Il
progetto ecosocialista implica l’instaurazione di una pianificazione
democratica dell’economia, che metta in conto la preservazione
dell’ambiente e, in particolare impedisca uno sconvolgimento
catastrofico del clima. Grazie a questa pianificazione si potrà operare
una rivoluzione del sistema energetico, che porti alla sostituzione
delle risorse attuali (soprattutto l’energia fossile), responsabili del
cambiamento climatico e dell’avvelenamento dell’ambiente, con risorse
energetiche rinnovabili: l’acqua, il vento e il sole.
La condizione necessaria per questa pianificazione democratica ed
ecologica è il controllo pubblico sui mezzi di produzione: le decisioni
di ordine pubblico sugli investimenti e i cambiamenti tecnologici
devono essere tolti alle banche e alle imprese capitaliste se si vuole
che servano il bene comune della società e la preservazione
dell’ambiente. L’insieme della società sarà libero di scegliere
democraticamente le linee produttive da privilegiare –in base a criteri
sociali ed ecologici– e il livello delle risorse che devono essere
investite nelle energie alternative, nell’istruzione, nella salute o
nella cultura. Gli stessi prezzi dei beni non risponderanno più alle
leggi della domanda e dell’offerta ma saranno determinati il più
possibile secondo criteri sociali, politici ed ecologici. Questa
pianificazione avrà tra i suoi obiettivi la garanzia del pieno impiego,
grazie alla riduzione della giornata lavorativa. Questa condizione è
indispensabile non solo per rispondere alle esigenze di giustizia
sociale, ma anche per assicurarsi il sostegno della classe operaia,
senza il quale il processo di trasformazione ecologica strutturale
delle forze produttive non può essere effettuato.
Lungi dall’essere «dispotica»
in sé, la pianificazione democratica è l’esercizio della libertà di
decisione dell’insieme della società. Un esercizio necessario per
liberarsi delle «leggi economiche» e delle «gabbie di ferro»
alienanti e reificate all’interno delle strutture capitaliste e
burocratiche. La pianificazione democratica, associata alla riduzione
del tempo di lavoro, sarebbe un progresso considerevole dell’umanità
verso quello che Marx chiama «il regno della libertà»:
l’aumento del tempo libero è infatti una condizione per la
partecipazione dei lavoratori alla discussione democratica e alla
gestione dell’economia e della società.
Il
genere di sistema di pianificazione democratica prospettato dagli
ecosocialisti riguarda le principali scelte economiche –in particolare
quelle che hanno a che fare con i pericoli del riscaldamento globale– e
non certo l’amministrazione dei ristoranti locali, delle drogherie,
delle panetterie, dei piccoli negozi e delle imprese artigianali o dei
servizi. Altrettanto importante è sottolineare che la pianificazione non
è in contraddizione all’autogestione dei lavoratori nelle loro unità
di produzione. Mentre, ad esempio, la decisione di trasformare una
fabbrica di automobili in unità di produzione di motori per eoliche
toccherebbe all’insieme della società, l’organizzazione e il
funzionamento interni della fabbrica sarebbero gestiti democraticamente
dagli stessi lavoratori.
Si è dibattuto a lungo sul carattere «centralizzato» o «decentralizzato»
della pianificazione, ma l’elemento più importante resta il controllo
democratico del piano a tutti i livelli, locale, regionale, nazionale,
continentale e, speriamo, planetario, poiché temi dell’ecologia come il
riscaldamento climatico sono mondiali e non possono essere trattati
che a questo livello. Questa proposta si potrebbe chiamare «pianificazione democratica globale». Essa non ha niente a che vedere con quella che viene generalmente designata come «pianificazione centrale», in quanto le decisioni economiche e sociali non sono prese da un qualsivoglia «centro» ma determinate democraticamente dalle popolazioni interessate.
