“Nessuno
è più schiavo di colui che si ritiene libero senza
esserlo.”
Johann Wolfgang Göethe.
La
Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo approvata
dall'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, all'articolo 1 così recita:
“Tutti
gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignita e diritti. Essi
sono
dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli
altri
in spirito di fratellanza.”
Constatiamo
che, nel corso della storia e tuttora, in molte parti del
mondo,
così non è stato e così non è.
In
questa sede cercheremo di capire, con un breve excursus
interdisciplinare,
il perché di ciò e come invece sia urgente che tale
principio
sia applicato globalmente, anche per evitare all'umanità il
rischio
di estinguersi in maniera definitiva.
La
servitù del mondo greco-romano.
Potrà
sembrare paradossale questa affermazione ma lo schiavo
nell'antichità
non esisteva, vi era piuttosto il servo, e, anche se tale
differenza
può apparire minima, cercheremo di spiegare come invece
essa
sia connessa ad una svolta precisa che ebbe inizio con l'età
moderna
e che portò ad associare alla discriminazione economica e
sociale,
anche quella etnica, razziale ed infine ideologica.
I
greci chiamavano quello che noi intendiamo oggi come “schiavo”,
“doylos”,
una parola che, secondo un autorevole filologo come
Semerano,
deriva dal miceneo doero,
che Omero usa solo al femminile
per
indicare la schiavitù, e che, a sua volta, deriva dall'aramaico
dajjalla
e
dall'accadico dullu
che vuol dire servire con
abilità nel lavoro. Anche il
sumero
dalalu rimanda
rispettivamente al significato di lavoro, pena e al
contempo
anche di servizio.
La
parola latina che entrò in uso in maniera corrispondente per
indicare
lo
“schiavo romano” era invece “servus”, che però già assume
una
connotazione
diversa. Essa infatti etimologicamente deriva dall'umbro
“aseriatu”
(osservato) e dall'accadico sehru
o seheru
(piccolo, modesto,
giovane
di servizio).
Tra
l'uno e l'altro termine vi è una sostanziale differenza semantica
che
rimanda
alla stessa funzione dell'essere umano che è destinato a subire i
comandi
del suo padrone, nel primo caso, con il significante greco,
infatti,
si tende ad identificare il servo come colui che svolge un lavoro e
deve
per questo dimostrare anche una certa perizia tecnica per poterlo
svolgere
bene, dice infatti Aristotele: “Dello schiavo, che è uno
strumento
vivente, bisogna aver cura nella misura in cui è buono al
lavoro”.
Nel
secondo caso, quello romano, lo schiavo, piuttosto, è colui che vive
in
uno stato perenne di “minorità”, di dipendenza ed è
continuamente
“sorvegliato”
e ovviamente punito se sbaglia.
Nonostante
ciò, esso, come un “puer” è sovente “allevato” in ambito
famigliare
finché non gli si riconosce anche la possibilità di emanciparsi,
diventando
per questo un “liberto”. Così infatti scrive Petronio, scrittore
di
età neroniana: “Amici,
badate che anche i servi sono uomini e hanno
bevuto
lo stesso latte, come noi, e non vuol dire nulla se poi mala sorte
li
colse.”
Prima
di osservare come e quando il “doylos-servus”
diventa anche
“schiavo”,
cerchiamo di focalizzare, a grandi linee, cosa significava la
“servitù”
nel mondo antico.
Si
diventava “servus” in genere per due motivi: o perché si era
prigionieri
di
guerra oppure perché si era oberati di debiti.
Già
questo, osservando il destino di interi popoli a cui viene imposto
tuttora,
per motivi economici di debito esorbitante o per “esportazione”
di
modelli politici a loro estranei, un sistema politico, economico,
sociale
e
in certi casi anche militare che prescinde del tutto dalla sovranità
popolare,
ci deve far seriamente pensare che tale destino non è affatto
scomparso,
ma, nel mutare delle circostanze storiche, tende a riprodursi
con
modalità diverse e su ampia scala.
Lo
schiavo nel mondo antico è una cosa, una res
vivente, uno "strumento
o
animale parlante". Lo è fin dal IV millennio a. C., a partire
dalle civiltà
egizia
e sumera.
Come
abbiamo già messo in evidenza, i prigionieri di guerra, caduti in
proprietà
dello Stato, venivano venduti al miglior offerente, chi non
poteva
pagare i propri debiti diveniva proprietà del suo creditore, dopo il
relativo
periodo di prigionia, oppure veniva venduto sui vari mercati.
Però
vi erano anche altri numerosi casi, specialmente in epoca romana,
in
cui si ci si poteva ridurre in schiavitù. Lo si poteva infatti
diventare
anche
a seguito di un naufragio, o a causa di una pena che comportasse
la
perdita della libertà personale (come l'assassinio o l'essere
disertori o
avere
evaso le tasse), a meno che non si accettasse l'esilio. La gente
povera,
in ogni caso, spesso finiva schiava anche per reati minimi, se non
poteva
pagare una pena in denaro.
Vi
erano inoltre persone rapite dai pirati o dai briganti per essere poi
vendute,
oppure bambini abbandonati (perché non riconosciuti dal
padre)
o venduti dalle famiglie povere.
Non
erano rari infine i casi di esiliati politici che emigravano a Roma
per
porsi
in servitù, o quelli di alcune tribù nordiche che facevano la
stessa
cosa,
spinte dalla fame o dalla carestia.
L'esistenza
della schiavitù poteva essere associata nel mondo antico a
pratiche
e a culti religiosi.
In
Egitto, in particolare, al posto del diritto che si affermò
ampiamente
nel
mondo romano, vi fu uno sviluppo eccezionale della religione, e solo
quando
si cercò di realizzare il passaggio allo schiavismo esplicito si
operò
un tentativo di riforma, poi abbandonato, in direzione del
monoteismo
assoluto. Tale intento fu poi portato avanti da Mosè e da
altri
sacerdoti egizi insieme al popolo ebraico, che era insofferente
all'acuirsi
dello schiavismo. Il fallimento di questa riforma contribuirà
decisamente
al crollo della civiltà egizia.
In
Grecia osserviamo che accanto alla parola δοῦλος
di uso più comune
per
indicare la condizione del servo, ve ne sono varie altre come
ἀνδράποδον
che indica l'essere a due
gambe per distinguerlo da quello a
quattro,
ma sempre destinato a svolgere la medesima funzione, vi è l'
οἰκέτης
il domestico, che svolge
funzioni casalinghe, il θεράπων
che è lo
scudiero
dei tempi omerici, l' ἀκόλουθος
e cioè l'accompagnatore, che
fa
parte del seguito di un signore, con funzioni ancillari, il παῖς
letteralmente
il fanciullo, spesso garzone e destinato a commissioni
varie,
e infine la stessa parola σῶμα
che indica il corpo ,
specialmente in
epoca
tarda e con l'influsso della filosofia neoplatonica, diverrà
sinonimo
di
schiavitù, quella da cui l'anima destinata a mete iperuraniche deve,
con
un complesso percorso di espiazione, tendere a liberarsi.
Nel
mondo preomerico vi era persino lo “schiavo di Dio” colui che, in
genere
reso prigioniero in seguito ad azioni piratesche, diveniva servo di
Poseidone
che, per questo, si riteneva ne avesse propiziato la cattura.
Nella
civiltà micenea il confine tra servo e cittadino libero in armi non
era
così netto come in altri ambiti, perché generalmente coloro che
vivevano
lontani dal “palazzo signorile” erano accomunati dalla
medesima
sorte, sia che lavorassero i campi sia che fossero dediti
all'artigianato.
La principale divisione era dunque tra dipendenti del
palazzo
con funzioni servili e per questo destinati ad alimentarne le
risorse,
e liberi in armi, i componenti cioè dell'aristocrazia guerriera.
In
epoca omerica lo schiavo viene denominato δμώς
ed è in genere
destinato
ad un ruolo di domestico nella casa del signore che lo ha reso
prigioniero
e lo considera perciò un vero e proprio bottino di guerra.
Tale
è il ruolo di molte donne destinate anche a svolgere il compito di
concubine.
Famosa la figura del porcaro Eumeo, che ha rango superiore
allo
stesso mendicante e che conserva per questo anche la fiducia del suo
signore
verso il quale mantiene una fedeltà assoluta.
Varie
testimonianze provenienti dalla letteratura greca, anche arcaica, ci
parlano
della schiavitù nel mondo greco.
Esiodo
ne “Le Opere e i Giorni” ci parla di diversi dmoes
ma non ne
chiarisce
molto il ruolo né la funzione, anche i poeti lirici come Archiloco
o
Teognide di Megara menzionano vari douloi,
ma notizie più precise ci
giungono
solo con Plutarco, a partire da La vita di Solone in cui l'autore
ricorda
che il legislatore ateniese proibì ai servi di praticare la
ginnastica
e
la pederastia.
Dato
che da quell'epoca i riferimenti alla servitù diventano sempre più
frequenti,
possiamo affermare con una certa attendibilità, che proprio a
partire
dalla introduzione della democrazia, il ruolo servile si fece in
Atene
più nettamente evidente e concretamente ufficializzato.
A
Sparta la servitù degli iloti aveva connotazioni più etniche e
razziali,
collegata
come era ad una stratificazione sociale nettamente definita dal
ruolo
prevalente e dominante dei cittadini in armi: gli spartiati, per i
quali
gli iloti, che erano discendenti di popolazioni autoctone soggiogate
con
la forza, erano poco più che “animali da allenamento”. Ma anche
in
queste
tragiche condizioni, il servo-ilota conservava il diritto alla
ribellione
che, pur essendo duramente repressa, ogni tanto esplodeva,
contrariamente
a ciò che accadeva al servo ateniese che era
perennemente
soggiogato, anche per quel che nel merito ci dice
Aristotele,
il quale teorizza che il servo sia del tutto privo di stirpe e di
comunità
e in possesso solo di un corpo atomizzato.
