto è stato (quasi)
repentino e, tutto sommato, di facile realizzazione, per destabilizzare
la Giamairiha libica di Gheddafi è stato necessario ricorrere
ad intensi bombardamenti NATO mentre la Siria di Assad è sembrata fino
ad oggi essere ancora in grado di reggere lo scontro con i suoi nemici,
soprattutto a causa di due fattori: il diffuso sostegno di una parte
significativa del popolo siriano (che ovviamente non è facile
determinare quantitativamente ma che molti osservatori seri sono
propensi a ritenere molto alto, quasi attorno ai 2/3 del totale della
popolazione) e l’appoggio di potenze come Russia e Cina, il cui
esercizio del diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU
ha finora consentito alla Siria di sottrarsi a bombardamenti di tipo
“libico”[2].
E’ molto importante esaminare da vicino la
natura delle forze che compongono la coalizione aggressiva – attiva a
partire dai primi mesi del 2011 – disposta a ricorrere a qualunque mezzo
pur di abbattere il regime laico-nazionalista siriano fondato sulla
centralità del Partito Baath.
Quali sono queste forze? E perché per loro è così importante abbattere il governo Assad?
Per
offrire una risposta a tali interrogativi è necessario fare un passo
indietro di alcuni anni e comprendere la progressiva evoluzione delle
strategie dell’imperialismo USA-NATO e del conseguente quadro
geopolitico nel vicino oriente (a proposito, è decisamente più corretto,
per noi italiani, parlare di “vicino oriente” anziché di “medio
oriente” in quanto tale ultima locuzione riflette passivamente
l’angolatura statunitense, che considera “medio oriente” quell’arco di
Paesi situati ad est del mediterraneo, mentre il “vicino oriente”,
sempre per Washington, saremmo sostanzialmente noi, ossia i popoli
europei).
Con l’avvento di George W. Bush alla Casa Bianca, nell’anno 2000, il gruppo di Neocons
che si pone alla guida degli Stati Uniti (Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz,
Rice) mette in atto la strategia del cosiddetto “scontro delle civiltà”.
Tale disegno prevedeva la mobilitazione generale di tutti i popoli del
cosiddetto “occidente” che si sarebbero dovuti convincere a compiere una
guerra di lunga durata (avente i caratteri di vera e propria crociata a
guida statunitense) contro i popoli di religione islamica, indicati
come nemico strategico ed immanente, brutalmente disumanizzati e
descritti come portatori di un odio intrinseco verso il nostro stile di
vita, la nostra religione, i nostri costumi, ecc.
La
ideologia dello scontro frontale tra “occidente civilizzato” ed “islam
barbaro” era stata accuratamente congegnata nei laboratori del pensiero Made in U.S.A.
e aveva avuto uno dei suoi primi fautori nel professore di Harward
Samuel Huntington, autore nel 1993 dello scritto icasticamente titolato “Scontro delle civiltà” e pubblicato su Foreign Affairs, la rivista del Council on Foreign Relations[3].
Il
presupposto della teoria dello “scontro delle civiltà” era il seguente:
una volta crollata la potenza comunista URSS (già definita da Ronald
Reagan “l’impero del male”), gli Stati Uniti, al fine di
preservare per un lungo periodo il proprio ruolo di incontrastata
egemonia unipolare, avrebbero dovuto indirizzare i propri sforzi
principalmente verso il contenimento della Cina, la cui crescita
economica impetuosa, già registrata nei primi anni ’90 del secolo
scorso, aveva fatto sobbalzare sulle poltrone gli strateghi di
Washington, consci del rischio di dover fronteggiare un nuovo
concorrente emergente e difficile da contenere nel medio-lungo periodo.
Non
potendo però permettersi di ingaggiare uno scontro frontale e diretto
con la stessa Cina, per i maggiorenti di Washington occorreva creare un
nemico immaginario, da agitare agli occhi dell’opinione pubblica dei
Paesi occidentali al fine di creare compattezza psicologica nelle masse,
elemento indefettibile ogniqualvolta il Potere desideri creare un clima
di guerra: questo nemico inventato era appunto l’Islam, con tutti i
suoi contorni di Al Qaeda, del “mostro” Osama bin Laden[4] e dei nostri
giornalisti-megafono interessati al richiamo del Padrone (come Giuliano
Ferrara) o semplicemente affetti da demenza senile (come la Fallaci
dell’ultimo periodo).