La
pianificazione ecosocialista deve essere fondata su un dibattito
democratico e pluralista a ciascun livello di decisione. Organizzati
sotto forma di partiti, di piattaforme, o di qualsiasi altro movimento
politico, i delegati degli organismi di pianificazione sono eletti, e le
diverse proposte sono presentate a tutti quelli che ne sono oggetto.
In altri termini, la democrazia rappresentativa deve essere arricchita
–e migliorata– dalla democrazia diretta, che permette alle persone di
scegliere direttamente –a livello locale, nazionale, e in ultima istanza
internazionale– tra diverse proposte. Allora, l’insieme della
popolazione si interrogherebbe sulla gratuità del trasporto pubblico, su
una imposta speciale, pagata dai proprietari di automobili per
sovvenzionare il trasporto pubblico, sul sovvenzionamento dell’energia
solare, sulla riduzione del tempo di lavoro a 30, 25 ore settimanali o
meno, anche se questo comporta una certa riduzione della produzione. Il
carattere democratico della pianificazione non la rende incompatibile
con la partecipazione degli esperti il cui ruolo non è di decidere ma di
presentare i loro argomenti –spesso diversi o anche opposti– nel corso
del processo democratico di presa delle decisioni.
Si
pone una domanda: che garanzia abbiamo che le persone faranno le
scelte giuste,quelle che proteggono l’ambiente, anche se il prezzo da
pagare è di cambiare una parte delle loro abitudini di consumo? Una
tale «garanzia» non esiste, [esiste] soltanto la ragionevole
prospettiva che la razionalità delle decisioni democratiche trionferà
una volta abolito il feticismo dei beni di consumo. È sicuro che il
popolo farà degli errori, facendo scelte sbagliate, ma gli esperti non
fanno anch’essi scelte sbagliate? È impossibile concepire la
costruzione di una nuova società senza che la maggioranza del popolo
abbia raggiunto una grande presa di coscienza socialista ed ecologica
grazie alle sue lotte, alla sua autoeducazione e alla sua esperienza
sociale.
Alcuni
ecologisti valutano che la sola alternativa al produttivismo sia di
arrestare la crescita nel suo insieme, o di sostituirla con una crescita
negativa, chiamata in Francia «décroissance» [decrescita].
Per fare ciò occorrerebbe ridurre drasticamente il livello eccessivo di
consumo della popolazione e rinunciare, tra l’altro, alle case
individuali, al riscaldamento centrale e alle lavatrici, per ridurre di
metà il consumo di energia.
I «décroissants» [decrescenti?] hanno il merito di avere avanzato una critica radicale del produttivismo e del consumismo. Ma il concetto di «decrescita» deriva da una concezione puramente quantitativa della «crescita»
e dello sviluppo delle forze produttive. Occorrerebbe piuttosto
riflettere su una trasformazione qualitativa dello sviluppo. Questo
significa due impostazioni diverse ma complementari:
(1)
Non solo la riduzione ma la soppressione di interi settori economici,
per mettere fine al mostruoso spreco di risorse provocato dal
capitalismo: un sistema fondato sulla produzione su grande scala di
prodotti inutili e/o dannosi. Un buon esempio è l’industria degli
armamenti, così come tutti quei «prodotti» fabbricati nel
sistema capitalista (con la loro obsolescenza programmata) che non
hanno alcun’altra utilità oltre a creare profitti per le grandi
imprese. La questione non è il «consumo eccessivo» in
astratto, ma piuttosto il tipo di consumo dominante le cui
caratteristiche principali sono: la proprietà ostentativa, lo spreco di
massa, l’accumulazione ossessiva di beni e l’acquisizione compulsiva
di pseudo novità imposte dalla «moda». Una nuova società
orienterebbe la produzione verso la soddisfazione dei bisogni
autentici, a cominciare da quelli che si potrebbero qualificare come «biblici»
–l’acqua, il cibo, i vestiti e la casa– ma includendo i servizi
essenziali: la salute, l’istruzione, la cultura e il trasporto. Si
potrebbe dunque parlare di «decrescita selettiva».