Interessanti,
a questo proposito, sono le considerazioni di Luciano
Canfora:
“In Atene i liberi
hanno ridotto a non-persone i non liberi, e
dopo
Solone che ha recuperato alla liberta ceti immiseriti che
andavano
scivolando nella schiavitu per debiti si e aperto un baratro,
rimasto
incolmabile, tra liberta e schiavitu. Come s'e detto, in Atene il
rapporto
liberi/schiavi e di uno a quattro: almeno tale appare in vari
momenti
del V e del IV secolo. La grande massa delle non-persone e
indispensabile
al funzionamento del sistema, che infatti finche ha
potuto
si e alimentato con guerre di rapina e col dominio imperiale. Gli
schiavi
sono la base dell'economia domestica e dell'economia pubblica.
Anche
il piu povero, il piu miserabile individuo ha almeno uno schiavo:
lo
ha ad esempio il poverissimo Eschine ≪socratico≫, scolaro diretto
di
Socrate,
ridotto secondo il ritratto che ne fa Lisia a corteggiare la
padrona
ultra settantenne di una farmacia nella speranza di
ereditarne
la bottega. Nell'economia pubblica - in particolare nelle
miniere
- gli schiavi sono governati e controllati da campieri anch'essi
di
condizione servile; nell'economia domestica questo ruolo di
sorveglianti
degli schiavi tocca al le donne, anch'esse non-persone,
soggetti
irrilevanti e inesistenti nella societa politica ateniese. A Sparta
la
stratificazione sociale ha coinciso con la stratificazione castale ed
etnica
tra Dori dominanti e popolazioni sottomesse, ridotte dai
guerrieri-dominatori
a differenti gradi e modi di dipendenza. Ma gli
Spartani
≪purosangue≫, o Spartiati, cosi come gli Ateniesi
≪purosangue≫,
erano ≪liberi e uguali≫. Se erano portati a tenere a
bada
col terrore i dominati, cio e dovuto essenzialmente alla
preoccupante
sproporzione numerica a loro sfavore. La gran parte
degli
schiavi di Atene marcivano nelle miniere incatenati in luoghi
pestiferi,
come precisa Plutarco a proposito degli schiavi di Nicia (Vita
di
Crasso, 34,1). Ed e difficile negare che tale condizione fosse di
gran
lunga
peggiore di quel la degli iloti, ai quali era pur sempre garantita
la
fruizione di una parte dei frutti del loro lavoro.”
Aristotele
svolge considerazioni che in parte divergono da quelle di
Platone
che asserisce che “Ogni
re deriva da una stirpe di schiavi ed
ogni
schiavo ha dei re tra i suoi antenati.”
Platone
parte dalla considerazione della schiavitù di ciò che esiste di
spirituale
nell'uomo nei confronti della sua natura bestiale e arriva a
giustificare
la schiavitù sul piano sociale ed etnico. Così come infatti è
necessario
e giusto sottomettere la parte bestiale a quella divina che è in
ogni
essere umano, allo stesso tempo, è giusto che colui che non riesce a
comandare
a ciò che ha di bestiale in sé si sottometta a colui in cui
piuttosto
prevale e domina la parte divina. Segno per Platone del
mancato
assoggettamento interiore dell'animale all'uomo è il lavoro
manuale.
Non
è dunque un danno per Platone se il servo viene soggiogato da suo
padrone,
perché, in tal modo, si riflette, dall'interno all'esterno, un
ordine
delle cose che è divino e che ha una finalità precisa: “Affinché
fin
che
è possibile, tutti in uguaglianza ed amicizia siamo governati dallo
stesso
reggitore”, un concetto di “uguaglianza ed amicizia” questo che
evidentemente
è vincolato anche alla sorte che a ciascuno capita in virtù
della
metensomatosi (trasmigrazione delle anime in vari corpi) in cui
Platone
crede fermamente e con cui si spiega la nostra citazione iniziale.
Teopompo,
storico greco vissuto ai tempi di Filippo secondo di
Macedonia
ci parla per la prima volta del commercio di schiavi praticato
a
Chio. Non di rado capitava che i greci cadessero prigionieri degli
etruschi.
Nella
civiltà etrusca i servi erano denominati lautni,
ed erano spesso
importati
come merce da paesi lontani o catturati durante le numerose
battaglie
per il predominio sul commercio tirrenico: le notizie su di loro
ci
sono pervenute soprattutto tramite i loro luoghi di sepoltura dove
vennero
cremati e posti in recipienti di terracotta, o tumulati in piccole
nicchie
scavate nelle strutture sepolcrali dei padroni.
Un
illustre studioso della civiltà greca come Moses Finley precisa che
"uno
degli aspetti della storia greca è, in breve, il progredire, mano
nella
mano,
di libertà e schiavitù".
In
Grecia, in ogni caso, prevaleva di gran lunga la condizione sociale
sul
tipo
di mansioni svolte ed evidentemente un forte tratto distintivo tra
cittadini
e servi era la possibilità di esercitare i diritti politici, dai
quali,
comunque,
restavano esclusi anche gli stranieri e le donne.
L'attività
che di gran lunga richiedeva l'uso di manodopera servile era
l'agricoltura,
anche se il suo utilizzo non era così esteso come accadrà poi
nei
latifondi romani. L'Economico di Senofonte ci dà varie notizie nel
merito.
Poteva anche capitare che il servo fosse dato in affitto, e in ogni
caso,
esso veniva utilizzato specialmente quando le braccia dell'ambito
famigliare
erano insufficienti per svolgere tutte le mansioni lavorative.
Anche
un amministratore di terre da coltivare poteva appartenere al
rango
servile.
Ricchi
privati potevano arrivare ad affittare un grande numero di
schiavi
da utilizzare nelle grandi miniere come quelle d'argento del
Laurion
in Attica, in quel luogo di pena e di fatica lo stratego Nicia arrivò
ad
affittarne circa un migliaio e questo era uno degli investimenti a
cui si
dava
maggior valore.
Anche
l'artigianato faceva largo uso di manodopera servile, abbiamo
notizie
in merito alla fabbrica di scudi di Lisia che impiegava 120 schiavi,
e
sul padre di Demostene che utilizzava 32 coltellinai e 20 fabbricanti
di
letti.
Infine
quasi tutti coloro che non erano ridotti in una condizione di
povertà
più accentuata, facevano uso di servi in ambito domestico,
sostituendo
il padrone nei suoi vari mestieri oppure accompagnandolo
in
viaggio.
Nel
mondo greco inizia anche una riflessione sulla condizione dello
schiavo
da ritenere un essere umano dotato delle stesse capacità e
possibilità
rispetto a tutti gli altri. Plutarco ne “La Vita di Catone” così
si
esprime
nel merito:
“Senonche
il cacciar via e vendere gli schiavi a causa della loro
vecchiaia,
dopo averli sfruttati come bestie da soma, io ritengo segno
di
un animo meschino, di un uomo che non crede all'esistenza di altri
rapporti
fra uomo e uomo al di fuori dell'utilita. [2] Eppure sappiamo
che
la bonta occupa un campo piu vasto di quello della giustizia,
giacche
noi siamo portati per natura a usare la legge e la giustizia
soltanto
nei rapporti con gli uomini, mentre si da il caso che siamo
portati
alla beneficenza e alla carita nei confronti degli animali, che
sono
privi della ragione: e come un'acqua che sgorga dalla copiosa
fonte
della bonta. All'uomo dall'animo gentile si addice dar nutrimento
ai
cavalli fiaccati dall'eta e ai cani, non solo quando sono cuccioli,
ma
anche
quando in vecchiaia hanno bisogno di essere nutriti. [3] Allorche
il
popolo ateniese costruiva l'Hecatompedon [il Partenone] mandava
libere
e indipendenti al pascolo tutte quelle mule che vedeva
maggiormente
impegnate nei lavori. Si racconta che una di esse di sua
iniziativa
tornasse giu ai lavori e si mettesse a correre accanto ai
giumenti
che tiravano su verso l'Acropoli i carri e li precedesse
guidandoli,
come per esortarli e incitarli: gli Ateniesi decretarono che
la
bestia fosse mantenuta a spese dello Stato per tutta la vita. [4]
Accanto
al sepolcro di Cimone ci sono anche le tombe delle cavalle con
cui
egli visse vinse tre volte a Olimpia. E molti altri hanno dato
sepoltura
a cani allevati a casa loro e divenuti loro compagni. Tra
questi
Santippo il Vecchio tributo onori funebri al cane che nuoto a
fianco
della sua trireme fino a Salamina (quando gli Ateniesi
abbandonarono
la loro citta) sull'altura che ancora oggi chiamano
"Tomba
del Cane". [5] Non
bisogna dunque far uso di esseri che
hanno
un'anima come se fossero delle scarpe o dei recipienti
che
una volta rotti o consumati per l'uso gettiamo via, ma
bisogna
che ognuno abitui se stesso, se non altro per
l'esercizio
di umanità, ad essere gentile e dolce nei loro
confronti.
[6] Io neppure un bue lavoratore venderei quando fosse
divenuto
vecchio; tanto meno un uomo vecchio, facendogli mutare la
terra
in cui e cresciuto e la sua vita abituale col darlo in esilio per
pochi
spiccioli,
un uomo che sara inutile per chi lo compra, come lo e per chi
lo
vende? [7] Catone, invece, come facendosi bello di queste cose,
racconta
che per non mettere in conto allo Stato il prezzo del suo
trasporto,
lascio in Spagna anche il cavallo di cui si era servito durante
le
campagne militari quando era console. Se questo modo di
comportarsi
sia da considerare segno di grandezza d'animo oppure di
grettezza
e questione su cui e possibile usare argomenti in senso
opposto”
( PLUTARCO, Vita
di Catone 5, in Vite
parallele a cura (e
traduzione)
di Antonio Traglia. Edizioni UTET 2005).