L’evento catalizzatore che fu
prodromico e funzionale a questo clima da mobilitazione generale per una
nuova “guerra santa” contro l’Islam è stato rappresentato – come tutti
sappiamo – dagli attentati dell’11 settembre 2001, nella cui
organizzazione ormai moltissimi osservatori al mondo, unitamente ad una
grossa fetta di opinione pubblica globale, danno per scontata la
co-partecipazione di pezzi significativi delle forze armate e dei
servizi di sicurezza americani[5].
Col pretesto di una
nuova e lunga “guerra al terrorismo”, dunque, è arrivata prima
l’invasione dell’Afghanistan (dichiaratamente motivata dalla necessità
di catturare bin Laden ma in realtà attuata per consentire
l’installazione di basi militari in una regione strategica alle porte
della Cina) e poi quella dell’Iraq (portatore del secondo giacimento
petrolifero più capiente al mondo).
Nella folle strategia di
attacco frontale all’Islam concepita dai Neocons (ma, come si è detto,
in realtà si trattava di una strategia di avvicinamento e di
accerchiamento della Cina) era stata fin dall’inizio messa in conto
l’estensione del conflitto di tipo tradizionale anche alla Siria ed
all’Iran in quanto, nella mente degli strateghi di Washington, si
pensava che le operazioni militari nei teatri afghano ed iracheno non
avrebbero dovuto creare quei problemi inattesi che poi, di fatto, hanno
intralciato non poco i piani di dominio imperiale della potenza a stelle
e strisce[6].
Ma ad un certo punto del secondo mandato alla presidenza di George W. Bush, qualcuno ai piani alti dell’establishment
americano si rende conto del carattere propriamente folle della
strategia dello “scontro di civiltà” e della non praticabilità a lungo
termine di una logica di guerra infinita.
Infatti, nonostante
nessuna potenza al mondo possa ancora oggi contrastare il predominio
tecnologico dell’armamentario bellico U.S.A., è noto che nella storia
recente le truppe statunitensi si siano spesso dimostrate poco efficaci
sul terreno dello scontro militare diretto in campo aperto e pertanto
incapaci, alla lunga distanza, di controllare un territorio di ampie
dimensioni.
Inoltre, a Washington ci si rende conto che
una strategia basata sull’islamofobia (intesa quale strumento di
propaganda mediatica) e sull’occupazione diretta di territori di Stati
sovrani da parte dell’esercito a stelle e strisce, oltre a comportare
una ricaduta pesantissima in termini di bilancio del Pentagono, avrebbe
finito presto per attirare sugli Stati Uniti (percepiti come potenza
neo-coloniale in senso stretto) un odio generale da parte di circa 4/5
dell’umanità.
A questo punto, durante l’ultimo biennio
della Presidenza Bush, dopo la grave sconfitta elettorale subita dai
Repubblicani alle elezioni di mid terme per il rinnovamento del parlamento, si corre ai ripari concependo una revisione generale della strategia del New Big Middle East
(ossia “Nuovo grande Medio Oriente”): la svolta avviene alla fine del
2006 con la rimozione del “falco” Donald Rumsfeld dalla posizione di
Segretario di Stato alla Difesa, a cui fa seguito, pochi mesi dopo, la
defenestrazione del Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale
Peter Pace, di non lontane origini pugliesi.
Ai vertici
del Pentagono si insedia in quel momento Robert Gates, il quale comincia
a farsi interprete di una nuova linea strategica definita “realista”
(una linea solo apparentemente più moderata di quella dei Neocons) non
più basata sui toni da crociata verso l’Islam bensì su piani di attacco
più sottili e subdoli. I veri strateghi della nuova linea “realista”
sono l’immarcescibile Henry Kissinger (di marca repubblicana, mente del
colpo di Stato contro Salvador Allende in Cile nel 1973, anno in cui fu
destinatario anche del Premio Nobel per la pace) e l’ex Consigliere alla
Sicurezza nazionale del Presidente Carter, il polacco Zbigniew
Brzezinski.