(2) Dall’altra parte, occorrerebbe assicurare la «crescita selettiva»
di certe branche produttive o servizi trascurati dal capitalismo:
l’energia solare, l’agricoltura biologica (familiare o cooperativa), i
trasporti pubblici, ecc.
È
evidente che i paesi o i bisogni essenziali sono lungi dall’essere
soddisfatti, vale a dire che i paesi dell’emisfero sud dovranno «svilupparsi»
–costruire ferrovie, ospedali, fognature e altre infrastrutture– molto
di più che i paesi industrializzati, ma questo dovrebbe essere
compatibile con un sistema di produzione basato sulle energie
rinnovabili e dunque non nocive per l’ambiente. Questi paesi avranno
bisogno di produrre grandi quantità di cibo per le loro popolazioni già
colpite dalla fame. Ma, come sostengono da anni i movimenti contadini
organizzati su scala internazionale dalla rete Via Campesina, si tratta
di un obiettivo molto più facile da raggiungere per mezzo
dell’agricoltura biologica contadina, organizzata in unità familiari,
cooperative o fattorie collettive, che non con i metodi distruttivi e
antisociali dell’agroindustria il cui principio è l’utilizzo intensivo
dei pesticidi, di sostanze chimiche e degli OGM. L’odioso sistema
attuale del debito e dello sfruttamento imperialista delle risorse del
Sud da parte dei paesi capitalisti industrializzati lascerebbe il posto a
uno slancio di sostegno tecnico ed economico del Nord verso il Sud.
Non
ci sarebbe alcun bisogno –come sembrano credere certi ecologisti
puritani ed ascetici– di ridurre in termini assoluti il livello di vita
delle popolazioni europee o nordamericane. Occorre semplicemente che
queste popolazioni si sbarazzino dei prodotti inutili, quelli che non
soddisfano alcun bisogno reale, e il cui consumo ossessivo è sostenuto
dal sistema capitalista. Riducendo il loro consumo, esse ridefinirebbero
la nozione di livello di vita per far posto a un modo di vita che
sarebbe in realtà molto più ricco.
Come
distinguere i bisogni autentici dai bisogni artificiali, falsi o
simulati? L’industria della pubblicità, –che esercita la sua influenza
sui bisogni tramite la manipolazione mentale– è penetrata in tutte le
sfere della vita umana delle società capitaliste moderne. Tutto è
modellato secondo le sue regole, non solo il cibo e l’abbigliamento, ma
anche ambiti così diversi come lo sport, la cultura, la religione e la
politica. La pubblicità ha invaso le nostre strade, le nostre cassette
da lettere, i nostri schermi televisivi, i nostri giornali e i nostri
paesaggi in modo insidioso, permanente ed aggressivo. Questo settore
contribuisce direttamente alle abitudini di consumo ostentativo e
compulsivo. Per di più comporta uno spreco fenomenale di petrolio, di
elettricità, di tempo di lavoro, di carta e di sostanze chimiche tra
altre materie prime – il tutto pagato dai consumatori. Si tratta di una
branca di «produzione» non solo inutile dal punto di vista
umano, ma anche in contraddizione con i bisogni sociali reali. La
pubblicità è una dimensione indispensabile in una economia di mercato
capitalista, ma non avrebbe posto in una società in transizione verso
il socialismo. Sarebbe sostituita da informazioni sui prodotti e
servizi fornite da associazioni di consumatori. Il criterio per
distinguere un bisogno autentico da un bisogno artificiale sarebbe la
sua permanenza dopo la soppressione della pubblicità. È chiaro che le
vecchie abitudini di consumo persisteranno per un certo tempo, dato che
nessuno ha il diritto di dire alle persone di che cosa hanno bisogno.
Il cambiamento dei modelli di consumo è un processo storico e una sfida
educativa.
Certi
prodotti, come l’auto individuale, sollevano problemi più complessi.