A
misurare però la distanza tra il dire e il fare, non infrequente
quando si
tratta
di filosofia, abbiamo una curiosa testimonianza di Gellio che ci
racconta
un episodio riguardante lo stesso Plutarco: “Poiche
un suo
servo
aveva commesso una volta un’azione molto grave, Plutarco
ordino
di togliergli la tunica e di sferzarlo. Mentre il servo veniva
fustigato,
emetteva lamenti e versava lacrime; infine ricorse a parole
di
rimprovero e, rivolto al padrone, disse: “Sappi che e cosa
vergognosa
che un filosofo si arrabbi: tu infatti, mentre io ero presente
e
ascoltavo, spessissimo discutesti sui mali dell’ira. Non ti
vergogni
dunque
tu, che vuoi essere chiamato filosofo, di punirmi con moltissime
percosse,
cedendo all’ira?”. Allora Plutarco con calma e tranquillita
rispose:
“Ti sembro forse arrabbiato io? Pensi forse che io sia stato
travolto
dall’ira? Non ho, come vedi, gli occhi torvi, ne faccio gesti
inconsulti,
ne dico qualcosa di cui debba pentirmi o vergognarmi. Tutte
queste
cose, se non lo sai, sono solitamente3 segni di ira”. E, rivolto il
discorso
a colui che frustava il servo, disse: “Mentre io e costui
discutiamo
sull’ira, porta a termine quello che ti ho ordinato”.
(Aulo
Gellio,
Noctes Atticae 1.26)
Ecco,
questo ci fa ben capire come, in un' epoca in cui sicuramente il
dibattito
sulla schiavitù, almeno fino all'Ellenismo, divenne sempre più
fervido
e ricco di implicazioni, specialmente, come vedremo, nella
filosofia
stoica, ci si guardò bene dallo smettere una pratica che era
fondamentale
e di vitale importanza per il mantenimento di un intero
assetto,
sociale, politico e soprattutto economico.
La
presenza stessa di una ingente massa di schiavi a disposizione per i
più
svariati lavori, influenzò la stesso sviluppo della scienza greca.
Se
infatti
in alcuni casi, come in quello di Archimede alla prese con gli
assedianti
Romani, l’interesse per un’immediata applicazione pratica
della
teoria è palese, rimane pur vero che l’amore della conoscenza
(philo-sophia),
in quanto tale, come “invenzione” tipicamente greca, può
tranquillamente
venire concepito come amore della conoscenza in se
stessa,
senza con ciò escludere affatto che questo possa avere come
conseguenza,
indiretta, una ricaduta pratica anche
di vaste
proporzioni.
La
scienza greca, grazie all'utilizzo di schiavi restò prevalentemente
una
scienza
speculativa, e le rare applicazioni pratiche che furono maggiori
in
epoca ellenistica, proprio quando cominciò ed essere messa in
discussione
la condizione della servitù come “necessaria secondo
natura”,
furono volte a creare effetti sorprendenti, più che a modificare
concretamente
determinati assetti pratici nel mondo del lavoro e della
produzione
di beni, e l'energia prodotta in gran parte con l'utilizzo di
forza
animale ed umana, non venne sostanzialmente sostituita.
Per
capire come si associasse la condizione del servo ad uno “stato di
natura”,
torniamo ad Aristotele e notiamo che nel suo primo libro de la
Politica,
egli, esplicitamente si schiera contro coloro che ritenevano la
schiavitù
ingiusta e ribadisce che essa non solo è necessaria a tutto il
contesto
sociale ed economico, ma è per di più utile agli schiavi stessi.
Per
Aristotele è schiavo colui in cui prevale la funzione del corpo, e
che,
pur
essendo anch'egli libero, ha una libertà assai limitata a cui
conviene
essere
guidata e comandata. La natura fa diversi i corpi degli schiavi da
quelli
dei liberi, e come asseriva anche Platone, il barbaro è schiavo per
natura
e ha bisogno di poca virtù, quella che è solo necessaria ad
adempiere
ai suoi doveri.
La
schiavitù fa parte quindi, secondo Aristotele, dello Stato perfetto,
e
così
come lo Stato si compone di case, la casa si compone di liberi e di
schiavi.
Pertanto
esistendo la casa e lo Stato secondo natura, anche la schiavitù è
destinata
ad esistere per il medesimo motivo.
Perché
Aristotele ci tiene a ribadire questi concetti? Per il semplice
motivo
che il concetto dell'uguaglianza per natura di tutti gli uomini si
era
già fatto strada prima di lui, con i Sofisti, e tornerà a
risvegliarsi in
epoca
ellenistica.
Ricordiamo
infatti le parole di Antifonte: “Per natura siamo tutti uguali e
pure
noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobile origine, mentre,
comportandoci
da barbari, disprezziamo chi è di oscuri natali”
La
concezione di fondo della sofistica era infatti tesa a dimostrare
l'uguaglianza
di tutti gli uomini come condizione di partenza, come pari
opportunità
data “formalmente” a tutti gli individui, tra i quali dovranno
emergere
coloro che saranno dotati di maggiori attitudini ad acquisire la
virtù,
e non coloro che nascono privilegiati dalla nobiltà di sangue.
La
concezione dei sofisti dell'uguaglianza naturale di tutti gli esseri
umani
viene ripresa ne periodo ellenistico, in particolare dai filosofi
cinici
e stoici, per i quali la virtù non è, come nella scuola socratica,
associata
alla conoscenza, ma piuttosto all'autocontrollo,
all'affrancamento
morale dalle passioni. La schiavitù o la libertà
rappresentano
quindi, anche sulla scia di ciò che abbiamo già detto in
merito
a Platone, non una questione etnica o sociale, ma
specificatamente
morale. Ciò si deve in particolare alle conquiste di
Alessandro
Magno e al superamento progressivo dell'opposizione tra
greco
e barbaro.
Gli
stessi fondatori della scuola stoica, Zenone e Cleante,
sperimentarono,
in particolare il secondo, di persona, il lavoro manuale
e
la povertà.
Tra
gli stoici antichi Crisippo afferma che “nessun uomo è schiavo per
natura”
e che “solo il saggio è libero, gli stolti sono servi”.
Nel
mondo romano la condizione dello schiavo subì una notevole
evoluzione
durante il corso dei secoli.
Nei
primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti
nel
sistema
patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo
stesso
pater familias,
aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi
erano
considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun
diritto.
All'inizio
del II sec. a.C., quando iniziarono le grandi guerre di conquista
del
Mediterraneo, raramente le famiglie romane avevano più di uno
schiavo,
però intorno alla fine del medesimo secolo, in particolare al
termine
delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era
enormemente
aumentato al punto da alterare i rapporti tra schiavo e
padrone.
Il
mercato degli schiavi divenne così una delle attività commerciali
più
produttive
del Mediterraneo, anche perché i ricchi proprietari terrieri
avevano
continuamente bisogno di una crescente manodopera nei loro
latifondi.
Il più grande mercato venne organizzato nell’isola di Delo,
dove,
in tempi favorevoli, si potevano vendere circa 10.000 schiavi al
giorno.
Le
condizioni degli schiavi furono inizialmente pessime e sfociarono in
aperta
rivolta con Spartacus, dimostrando che anche l'impero poteva
essere
seriamente minacciato senza norme che garantissero ai servi un
minimo
di integrità, solo ai tempi di Ottaviano Augusto vennero varate
delle
leggi per garantire il servo da determinati abusi del suo padrone
L’estendersi
dell’economia schiavistica ebbe in ogni caso conseguenze
disastrose
per la popolazione italica, non solo perché ostacolava forme
più
evolute di sviluppo della scienza e della tecnica, ma anche perché
incrementava
la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano
era
più emancipata la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco
rispetto
a quella di un cittadino libero privo di proprietà.
Nel
II sec. d.C. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non
se
ne comprava alcuno, perché il loro mantenimento era troppo costoso,
oppure
se ne possedevano moltissimi. Due era il numero minimo, ma
mediamente
la proprietà era di otto.
Il
livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la
quantità e la
qualità
dei servizi privati, domestica ed extra domestica, erano
indirettamente
proporzionali alla quantità e qualità di schiavi posseduti.
Un
avvocato, ad esempio, aveva come biglietto da visita presso il suo
cliente,
la scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale.
Plinio
il Giovane (età di Traiano), che dichiarava di possedere modeste
ricchezze,
ne possedeva almeno 500, e di questi ne liberò almeno 100 nel
suo
testamento.
Il
massimo consentito dei riscatti in base alla legge Fufia Canina,
dell'8
a.C.,
era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti.
Nell'età
imperiale Flavia in cui gli imperatori furono inclini allo
stoicismo,
Adriano sottrasse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di
morte,
e Antonino Pio e Costantino arrivarono a considerare omicidio
l'assassinio
del servo, punendo chi uccideva un figlio con le stesse pene
di
chi uccideva il padre.
Successivamente,
con altri provvedimenti, si consentì allo schiavo di
mettere
da parte, coi suoi risparmi, una somma che gli fosse utile per
qualche
spesa a piacimento o gli consentisse di riscattarsi, quando non
era
lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo. Già dal tempo di
Nerone
si assistette a casi di servi divenuti lberti, che ereditando i beni
dei
loro padroni erano immensamente più ricchi di molti cittadini
romaniil
caso di Trimalcione narrato nel Satyricon di Petronio è
emblematico.