La nuova linea “realista” – elaborata dai due
prefati strateghi - comporta la necessità per gli U.S.A. di abbandonare
lo scenario della fantomatica “guerra al terrorismo islamico” ed anzi,
di fare leva proprio sull’islam radicale quale preziosa risorsa politica e quale fraterno
alleato da impiegare su larga scala come fattore di destabilizzazione
in operazioni di “guerra sporca” o “coperta” (molto simile alla guerra a
bassa intensità attuata dai contras in Nicaragua).
Questa operazione di maquillage
dinanzi al mondo esigeva di porre alla Casa Bianca una figura che
potesse illudere soprattutto i Paesi in via di sviluppo (Africa, America
latina, sud-est asiatico) sul presunto cambio di rotta attuato ai
vertici della prima potenza globale: ed ecco che l’individuo ritenuto
più idoneo al raggiungimento di un’operazione che è soprattutto da
intendersi quale trucco mediatico viene trovato in Barack Hussein Obama,
nero (a metà) e dal secondo nome vagamente arabofono. Ma quel che conta
di più nella figura di Obama è che lui è, prima di ogni altra cosa, un
pupillo di Zbigniew Brzezinski[7], nel cui laboratorio politico è stato
interamente forgiato.
In sostanza, con l’avvento di Obama
alla Casa Bianca, gli obiettivi di fondo degli Stati Uniti rimangono
intatti, quantunque ne mutino lo stile e la strategia per conseguirli:
occorre ridisegnare politicamente l’intero mondo arabo e islamico, un
immenso territorio che va dal Maghreb africano fino quasi alle porte
della Cina, per cingere d’assedio il gigante asiatico ed incunearsi in
una zona strategica con l’obiettivo di impedire alla stessa Cina ed alla
Russia (ora nuovamente temuta da Brzezinski e dagli americani) di
integrarsi reciprocamente, come di fatto sta avvenendo nell’ambito
dell’inedita alleanza militare di Shangai (S.C.O.). E, laddove non sia
più possibile instaurare governi direttamente rispondenti a Washington,
secondo la linea di Obama-Brzezinski bisogna comunque seminare
confusione e provocare scontri inter-religiosi, cosa ben possibile sia
in Egitto che in Siria, data la presenza di ampie comunità cristiane al
fianco di maggioranze musulmane: è la cosiddetta geopolitica del caos.
Due sono i momenti che segnano simbolicamente la svolta di Obama-Brzezinski: il primo è costituito dal discorso
del Presidente americano pronunciato dinanzi all’Università islamica
Al-Azhar del Cairo il 4.6.2009, in cui Obama ha parlato di un “nuovo inizio” nei rapporti tra occidente e islam.
E un “nuovo inizio” c’è stato per davvero,
dato che, a partire da quel momento, gli Stati Uniti (d’intesa con la
Gran Bretagna), al fine di perseguire l’obiettivo di attuare il regime change
nei Paesi non ad essi allineati, hanno sostituito la tecnica della
tradizionale guerra d’invasione con l’impiego di milizie di mercenari
irregolari addestrati e motivati proprio con il valore unificante
dell’islamismo radicale!
Il secondo momento simbolico che ha segnato il passaggio da una strategia ad un’altra è rappresentato dalla clamorosa messinscena, celebrata il 2 maggio 2011, della finta cattura e uccisione dell’orco cattivo Osama bin Laden,
dichiaratamente sepolto nei fondali marini dell’oceano indiano giusto
al fine di sottrarlo agli occhi indiscreti dei più scettici.
Come in tutte le migliori fiction
televisive americane, la saga della “guerra al terrorismo islamico” non
poteva dunque che concludersi, per soddisfare le aspettative del grande
pubblico, con la cattura e l’uccisione del capo dei capi, finalmente
sistemato a dovere[8].