Le auto individuali sono una calamità pubblica. Su scala planetaria
uccidono o mutilano centinaia di migliaia di persone ogni anno.
Inquinano l’aria delle grandi città –con conseguenze nefaste sulla
salute dei bambini e delle persone anziane– e contribuiscono in misura
considerevole al cambiamento climatico. D’altra parte l’auto soddisfa
bisogni reali nelle condizioni attuali del capitalismo. In un processo
di transizione verso l’ecosocialismo, il trasporto pubblico sarebbe
largamente diffuso e gratuito –in superficie come sotterraneo– mentre ci
sarebbero percorsi protetti per i ciclisti e i pedoni. Di conseguenza
l’auto individuale avrebbe una funzione molto meno importante che nella
società borghese, dove è diventata un prodotto feticcio, promosso da
una pubblicità insistente e aggressiva. In questa transizione verso una
nuova società, sarebbe molto più facile ridurre drasticamente il
trasporto su strada delle merci –responsabile di tragici incidenti e del
livello troppo elevato di inquinamento– per sostirtuirlo con il
trasporto ferroviario o il ferroutage [trasporto dei TIR su treno = autostrada ferroviaria /viaggiante]: solo la logica assurda della «competitività» capitalista spiega lo sviluppo del trasporto su camion / gomma.
A
queste proposte, i pessimisti risponderanno: sì, ma gli individui sono
motivati da aspirazioni e desideri infiniti, che devono essere
controllati, analizzati, rimossi ed anche repressi se necessario. La
democrazia potrebbe allora subire alcune restrizioni. Ora,
l’ecosocialismo si basa su una ipotesi ragionevole, già sostenuta da
Marx: la predominanza dell’«essere» sull’«avere», in
una società senza classi sociali né alienazione capitalista, vale a
dire il prevalere del tempo libero sul desiderio di possedere
innumerevoli oggetti: la realizzazione personale tramite vere attività,
culturali, sportive, ludiche, scientifiche, erotiche, artistiche e
politiche. Il feticismo della merce incita all’acquisto compulsivo
attraverso l’ideologia e la pubblicità proprie del sistema capitalista.
Niente prova che questo faccia parte della «eterna natura umana».
Ciò
non significa, soprattutto nel periodo di transizione, che i conflitti
saranno inesistenti: tra i bisogni di protezione dell’ambiente e i
bisogni sociali, tra gli obblighi in materia di ecologia e la necessità
di sviluppare le infrastrutture di base, in particolare nei paesi
poveri, tra abitudini popolari di consumo e la scarsità di risorse. Una
società senza classi sociali non è una società senza contraddizioni né
conflitti. Questi ultimi sono inevitabili: sarà la funzione della
pianificazione democratica, in una prospettiva ecosocialista liberata
dai vincoli del capitale e del profitto, di risolverli grazie a
discussioni aperte e pluraliste che portino la società stessa a prendere
le decisioni. Una tale democrazia, comune e partecipata, è il solo
mezzo, non di evitare gli errori, ma di correggerli da parte della
stessa collettività sociale.
*
Michael Löwy, filosofo e sociologo di origine brasiliana, è militante
del Nuovo Partito Anticapitalista francese e della IV Internazionale.
Coautore (con Joel Kovel) del Manifesto ecosocialista internazionale
è stato anche uno degli organizzatori del primo Incontro Ecosocialista
Internazionale di Parigi (2007). Autore di numerosissimi libri, ha
pubblicato recentemente. Sociologies et religion – Approches dissidents (con Erwan Diantelli), PUF, Paris 2006; Messagers de la tempête – André Breton et la révolution de janvier 1946 en Haiti (con Gerald Bloncourt), Le Temps des Cerises, Paris 2007; Che Guevara, une braise qui brûle encore (avec Olivier Besancenot), Mille et une nuit, Paris 2007; Sociologies et religion – Approches insolites (con Erwan Diantelli), PUF, Paris 2009.»
Michael Löwy
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