Tra
gli autori latini che menzionano questioni relative alla schiavitù,
spicca
Seneca ed in particolare la sua lettera XLVII a Lucillio in cui, tra
l'altro
scrive: “Tu vuoi
credere che costui, che tu chiami schiavo, e nato
dal
medesimo elemento, gode dello stesso cielo, che respira, vive e
muore
nel ( nostro ) medesimo modo! Tanto tu lo puoi vedere libero
quanto
egli ti puo vedere schiavo. Il caso, durante le stragi imposte da
Mario,
schiaccio molti nati da nobilissime famiglie e che, attraverso il
servizio
militare, aspiravano al rango senatorio; uno lo rese pastore,
un
altro guardiano di capanna: prova ora a disprezzare un uomo di
condizione
tale che tu ci puoi finire mentre lo stai disprezzando”.
Nella
concezione filosofica di Seneca tutta la vita, è da intendersi come
un
lunga schiavitù e a tal fine, è necessario conoscere e vivere nella
propria
condizione il più serenamente possibile, imparando a sopportare
le
circostanze avverse che non dipendono da noi, mantenendo un animo
interiormente
libero in cui si possa coltivare l'autentica virtù che non
non
è preclusa a nessuno, nemmeno agli schiavi i quali, per questo, sono
anch'essi
uomini.
Tuttavia
Seneca non giunge alla conclusione che uno schiavo virtuoso
dovrebbe
anche essere emancipato dalla schiavitù sul piano giuridico ,
poiché
tale condizione riguarda solo il corpo dello schiavo, il quale,
consegnato
dalla sorte ad un padrone, non può mutare il suo destino sul
quale
non si può intervenire per mutarlo. Ecco dunque che sulla scia di
Platone
e degli stoici antichi, anche Seneca ribadisce che vera schiavitù
non
può essere che quella volontaria, l'essere servi del vizio.
In
virtù di ciò, secondo il filosofo latino, il padrone deve vivere
con il
suo
servo " clementer
et comiter", dandogli la
possibilità di esprimersi,
di
emergere per le sue qualità e anche di esercitare la giustizia, in
quanto
ogni
uomo deve considerare che l'unica differenza che può intercorrere
tra
due uomini di diversa condizione è data dalla fortuna che assegna ad
ognuno
la “fortuna” che
in senso latino era da intendersi come destino.
“Tutti
gli uomini sono in realta degli schiavi e solo il saggio e libero”:
questo,
in particolare, è anche il pensiero di Epitteto, vissuto al tempo
dell'imperatore
Marco Aurelio, egli arriva persino a teorizzare
l'uguaglianza
di tutti gli esseri umani affermando in particolare che:
“"veniamo
tutti da Dio" e che "Dio è padre degli uomini e degli dei"
(Diatribe,
II, 8, II). .
Per Filone Alessandrino, promotore della
conciliazione
fra Ellenismo ed Ebraismo, inoltre, il figlio di uno schiavo è
a
sua volta uno schiavo, tuttavia l'uomo non lo è per natura, ma si
rende
tale
in determinate circostanze.
La
servitù dal Medioevo all'Età Moderna.
La
servitù nel Medioevo assume forme assai diverse rispetto a quelle
messe
in atto nella società antica.
In
tale periodo la condizione del servo variava a seconda del sesso,
dell'età
e dei compiti da svolgere. Alcuni vivevano in tale condizione solo
fino
a che non erano in grado di fondare un loro nucleo famigliare, altri
invece
lo restavano per tutta la vita o in determinati periodi. Lo erano i
figli
di contadini privi di eredità, o nelle città le mogli degli
artigiani e dei
lavoratori
a giornata.
Nel
tardo medioevo era usuale che la condizione del servo fosse riservata
alle
persone non coniugate appartenenti alle classi popolari di città o
di
campagna
che non potevano sposarsi per questioni di successione o per
l'accesso
restrittivo alle professioni artigiane. Solo il concubinato poteva
consentire
queste proibizione.
In
generale, il salario della servitù era vario e comprendeva vitto,
alloggio,
indumenti (secondo la necessità e denaro) e sicuramente più
basso
per le donne rispetto a quello degli uomini. Non era facile
risparmiare.
I padroni istituivano talvolta nei loro testamenti delle
disposizioni
per la propria servitù; le domestiche ricevevano, ad
esempio,
alcune volte un corredo nuziale.
E'
una condizione dunque che appare complessivamente più favorevole
rispetto
a quella del mondo antico.
I
servi della gleba inoltre, a differenza degli schiavi antichi, non
venivano
considerati
"cose" ma persone, avevano il diritto ad una loro proprietà
privata,
che era però limitata ai beni mobili, potevano sposarsi, avere
figli
che potevano ereditare i loro beni. Il feudatario
non poteva
minacciare
la vita del servo della gleba il quale però poteva essere
venduto
insieme alla terra, su cui aveva il diritto-dovere di restare ma da
cui
non poteva nemmeno essere cacciato. Dai doveri rurali, in molte
zone
d'Europa, a poco a poco, molti servi infine si sottrassero con il
loro
trasferimento
in città.
La
schiavitù nel Medioevo era praticata soprattutto dai Saraceni, nei
vari
mercati
allestiti in tutto il Mediterraneo e non era infrequente durante le
loro
razzie finirne vittime, specialmente lungo le coste italiane.
Anche
la repubblica di Venezia, specialmente nell'Alto Medioevo, fu
coinvolta
nella tratta degli schiavi, in particolare con i Saraceni, tanto
che
la parola “ciao” molto in uso nella lingua italiana, deriva
proprio dal
veneziano
“sciao”, a sua volta derivante da sclavus e slavus, l'abitante
della
Slavonia che includeva la Dalmazia.
Tale
termine, con forte accezione etnico-razziale, entrò in uso in
particolare
dopo la guerra che Ottone il grande fece ai popoli slavi
riducendoli
in servitù.
La
Serenissima, in ogni caso, fu anche la prima Repubblica che abolì la
tratta
degli schiavi infatti nell'anno 960 d.c. il ventiduesimo doge Pietro
IV°
Candiano, con la sua solenne promissione, vietò il commercio di
schiavi
a Venezia, che fu il primo Stato al mondo ad abolire questo
infame
commercio, da allora in poi gli schiavi che arrivavano a Venezia
cominciarono
ad essere liberati, anche se tale pratica non cessò
definitivamente
con tale promissione, perché risulta che ancora in pieno
XIV
secolo, Venezia partecipava alla tratta degli schiavi nel
Mediterraneo,
da un editto del 1386 del Senato veneziano che vietava il
commercio
degli schiavi nella pubblica piazza.
Spesso
gli schiavi entravano a far parte della servitù dei Nobili
Veneziani,
dimoravano così nei Palazzi o in alcune piccole case che
venivano
costruite vicino agli edifici centrali dei ricchi e dei nobili, ed
erano
remunerati mensilmente con un salario, il quale doveva bastare al
sostentamento
delle loro famiglie.
La
famiglia nobile spesso provvedeva ai pasti due volte al giorno per
tutta
la servitù, anche quando una parte consistente della popolazione
veneziana
si poteva permettere un solo pasto al giorno.
Non
di rado, accadeva che qualche nobile scegliesse nella famiglia di un
servitore
un figlio o una figlia a cui si forniva un'istruzione tale che
sapesse
"leggere e scrivere" per rappresentare il casato da cui
dipendeva
il
servitore e dargli così maggior prestigio.
Anche
se Venezia precorse di molto i tempi, con il suo declino, in epoca
moderna,
la schiavitù divenne ancora una volta uno straordinario
strumento
di sfruttamento e di produzione.
Furono
le scoperte geografiche che fecero aumentare per altri tre secoli
in
maniera vertiginosa l'uso della manodopera ridotta in schiavitù.
Milioni
di indios nelle Americhe vennero ridotti in schiavitù per
praticare
i lavori più diversificati e altrettanti ne morirono per le
malattie
importate dagli europei o per gli stenti.
Dopo
che queste popolazioni furono sterminate ci si rivolse di nuovo
all'Europa
con la deportazione di "schiavi bianchi": ex galeotti,
condannati
ai lavori forzati o in vari casi semplicemente persone
disperate
che, per sfuggire alla povertà, si lasciavano soggiogare da
lunghi
contratti che li rendevano pressoché schiavi. Quando anche
questo
sistema di approvvigionamento si rivelò insufficiente, i
conquistatori
si rivolsero all’Africa e qui trovarono la soluzione al loro
problema.
A
partire dal 1510, questa importazione di manodopera da utilizzare
come
fonte di schiavitù divenne sempre più frequente e i sovrani davano
in
appalto ai mercanti o a ricchi marinai la possibilità di commerciare
all'ingrosso
grandi quantità di schiavi provenienti dall'Africa. Questo
metodo
si chiamava asiento,
ed era un contratto tra il re e un contraente
(un
privato o una compagnia) che comportava il rispetto di precise
condizioni
di tempo di consegna e di prezzo.
Progressivamente
questi contratti passarono da licenze per un numero
limitato
di schiavi, fino ad asientos
che potevano comportare la
consegna
di decine di migliaia di essi in pochi anni si calcola che il
portoghese
Gomes Reynal,
in particolare, comprò nel 1592 un asiento
per
trasportare 38.250 schiavi durante nove anni ad un ritmo di 4.250
l’anno.
Vi era poi un diffuso commercio clandestino e di contrabbando
praticato
da olandesi, francesi e inglesi che erano rimasti esclusi da
quello
che all'epoca appariva come un vero e proprio monopolio della
tratta
degli schiavi.