Nella destabilizzazione di Libia e
Siria, pertanto, si è segnalato e si sta segnalando un impiego
abbondante e decisivo, da parte degli USA e dei loro alleati, di milizie
islamiche reclutate nelle aree più depresse e arretrate dei paesi
arabi, a cominciare dalla Cirenaica (est della Libia), dove quel “matto”
di Mohammar Gheddafi non a caso aveva segnalato fin dai primi istanti
della rivolta nel suo Paese la presenza di cellule legate ad Al Qaeda!
Al contempo, nella retorica americana (e, conseguentemente, di tutti i nostri mass media)
è quasi totalmente scomparso il pericolo del terrorismo islamico: il
“Ministero della Paura” di orwelliana memoria ha recentemente trovato
nella gravissima crisi capitalistica scoppiata nel 2007-2008 il nuovo
argomento per traumatizzare e paralizzare le masse, potendo dunque
mettere da parte il pericolo islamico.
Sempre nell’opera
di destabilizzazione della Siria (e della Libia) gli Stati Uniti e la
Gran Bretagna, inoltre, hanno trovato degli alleati regionali
solidissimi: in primis la Turchia di Erdogan, a cui nel nuovo
scenario verrebbe affidato il compito di sub-potenza regionale,
alimentandone i fasti e le ambizioni legate all’esperienza storica
dell’Impero ottomano; in second’ordine, alla aggressione armata alla
Siria ed al suo legittimo governo partecipa, con un ruolo altrettanto
importante, un arco di forze legate da un collante ideologico-religioso
fondato sull’islam radicale: i monarchi assoluti dell’Arabia
Saudita e del Qatar (entrambi affiliati alla corrente salafita, per i
quali il laico Bashar al-Assad è un governante “impuro” e “sacrilego”)
stanno contribuendo al grande piano con un ingente apporto di
finanziamenti e, quanto all’emiro del Qatar, anche con il decisivo
apporto mediatico fornito da Al Jazeera, network
pan-arabo che ha sempre sostenuto, fin dal primo istante, le cosiddette
rivolte arabe. A quest’arco di forze aggressive, inoltre, si lega
l’azione politica dei Fratelli Musulmani (da poco insediatisi ai vertici
del potere egiziano e anch’essi largamente supportati dagli americani) e
del movimento palestinese integralista Hamas, il cui gruppo dirigente,
non a caso, ha abbandonato il suo storico quartier generale di Damasco
mettendosi sotto la protezione di Turchia e Qatar.
Nello
scenario descritto, la Siria di Bashar al-Assad deve necessariamente
essere destabilizzata per fare posto ad un nuovo governo egemonizzato da
islamisti radicali proni agli interessi della Turchia e dell’occidente.
Non può esserci più posto per l’ultimo governo ispirato da principi di nazionalismo laico e pan-arabo di derivazione nasseriana.
“Assad deve andarsene!”
pronunciano all’unisono tutti gli autori dell’intrigo contro la
Siria[9], senza ormai nemmeno preoccuparsi di salvare l’apparente
conservazione dei principi più basilari del sistema di diritto
internazionale, che con l’art. 2 della carta fondativa dell’O.N.U.,
dovrebbe fare sempre salvo il principio di sovranità delle nazioni
(senza che su tanto possa minimamente influire la particolare forma di
governo o il tipo di organizzazione politico-istituzionale da esse
sposate).
Un ultimo accenno, doloroso e davvero
deprimente, meritano le parole del Ministro (o ambasciatore?) Terzi del
nostro governo coloniale a guida Mario Monti.
Giulio Terzi di
Sant'Agata, forse confondendo il ruolo di titolare di dicastero di un
governo di un Paese sovrano - come è (o dovrebbe essere) l’Italia - con
quello di mero portavoce di governi stranieri, ha dichiarato
ineffabilmente, a margine degli attentati di Damasco del 18 luglio in
cui sono morte personalità di primo piano di un altro governo sovrano di
una nazione aderente alla comunità internazionale, che deve essere
Assad a fare le valigie (e non i terroristi islamisti che seminano morte
e terrore per tutta la Siria), senza spendere una sola parola di
condanna per gli autori di un attentato che dovrebbe imbarazzare non
poco tutti i Paesi che stanno impunemente lavorando alla distruzione di
una nazione pacifica, multi-religiosa e multi-culturale quale è la
Siria.