Il
paradosso è che il secolo dei lumi, quello che si concluse con la
Rivoluzione
francese e con la Dichiarazione
dei diritti dell’uomo, che
ebbe
come protagonista il teorico della tolleranza Voltaire e culminò con
la
pubblicazione dell’Enciclopedia,
fu anche quello in cui aumentò
più
che
in ogni altra epoca il commercio di centinaia di migliaia di schiavi,
provenienti
dalle coste africane e deportati verso quelle americane. Dagli
inizi
del Settecento secolo infatti, fino all’abolizione del traffico
legale
degli
schiavi nei primi anni del’ 800, la tratta degli schiavi assunse
proporzioni
spaventose con circa 6.051.000 uomini, donne e bambini
africani
che vennero condotti a forza e in condizioni disumane nelle
Americhe,
tra i quali 578.000 nelle colonie spagnole, 1.749.300 in quelle
inglesi
del nord America e delle Antille (Giamaica, Isole Sottovento,
Barbados,
Trinità, Grenada), 1.348.400 nelle le colonie francesi (Santo
Domingo,
Martinica, Guadalupa, Guyana, Louisiana), 460.000 in quelle
olandesi,
24.000 nelle Antille danesi, 1.891.400 nel Brasile portoghese;
la
media annua raggiunse i 55.000 uomini, con punte di 65.000 fra il
1751
e il 1800.
L'abolizione
della schiavitù e la nascita della servitù salariale
con
la Rivoluzione Industriale.
Le
tappe che portarono alla abolizione della schiavitù furono varie e
dilazionate
nel tempo, in ogni caso, bisogna rilevare che l'incremento di
tale
pratica, verificatosi nel XVIII secolo, fu la premessa per
quell'accumulo
di capitali che rese possibile l'avvento della rivoluzione
industriale,
con ciò si passa da una servitù completa ad una servitù
salariale,
non meno utile ma meno dispendiosa, come fa notare lo stesso
teorico
dell'economia liberista: Adam Smith nella sua opera La
Ricchezza
delle Nazioni: “Benche il mantenimento ed il logorio di un
servo
libero siano ugualmente a spese di uno schiavo..l'opera fatta
dagli
uomini liberi alla fine risulta piu a buon mercato che non quella
fatta
dagli schiavi...L'esperienza di tutti i tempi e di tutte le nazioni
dimostra
che l'opera fatta dagli schiavi benche appaia costare
unicamente
il loro mantenimento, e, in fin dei conti la piu cara di tutte.
Un
uomo che non puo acquistare alcuna proprieta, non puo avere altro
interesse
se non quello di mangiare quanto piu e possibile e di lavorare
quanto
meno e possibile. Qualunque opera faccia, al di la di cio che e
sufficiente
per ottenere il suo proprio mantenimento puo essergli
spremuta
solo per violenza e non per alcun suo proprio interesse”
Smith
aggiunge inoltre che il lavoratore libero è dotato di inventiva e
può
mettere
in atto migliorie, che, se per caso uno schiavo fosse in grado di
attuare,
lo farebbe più per pigrizia e per faticare meno, piuttosto che per
ricavare
vantaggi dalla produzione.
Fu
soprattutto la diffusione dell'opera di Rousseau e la teorizzazione
del
“buon
selvaggio”, cioè la tesi secondo cui l'uomo nello stato di natura
è
fondamentalmente
buono ed amichevole, a mettere in crisi fortemente
l'uso
della manodopera indigena. Così infatti esordisce Rousseau nell'
Emilio:
“ogni cosa e buona mentre lascia le mani del Creatore delle
cose;
ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo”
In
ogni caso, solo alla fine del XVII secolo nacque in Europa un
movimento
di protesta contro la tratta degli schiavi che cominciò ad
essere
considerata moralmente inaccettabile e che trovò terreno fertile
nei
movimenti dei millenaristi, dei perfezionisti e dei quaccheri, oltre
che
una certa eco nello Spirito delle Leggi di Montesquieu, nella
pubblicazione
dell'Enciclopedia di D'alembert e Diderot e nella Storie
delle
indie dell'abate Raynal.
Fu
inoltre la Rivoluzione Americana, con le sue conseguenze nel traffico
e
nell'incremento di una produzione rivale di canna da zucchero, che
fece
crollare i prezzi e salire i costi di produzione, causando un forte
declino
nel sistema coloniale il quale ebbe forti ripercussioni
nell'incremento
della causa abolizionista.
Fu
in Francia e in Gran Bretagna che ebbe luogo maggiormente la
campagna
per l'abolizione della schiavitù. Nel 1793 la Convenzione abolì
la
schiavitù ma Napoleone la ristabilì dopo pochi anni, mentre nel
1807
Wilberforce
ottenne che fosse votata una legge che dichiarava illegale
per
ogni suddito britannico la tratta degli schiavi, e tale istituzione
venne
abolita
poi nel 1833 anche nelle colonie inglesi, mentre solo nel 1848 in
quelle
francesi. In precedenza, al Congresso di Vienna, all'allegato 15
dell'Atto
finale (8 febbraio 1815), venne sottoscritta una Dichiarazione
contro
la tratta dei negri.
Le
navi inglesi pattugliavano le rotte dei commercianti di schiavi, ma,
nonostante
ciò, tale pratica continuò in vascelli clandestini, in
particolare
per la continua richiesta di manodopera nelle piantagioni di
canna
da zucchero a Cuba e in Brasile.
Solo
dopo la guerra di Secessione negli Stati Uniti nel 1865 e dopo
l'abolizione
della schiavitù che avvenne anche in Brasile, nel 1888, la
tratta
poté dirsi definitivamente sconfitta. L'ultimo carico di schiavi fu
però
scoperto e liberato solo nel 1902, anche se tale pratica, sparita nel
commercio
delle rotte atlantiche perdurò nell'Africa sottoposta a
dominio
coloniale europeo in varie altre forme, sarebbe però alquanto
complesso
prenderla in esame.
Nel
XIX secolo, con l'avvento della Rivoluzione Industriale, si passa ad
una
nuova forma di servitù: quella “salariale”, essendosi fatto
indispensabile
ed interdipendente il lavoro degli operai nelle fabbriche,
rispetto
all'accumulazione di capitale degli imprenditori che ne erano
proprietari.
L'interdipendenza
tra servo e padrone è ben teorizzata da Hegel, la cui
filosofia
fu criticata ma ampiamente ripresa nello sviluppo metodologico
da
Marx.
Nella
Fenomenologia dello Spirito, Hegel afferma che il padrone non
lavorando,
costringe il servo a lavorare per lui. Il servo, però prestando
la
sua opera, trasforma la natura e la rende disponibile all'uomo,
quindi
la
umanizza, ed si oggettivizza in essa.
Però
con tale relazione necessaria il padrone non può che diventare
dipendente
dal servo. Il servo, d'altra parte, mediante il suo lavoro, non
solo
riconosce la sua identità nel prodotto del suo lavoro, ma diventa
anche
consapevole della dipendenza del padrone da lui, e con questo
diventa,
a livello di autocoscienza, libero nei confronti del padrone.
Questa
analisi è sicuramente alla base della elaborazione successiva
messa
in atto da Marx, però resta fondamentalmente intellettuale ed
astratta.
La
coscienza interiore del servo richiama la filosofia stoica, che
riconosceva
al servo la possibilità di prendere coscienza del proprio
valore
e della propria responsabilità.
Ma
mentre lo stoicismo, portando al ritiro dal mondo, dette origine allo
scetticismo,
in Hegel si ha un vero e proprio conflitto con il mondo che
genera
una rottura dell'autocoscienza, fino a causare la coscienza
infelice.
Tale
coscienza infelice
portò il cristianesimo a
sostituirsi allo
scetticismo,
protraendosi nel periodo medioevale.
La
coscienza infelice non risulta altro che dal contrasto tra la
coscienza
divina,
che è immutabile, e quella umana, che è mutevole e soggetta al
peccato.
Questa forma di coscienza quindi, più che ad una coscienza vera
e
propria e ad una consapevolezza, porta alla devozione, e di
conseguenza,
alla dipendenza totale della coscienza del singolo rispetto a
quella
divina.
Marx
critica il concetto hegeliano di lavoro nei suoi “Manoscritti
economico
filosofici del 1844” con le seguenti parole:
“Hegel
resta al punto di vista dell'economia politica moderna. Egli
intende
il lavoro come l'essenza, l'essenza che si avvera dell'uomo: vede
soltanto
l'aspetto positivo del lavoro, non quello negativo. Il lavoro e il
divenir
per se dell'uomo nell'alienazione o in quanto uomo alienato. Il
lavoro
che Hegel soltanto conosce e riconosce e il lavoro spirituale
astratto.
Questo, che costituisce dunque in genere la essenza della
filosofia,
l’alienazione dell'uomo che conosce se stesso o la alienata
scienza
autocosciente, questo intende Hegel come l’essenza di essa
filosofia
e puo quindi rispetto alla filosofia anteriore ricapitolarne i
diversi
momenti e presentare la sua filosofia come la filosofia.”
Ma,
dato che nella concezione marxiana la filosofia è prassi e concreta
trasformazione
del mondo, non astratta spiritualità, l'analisi della
alienazione
dovrà essere concretamente relazionata con i rapporti di
produzione
e con il sistema salariale.
Quello
che nella concezione hegeliana restava un “regno della libertà”,
relativo
allo sviluppo dialettico dello Spirito assoluto, in Marx diventa un
percorso
concreto di liberazione da un mondo in cui permane una
condizione
particolare di schiavitù che è quella “salariale” da parte di
una
classe sociale: il proletariato.
Scrive
Marx nel terzo libro del Capitale: "Di
fatto, il regno della liberta
comincia
soltanto la dove cessa il lavoro determinato dalla necessita e
dalla
finalita esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della
produzione
materiale vera e propria.[...] La liberta in questo campo
puo
consistere soltanto in cio, che l'uomo socializzato, cioe i
produttori
associati,
regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la
natura,
lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da
esso
dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro
compito
con minore possibile impiego di energia e nelle condizioni piu
adeguate
alla loro natura umana e piu degne di essa. Ma questo
rimane
sempre il regno della necessita. Al di la di esso comincia lo
sviluppo
delle capacita umane, che e fine a se stesso, il vero regno della
liberta,
che tuttavia puo fiorire soltanto sulle basi di quel regno della
necessita".
La
libertà è quindi frutto di una coscienza dello sfruttamento,
maturata
in
quanto classe sociale e non più solo come singola persona, essendo
per
questo “coscienza di classe”, e dà origine, conseguentemente, ad
una
“lotta
di classe” per appropriarsi dei mezzi di produzione e non essere
più
dominati dalla “forza cieca” dei capitalisti..
Marx
infatti afferma che anche nel mondo moderno permane una
particolare
forma di schiavitù che spesso non è facilmente identificabile:
la
«schiavitù salariata» da parte di una classe sociale la quale, in
una
condizione
di totale privazione della libertà di usare i propri mezzi, è
costretta
ad alienare la sua forza lavoro e a vendersi ogni giorno.
La
libertà di cui dispongono i lavoratori salariati risulta quindi
essere
solo
formale, perché essi sono sostanzialmente asservimenti ad un
meccanismo
economico che è solo mascherato con una «finzione
giuridica»
rappresentata dal contratto di lavoro e che risulta
concretamente
simile a quello dell'antico schiavo.
Marx,
mediante un accorto studio della storia e della filosofia, mette in
risalto
che nonostante l'apparente differenza di condizione formale,
l'antico
schiavo e l'operaio si trovano in una condizione sostanzialmente
analoga,
in quanto ad entrambi viene estorto “pluslavoro”, quel lavoro
cioè
necessario alla produzione del “plusvalore”, nella quantità di
lavoro
cioè
corrispondente al valore non corrisposto.
C'è
dunque una corrispondenza diretta tra lo schiavo antico e quello
moderno
che abbiamo già visto prefigurarsi nelle parole di Smith, lo
schiavo
moderno è solo incentivato a produrre dalla necessità di
riprodurre
la sua “forza lavoro” nell'illusione che gli resti qualcosa oltre
a
ciò,
mentre in realtà, il padrone dei mezzi che egli è costretto ad
usare
risparmia
la necessità di farsi carico della sua sopravvivenza, potendo in
ogni
momento sostituirlo con altri disposti a svolgere le sue stesse
mansioni
e ad “alienarsi” al meccanismo fabbrica.
Antico
schiavo, servo della gleba e schiavo salariato sono tre figure del
processo
del materialismo storico con cui Marx interpreta la storia come
lotta
e contrapposizione di classi sociali. Tre stadi di un medesimo
processo
che è evolutivo solo in quanto, nel terzo stadio della schiavitù
salariale,
l'operaio ha la possibilità, mediante la “coscienza di classe”,
del
suo
sfruttamento, di mettere in atto un processo rivoluzionario, per
spezzare
le catene dell'alienazione, ponendo così fine al conflitto di
classe
e conquistando la possibilità di vivere in una società in cui “il
libero
sviluppo di ciascuno e la condizione per il libero sviluppo di
tutti.”
Così
è infatti scritto nel Manifesto del Partito Comunista del 1848:
“Quando,
nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno
sparite
e tutta la produzione sara concentrata nelle mani degli
individui
associati, il potere pubblico perdera il carattere politico. Il
potere
politico, nel senso proprio della parola, e il potere organizzato di
una
classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella
lotta
contro
la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per
mezzo
della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come
tale,
distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso
abolisce,
insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni
d’esistenza
dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi
anche
il suo proprio dominio di classe. Al posto della vecchia societa
borghese
con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra
un’associazione
nella quale il libero sviluppo di ciascuno e la condizione
per
il libero sviluppo di tutti.”
Per
concludere questa rassegna sulle condizioni della servitù nell'età
moderna
e passare alla conclusione, analizzando quelle che tuttora
persistono
in quella contemporanea, faremo un breve riferimento alle
condizioni
in cui vennero ridotte le masse popolari nel Meridione d'Italia
dopo
l'unificazione avvenuta nel 1861, ed osserveremo la
rappresentazione
del “buon selvaggio” nella pittura di Gauguin.
Il
Risorgimento e in particolare l'Unità d'Italia di cui abbiamo appena
celebrato
il 150° anniversario, per i popoli del Sud della nostra penisola,
corrispose
ad un evento luttuoso e carico di implicazioni negative,
purtroppo
tuttora non sanate.
Il
Regno delle Due Sicilie, prima di quella che si rivelò essere una
vera e
propria
conquista ed annessione da parte del Piemonte, con le sue
truppe,
i suoi notabili ed i suoi prefetti territoriali, era uno dei regni
più
ricchi
dell'Italia preunitaria. Ci dilungheremmo troppo se
confrontassimo
nel dettaglio la sua condizione socioeconomica con
quella
di altri stati fortemente più indebitati, basteranno solo alcuni
dati
significativi:
i settori del tessile e quello metalmeccanico contavano
1.600.000
addetti contro il 1.100.000 del resto d'Italia. Vi nacquero
industrie
tecnologicamente avanzate, ci furono ferrovie e battelli a
vapore
e vi furono costruiti i primi ponti in ferro in Italia, opere d'alta
ingegneria
in parte ancora visibili sul fiume Calore e sul Garigliano. Le
industrie
tessili, navali, metalmeccaniche pullulavano in tutto il regno:
quella
di Pietrarsa, con mille operai e settemila d'indotto, ne era la punta
di
diamante.
Gli
operai lavoravano otto ore al giorno e guadagnavano abbastanza per
sostentare
le loro famiglie e per primi, in Italia, poterono usufruire di
una
pensione statale in quanto vi fu istituito un sistema pensionistico
con
ritenuta del 2% sugli stipendi che per allora era uno dei più
avanzati.
Nel
Regno la disoccupazione era praticamente inesistente e così
l'emigrazione.
Nel
1860 il debito pubblico del Piemonte era corrispondente alla cifra
astronomica
di oltre un miliardo di lire di allora (1.159.970.595.43)
accumulatosi
in seguito alle guerre risorgimentali, e doveva pagare £
57.561.532.18
di interessi annui alle banche inglesi, era una montagna
di
debiti, che 4 milioni di abitanti non sarebbero mai riusciti a
pagare.
Tale
debito però fu caricato con con la forza delle armi su tutte le
popolazioni,
specialmente le più povere, annesse con l'Unità d'Italia.
Ferdinando
Ritter ha scritto che: "...
il Regno delle Due Sicilie contribui
alla
formazione dell' erario nazionale, dopo l'unificazione d'Italia,
nella
misura
di ben 443 milioni di lire in oro, mentre il Piemonte, la Liguria e
la
Sardegna ne corrisposero 27, la Lombardia 8,1, il Veneto 12,7, il
Ducato
di Modena 0,4, Parma e Piacenza 1,2, la Romagna, le Marche e
l'Umbria
55,3; la Toscana 84,2; Roma 35,3...".
Immediatamente
dopo l'impresa dei Mille e la consegna del Meridione
d'Italia
da parte di Garibaldi a Vittorio Emanuele II, si scatenò una
repressione
feroce contro tutti coloro che cercarono di ribellarsi al
regime
di occupazione piemontese, con numero di morti da guerra civile.
Solo
nel primo anno, dal settembre del 1860 all'agosto del 1861 vi furono
ben
8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22
frati,
60
ragazzi e 50 donne uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6
paesi
dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate,
1.428
comuni sollevati.
La
Questione Meridionale di cui parlarono Salvemini, illustre esponente
socialista
e Gramsci, autorevole scrittore comunista, si aprì come una
voragine
che inghiottì milioni di persone, costrette ad emigrare per
riuscire
a sopravvivere ad un durissimo regime repressivo di
occupazione
che trovò solo nel brigantaggio una disperata quanto vana
resistenza
durata circa dieci anni, sino al 1871.
Le
condizioni, non a caso definite dei “vinti” dai maggiori autori
del
“verismo”
come Verga, si manifestano, anche nella rappresentazione
letteraria,
con un misto di sconforto e di miseria, per un destino che
appare
ai più insormontabile.
Tra
le novelle di Verga che illustrano meglio la condizione della
schiavitù
salariale
a cui furono sottoposti i lavoratori del Sud, fin dalla tenera
infanzia,
vi è Rosso Malpelo
che è un ragazzo costretto a
lavorare in una
cava,
e che molti prendono in giro a causa dei suoi capelli rossi. L'unico
suo
affetto è rappresentato dal padre, che però muore nella miniera,
lasciandolo
solo con la madre e la sorella che lo lo trattano male e sono
diffidenti
verso di lui. Dopo la morte del suo unico amico amico
Ranocchio,
consapevole di non contare più nulla per nessuno, Malpelo si
decide
di offrirsi volontario per scavare un cunicolo pericoloso dentro la
cava.
Dopo essere entrato nel cunicolo però sparisce nel nulla, e per gli
altri
lavoratori della miniera assume quasi le sembianze di un demone e
di
un fantasma terrorizzando il loro animo con la paura che possa
tornare
da un momento all'altro.
Verga
descrive la condizione del protagonista di questa novella come una
sorta
di riduzione ad una condizione “animale”, gli stessi sentimenti
umani
di Malpelo sono grottescamente destinati a mutare assumendo
comportamenti
sempre più duri. Sviluppa un rapporto di amore-odio
per
un ragazzetto arrivato da poco alla cava: Ranocchio, al quale una
lussazione
del femore impedisce di lavorare come manovale,
obbligandolo,
invece, a lavorare sottoterra.
Malpelo
lo picchia, però gli insegna nello stesso tempo, con rabbia mista
ad
affetto, le dure e feroci leggi della vita, le uniche che egli
conosce e in
cui
si è abituato a credere: la continua lotta di tutti contro tutti e
la
sopravvivenza
del più forte. Ranocchio, già malato e menomato, un
giorno
muore e Malpelo resta solo ad imboccare il cunicolo in cui
sparirà,
quasi fosse l'unica via d'uscita alla sua disperazione.