Come siamo caduti in basso! E’ triste notare come
al dicastero che un tempo fu occupato da Pietro Nenni e Aldo Moro, ora
siede un mero portavoce del Dipartimento di Stato americano.
Giuseppe Angiuli
NOTE:
[1] Thierry Meyssan (Réseau Voltaire), La battaglia di Damasco è iniziata, 19 luglio 2012, in http://aurorasito.wordpress.com/2012/07/19/la-battaglia-di-damasco-e-iniziata/
[2]
Per la terza volta in pochi mesi, il 19 luglio scorso la Russia e la
Cina sono tornate ad opporre il diritto di veto ad una bozza di
risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che contemplava l’uso di
maniere forti contro Damasco.
[3] Il Council of Foreign Relations
è considerato uno degli organismi più decisivi nello studio e nella
definizione delle strategie globali della potenza statunitense (http://www.cfr.org/)
[4]
I bene informati sanno che lo sceicco Osama bin Laden ha lavorato fin
dai primi anni ’80 del Novecento al servizio della C.I.A., che gli
affidò il compito di formare un esercito di combattenti islamici col
fine di destabilizzare l’Afghanistan allora occupata dall’esercito
sovietico. Successivamente, negli anni ’90, diversi testimoni, tra cui
Giulietto Chiesa, hanno ricostruito un ruolo analogo dello stesso bin
Laden all’interno del conflitto jugoslavo, dove lo sceicco saudita
avrebbe collaborato a creare delle milizie islamiche contigue al
Presidente bosniaco musulmano Alija Izetbegović. Per un “assaggio”
visivo dei mujahideen arabi operanti a suo tempo in Bosnia, cfr. http://www.youtube.com/watch?v=vFsfCD4Z_RQ&feature=youtu.be.
[5]
Il testo più completo tra quelli che approfondiscono l’interpretazione
“dietrologica” degli eventi dell’11 settembre 2001 è quello scritto
dall’analista americano Webster Griffin Tarpley, “La fabbrica della menzogna”, pubblicato in Italia da Arianna Editrice.
[6]
I fallimenti più clamorosi degli obiettivi strategici connessi alle
guerre di Afghanistan ed Iraq sono stati i seguenti: nel primo caso,
l’insediamento delle truppe di occupazione della NATO non ha comunque
impedito ai Paesi dell’area asiatica post-sovietica (Kazakhstan,
Kyrgyzstan, Tagikistan, Uzbekistan) di integrarsi nella inedita alleanza
militare con Russia e Cina, la S.C.O., cosiddetta “NATO dell’Est” (http://www.sectsco.org/);
nel caso iracheno, gli USA, nonostante le apparenze, non sono riusciti a
mettere propriamente le mani sul petrolio, mentre, con l’avvento della
componente sciita al governo di Baghdad, si è dato spazio ad una
influenza iraniana sull’Iraq impensabile fino a pochi anni fa.
[7] Per una biografia “unauthorized” di Obama, cfr. Webster Griffin Tarpley, “Obama dietro la maschera. La strategia dell'illusione: golpismo mondiale sotto un fantoccio di Wall Street”, 2011, Fuoco Edizioni.
[8]
In realtà, moltissime testimonianze sembrano accreditare la tesi
secondo cui bin Laden fosse morto al più tardi nel 2006, come pure
asserito dall’ex Presidente pakistana Benazir Bhutto in una delle sue
ultime apparizioni televisive (cfr. www.youtube.com/watch?v=L2Twb8WwD1U).
[9] Cfr. Alessandro Lattanzio, “Intrigo contro la Siria. La Siria Baathista tra geopolitica, imperialismo e terrorismo”, edizioni Anteo.
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