La
condizione della “schiavitù” di Malpelo è descritta in maniera
mirabile
in questo passaggio della novella di Verga:
“Era
avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di
manico
di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato
da
tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da
quattordici
ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorche il
padrone
lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la
razione
di busse non gliela aveva levata mai, il padrone; ma le busse
non
costavano nulla. Non si lamentava pero, e si vendicava di
soppiatto,
a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci
avesse
messo la coda il diavolo: percio ei si pigliava sempre i castighi
anche
quando il colpevole non era stato lui. Gia se non era stato lui
sarebbe
stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro
sarebbe
stato inutile.”
Nel
racconto di Verga anche la natura o persino gli oggetti sembrano
assumere
sembianze ostili ed il lavoro rappresenta per chi è sottomesso
e
sfruttato una vera e propria maledizione da tramandare da padre in
figlio.
In queste condizioni subumane prevalgono gli istinti elementari e
semi
bestiali , i soli che mantengono in vita gli esseri viventi e si
impongono
nei rapporti ispirati alla pura legge della convenienza e della
sopravvivenza
mediante il mors tua
vita mea.
Le
condizioni di Malpelo sono anche quelle a cui milioni di indigeni in
molti
dei continenti colonizzati dagli europei, sono sottoposti per
l'estrazione
e lo sfruttamento delle materie prime con cui il capitalismo
industriale
si avvia a potenziare la seconda fase espansiva della
Rivoluzione
Industriale.
Solo
in alcuni “paradisi” il mito del “buon selvaggio” sopravvive
alimentato
anche dalla fuga verso di essi da parte di artisti come
Gauguin,
consapevoli di appartenere ad una civiltà disumana in piena
decadenza
morale e civile.
Come
ha scritto Ren´ Huyghe, Gauguin fu il primo artista ≪a
prendere
coscienza
della necessita di una rottura perche potesse nascere un
mondo
moderno, il primo a sfuggire alla tradizione latina, disseccata,
ossificata,
moribonda, per ritrovare tra le leggende barbare e le
divinita
primitive, l'impeto originario, ed e stato anche il primo a osare
lucidamente
di trasgredire e anche di respingere la realta esterna
insieme
al razionalismo. Mentre l'arte occidentale aveva come proprio
perno
il noto, egli vi ha sostituito l'ignoto. Al di la delle costruzioni
plastiche,
di cui pure ha insegnato all'arte moderna la libera creazione,
ha
intuito le terre sommerse dell'anima, le loro intatte potenze in cui
la
civilta
decrepita e raffinata potrebbe ritemprarsi≫.
Gauguin
muta radicalmente il mondo che gli è proprio. E lo fa
scappando
lontano, salendo su un battello, in cerca di luoghi in cui non
vi
sia più alcuna traccia della cultura occidentale e del mondo
classico,
verso
un mondo altro e “dell'altro”, di altri personaggi e altre
culture. La
sua
è la premessa della ricerca che continuerà Picasso con le maschere
primitive,
per affermare con forza la rottura netta con la civiltà
occidentale.
A
proposito di uno dei soggetti dei suoi famosi ritratti: un'indigena
nuda,
così
si esprime l'artista: ≪immobile,
nuda, supina sul letto, gli occhi
enormemente
sbarrati dalla paura, Tehura mi guardava e sembrava
non
riconoscermi [...] Mi sembrava che una luce fosforescente uscisse
dai
suoi occhi dallo sguardo sbarrato. Non l'avevo mai vista cosi bella,
soprattutto
mai di una bellezza cosi commovente≫.
Gauguin
rimane quasi rapito dalla bellezza dei suoi personaggi che
traspare
dalle sue opere incantevoli che creò durante il suo soggiorno
thaitiano
ma la vita in quel paradiso tanto agognato nell'Oceania per lui
non
fu pienamente felice. La sua esistenza infatti fu devastata dalle
malattie,
dall'alcolismo, dalla sifilide e persino da un tentativo di
suicidio.
Durante il suo secondo soggiorno nelle Isole Marchesi, dove si
trasferì
nel 1901, passò dalla contemplazione della bellezza degli indigeni
all'abbracciare
la causa della loro liberazione, pagando il suo impegno
con
un periodo di detenzione per aver istigato gli indigeni alla
ribellione.
L'originalità
di Gauguin è talmente profonda ed autentica che ancora
oggi
ne avvertiamo quella straordinaria potenza che è dovuta proprio ad
una
sorta di sradicamento culturale. I suoi capolavori sono dipinti in
una
totale
immersione non solo nelle forme ma anche nei contenuti del
mondo
primitivo. Nella sua visione l'Occidente è ormai tramontato non
soltanto
nelle sue immagini, ma anche nel suo significato e nel suo
valore
storico. Gauguin, come ogni grande artista, è già oltre la storia.
La
Schiavitù nel mondo contemporaneo
Il
mondo contemporaneo, sviluppatosi successivamente alla prima
guerra
mondiale e dalla crisi del Positivismo, e con la fine dell'illusione
che
il progresso scientifico avrebbe aperto all'umanità le porte del
paradiso
sulla terra, in particolar modo, è caratterizzato, durante il
Novecento
dall'avvento di sistemi totalitari, come il fascismo, il nazismo
e
il comunismo stalinista, che hanno sostanzialmente ridotto l'essere
umano
alla condizione di servo di un sistema basato sulla statolatria, sul
culto
cioè dello Stato e dei suoi rappresentanti-padroni.
Tali
sistemi, in particolare quello nazista e quello stalinista, hanno
prodotto
i campi di lavoro e di sterminio come il lager e il gulag in cui
milioni
di esseri umani sono stati ridotti a pure “macchine da lavoro” e
trattati
peggio degli animali.
La
schiavitù, in tale versione “tecnocratica” poiché progettata e
gestita,
in
particolare nei campi nazisti, con l'ausilio di macchine e con i
primi
elaboratori
elettronici, forniti anche da industrie americane come l'IBM,
ha
raggiunto la sua versione più aberrante e distruttiva, perché ha
prima
ridotto
l'essere umano ad oggetto privo di identità, ad un numero di
matricola,
e poi lo ha annientato sino alla morte, non curandosi, come
accadeva
con lo schiavo antico, nemmeno di mantenerlo in salute per
poterlo
sfruttare nel tempo.
Nei
lager finirono sei milioni di ebrei, più gli oppositori politici,
principalmente
comunisti, socialisti, socialdemocratici e leader
sindacali.
Tra coloro presi di mira dai Nazisti vi furono anche scrittori e
artisti,
i Rom. Tra il 1939 e il 1945, almeno un milione e mezzo di
cittadini
polacchi furono deportati in Germania e destinati ai lavori
forzati.
Centinaia di migliaia di loro vennero anche imprigionati nei
campi
di concentramento nazisti. Durante l'occupazione dell'Unione
Sovietica
occupata, le autorità tedesche condussero una vera e propria
politica
di sterminio dei soldati sovietici presi prigionieri, le persone dai
“tratti
asiatici” e i leader politici e militari venivano prima selezionati
e
poi
fucilati. Altri tre milioni circa furono eliminati a causa della
mancanza
di alloggiamenti adeguati, di cibo e di medicine. In Germania,
i
Nazisti misero in prigione anche i leader delle chiese cristiane che
si
opponevano
al Nazismo, così come migliaia di Testimoni di Geova che si
rifiutavano
di usare il saluto nazista a Hitler o di arruolarsi nell’esercito.
Inoltre,
attraverso il cosiddetto “Programma Eutanasia”, si calcola che i
Nazisti
assassinarono 200.000 persone affette da disabilità fisiche o
mentali.
Infine, i Nazisti perseguitarono anche gli omosessuali
(soprattutto
gli uomini) il cui comportamento era considerato pericoloso
per
la tutela della razza germanica.
Gulag
in russo ha lo stesso significato ed etimologia di lager: "Glavnoe
upravlenie
ispravitelno-trudovykh lagerej",
"Direzione principale dei
campi
di lavoro correttivi"
La
sola contabilità delle vittime di questo durissimo e spietato regime
di
repressione
sovietico è terrificante, anche perché esso durò di più nel
tempo
rispetto a quello nazista.
Vi
furono rispettivamente:
-
80.000 fucilati senza essere stati sottoposti a giudizio e massacro
di
centinaia
di migliaia di contadini e operai insorti tra il 1918 e il 1922;
-
5.000.000 di morti a causa della carestia indotta alla popolazione
rurale
agli inizi degli anni '20;
-
deportazione ed eliminazione dei Cosacchi del Don;
-
assassinio programmato di 10.000.000 di persone nei gulag fra il 1918
e
il 1930;
-
eliminazione di quasi 1.000.000 di persone durante la "Grande
Purga"
del
1937-1938;
-
deportazione ed eliminazione di di 2.000.000 di kulak (contadini
piccoli
proprietari di terra) o presunti tali nel 1930-1932;
-
sterminio programmato di 6.000.000 di ukraini nel 1933 per carestia
indotta
e non soccorsa;
-
deportazione e sterminio dei tedeschi del Volga nel 1941;
-
deportazione e sterminio dei tatari della Crimea nel 1943;
-
deportazione e sterminio dei ceceni nel 1944;
Addirittura
un “direttore” di un gulag è stato decorato per essere riuscito
a
far morire (di stenti e torture) il 90% degli “ospiti” in un solo
mese.
Dai
dati recentemente usciti dall’archivio del KGB risulterebbe che i
GULAG
hanno avuto circa 29.000.000 di “ospiti” di cui 13.000.000
sono
morti.
La
dichiarazione dei Diritti dell'Uomo sottoscritta dopo la fine della
seconda
guerra mondiale dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948,
avrebbe
dovuto porre fine, una volta per tutte, ad un destino di
oppressione
e di schiavitù per gran parte del genere umano, ricordiamo i
suoi
primi cinque articoli:
Articolo
1. Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e
diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni
verso
gli altri in spirito di fratellanza.
Articolo
2. 1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà
enunciate
nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per
ragioni
di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione
politica
o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di
nascita
o di altra condizione 2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita
sulla
base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o
del
territorio
cui un persona appartiene, sia che tale territorio sia
indipendente,
o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non
autonomo,
o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
Articolo
3. Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla
sicurezza
della
propria persona.
Articolo
4. Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di
servitù;
la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto
qualsiasi
forma.
Articolo
5. Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a
trattamento
o a punizioni crudeli, inumane o degradanti.
Se
però osserviamo le condizioni in cui si trova oggi il mondo, ci
accorgiamo
che essi sono ben lungi dall'essere applicati concretamente.
Nel
2008 si è celebrato il 200° anniversario della abolizione della
tratta
degli
schiavi in America, ma se leggiamo i rapporti di una associazione
umanitaria
e no profit come Free the Slaves, ci rendiamo conto che ci
sono
tuttora ridotte in schiavitù più persone che ogni altra epoca.
Nei
400 anni in cui è stata legale, la tratta trans-atlantica degli
schiavi ha
spostato
più di 12 milioni di africani verso svariate colonie degli Stati
Uniti.
Secondo Free the Slaves gli schiavi oggi sono 27 milioni.
La
National Underground Railroad Freedom Center ci illustra inoltre il
fatto
che oggi 3 moderni schiavi su 4 sono donne e che la metà del totale
è
costituita da bambini.
Vari
altri milioni di individui sono sottoposti tuttora a diverse forme di
riduzione
della libertà, come il lavoro in schiavitù nei paesi del sudest
asiatico.
Il
costo degli schiavi oggi, inoltre, è notevolmente calato rispetto a
due
secoli
fa.
Nel
1850 uno schiavo veniva infatti venduto, nel sud degli Stati Uniti, a
ciò
che equivale oggi a 40.000 dollari. E in base alle stime di Free the
Slaves,
il costo di uno schiavo attuale si aggira sui 90 dollari, in base al
lavoro
che deve svolgere.
Un
giovane maschio adulto in Mali viene venduto per 40 dollari e il
prezzo
di una donna non sieropositiva può arrivare anche 1000 $,
quando
indirizzata nel mercato internazionale della prostituzione.
Un
esperto: Kevin Bales sostiene che proprio il basso costo della nuova
tratta
degli schiavi è destinato a renderla peggiore di quella antica. Gli
esseri
umani dei paesi poveri sono infatti, nell'economia capitalistica
globalizzata,
considerati essenzialmente come merci di basso costo e le
loro
condizioni sono quindi enormemente peggiorate.
Persino
negli Stati Uniti la schiavitù non è affatto terminata, è la
stessa
CIA,
il servizio segreto più efficiente al mondo, a rilevare che ogni
anno
vengono
“importati” negli Stati Uniti fino a 17.500 moderni schiavi.
Attualmente
oltre 50.000 individui sono impiegati nella prostituzione,
nel
lavoro in fattoria o come servitù domestica. Stando ai dati di tale
servizio
di intelligence, oltre 1.000.000 di persone si trova oggi in
condizione
di schiavitù negli USA.
La
forma di schiavitù attualmente più diffusa nel mondo è
rappresentata
dal
lavoro forzato che si verifica quando un individuo deve lavorare
forzatamente
per ripagare il suo debito. Così, sovente capita che molte
donne
africane o dell'Europa orientale si indebitano con una
organizzazione
criminale anche per arrivare nel nostro paese ed i
criminali
le costringono poi a prostituirsi per ripagare il “debito”
contratto,
a tempo indeterminato.
In
Brasile vi sono tuttora persone costrette al lavoro forzato che
vengono
scortate
da guardie armate, assoldate per tale scopo, da gruppi potenti di
criminali.
Sono
tuttora circa 20 milioni coloro che sono oggi costretti nel mondo a
lavorare
forzatamente.
Le
Nazioni Unite stimano che i profitti derivanti dal traffico di esseri
umani
si attestano attualmente sui 7 miliardi di dollari all’anno.
Eppure
si calcola che per liberare definitivamente il mondo dalla
schiavitù
basterebbe appena la somma di 40 dollari a famiglia, secondo
il
Center for Global Education di New York una cifra che globalmente
equivale
al budget di una settimana di guerra in Iraq.
Purtroppo
anche molti prodotti che entrano quotidianamente nelle
nostre
case sono il frutto di un lavoro condotto in condizioni di schiavitù,
come,
ad esempio cioccolata e cacao, cotone, acciaio, tappeti e tessuti
orientali,
diamanti e seta. Solo il marchio “Fair Trade” assicura che un
prodotto
non sia il risultato di tale sfruttamento e la sua diffusione
andrebbe
quindi incrementata.
E'
quindi anche responsabilità di ciascuno di noi controllare che le
attività
economiche da cui deriva la vasta gamma di beni di consumo che
utilizziamo
tutti i giorni, non provenga dallo sfruttamento di persone di
vario
genere ed in particolare dalla schiavitù dei bambini.
La
schiavitù, come ogni fenomeno umano, può essere debellata, se
sconfiggeremo
il perverso sistema economico e politico in cui essa
prolifera,
in particolare se sapremo liberare dalla schiavitù del debito
monetario
i vari stati più poveri del mondo che sono tuttora asserviti a
quelli
più ricchi in cui vive la minoranza privilegiata delle persone di
questo
unico pianeta in cui tutti siamo destinati a vivere.
Purtroppo
i recenti segnali di un'economia che procede tuttora a senso
unico
neoliberista globalizzato, vanno in direzione opposta e persino
Stati
fino a qualche tempo fa inclusi nell'alveo dell'emisfero di quelli
più
ricchi,
stanno lentamente scivolando, a causa dei loro debiti, in
condizioni
di maggiore dipendenza, povertà e riduzione delle risorse per
i
servizi pubblici, tra questi, anche l'Italia, recentemente, ha subito
un
notevole
regresso sociale ed economico che ha generato nuove forme di
dipendenza
e di schiavitù anche nel mondo minorile, in particolare tra i
numerosi
immigrati provenienti da varie parti del mondo ed immessi
clandestinamente
nel nostro paese.
La
condizione stessa della società dei consumi è tale da generare
forme
sempre
più consistenti e sofisticate di schiavitù e di dipendenza,
pensiamo
all'uso delle droghe, all'alcoolismo, al gioco d'azzardo e, negli
ultimi
tempi, anche alla dipendenza mediatica, con l'uso continuo di
apparecchi
telematici ed una continua connessione nella rete Internet.
Nella
società dei consumi attuale esiste non solo colui che è
materialmente
povero, ma anche una massa sterminata di persone
spiritualmente
misere, facilmente manipolabili da coloro che hanno il
monopolio
della gestione dei mass media e che li usano per costruire
consenso
per il potere politico ed economico che essi vogliono esercitare
sui
popoli ridotti in gran parte al ruolo di consumatori passivi.
Lo
schiavo moderno non è solo condizionato dai ritmi della produzione,
del
lavoro e dell'accumulazione di profitto, ma, dato che il sistema di
produzione
tende ad organizzate tutti i settori ed i momenti della sua
vita,
egli, in veste di lavoratore-consumatore, si viene a trovare nella
condizione
di colui che è dominato inconsapevolmente. Trascorre così
vanamente
il proprio tempo in distrazioni, divertimenti e vacanze
organizzate
e gestite sempre da altri e su cui egli non agisce in altra
forma
che come spettatore passivo pagante. Tutti i momenti della sua
vita,
di fatto, sono inquadrati in un sistema che resta alieno rispetto
alle
sue
capacità attive di analisi, di critica e di cambiamento. E la
conseguenza
è che la totalità della sua vita risulta completamente
sequestrata.
Ed egli si ritrova ad essere, sostanzialmente, uno schiavo a
tempo
pieno.
Solo
una adeguata diffusione della cultura e della formazione di una
forte
coscienza basata sul rispetto della legalità, sulla responsabilità
e
sull'impegno
civile, potrà invertire una tendenza rovinosa che mina le
basi
stesse della convivenza umana e logora il tessuto morale e sociale
della
società del XXI secolo, portando l'umanità, con il rischio di
devastazioni
ambientali su larga scala e con guerre mediante l'utilizzo di
armi
di sterminio di massa, sull'orlo dell'autodistruzione.
Purtroppo
i segnali che osserviamo provenire dal mondo odierno non
sono
incoraggianti, ciò nonostante, è nostro preciso dovere resistere e
diffondere
una cultura della consapevolezza, della giustizia, della
solidarietà
e del risveglio affinché ciascuno di noi sia concretamente
artefice
non solo del proprio destino, ma anche di quello di tutti coloro
che,
in un mondo sempre più a corto di risorse e sempre più affollato,
hanno
la necessità vitale di incontrarsi e di vivere liberamente gli uni
accanto
agli altri.
La
consapevolezza di un dramma è anche la luce che illumina la via
d'uscita
da esso, con questo flash sulla condizione dello schiavo nel
mondo
contemporaneo, espresso efficacemente in una poesia di
Panagoulis,
un uomo che fu impegnato politicamente e lottò per liberare
la
Grecia da una dittatura militare, concludiamo questa breve rassegna
con
la coscienza di dovere allo stesso tempo, conoscere, sperare e
lottare,
affinché
il progresso non sia solo una parola vana.
Il
progresso
C’erano
schiavi un tempo
Oggetti
di carne
Animali
con due piedi
che
nascevano e morivano
servendo
bestie con due piedi
Sì
c’erano
schiavi un tempo
che
in vita
li
teneva la speranza
della
Libertà
Anni
e anni sono passati
e
adesso
quegli
schiavi non esistono più
Ma
è nato
un
nuovo genere di schiavi
Schiavi
pagati
Schiavi
saziati
Schiavi
che ridono
Schiavi
che vogliono
Rimanere
schiavi
Questo
è il Progresso!
Leonardo
Felici
Roma, Maturità Classica 2012